Il sole di primavera sciolse alcuni pupazzi di neve, di cui restarono soltanto pochi bottoni ed un cappello ammaccato. Una bambina curiosa, di nome Luise, si recò dal suo Dio, che era solita interrogare nelle ore più silenziose. Gli chiese conto di quella scomparsa: – è mai possibile – domandò – che ad un certo punto qualcuno semplicemente svanisca? – Quella volta la bambina non ricevette risposta, ne dedusse che anche Dio si fosse sciolto. Di lì a poco si sciolse anche l’amato padre, così conobbe per la prima volta il dolore, che sarebbe stato uno dei protagonisti della sua vita.

Da grande Louise avrebbe indagato filosoficamente il problema del dolore, proprio in relazione a quello della morte di Dio, perché non le riusciva di capire come fosse possibile tollerare la sofferenza che ci troviamo a vivere, vista l’assenza di una provvidenza divina in grado di giustificarla. Avrebbe discusso di questa questione con i suoi maestri, uno dei quali, stava giusto elaborando una filosofia dell’affermazione, una filosofia del sì alla vita, nonostante tutto…

Questo maestro è Friedrich Nietzsche e Lou von Salomé, nell’agosto del 1882, si trovava con lui a Tautenburg, un paesino della Turingia immerso nella foresta, per condividere un periodo di studio comune e discutere temi per entrambi essenziali, tra i quali, il più rilevante, era il problema del male. Nonostante le interferenze della famigerata Elizabeth Nietzsche, sorella del filosofo cui era stato chiesto di vivere con loro per evitare scandali; nonostante i piccoli litigi tra i due amici; e la malattia che di tanto in tanto coglieva entrambi, quel mese insieme fu molto fecondo. Se l’idea originaria era che Nietzsche diventasse il maestro di Lou – alla quale avrebbe concesso una sorta di insegnamento esoterico, discutendo con lei pensieri fino ad allora mai pubblicati – da subito si instaurò un rapporto alla pari: fu lo stesso filosofo a incentivarla ad una piena autonomia intellettuale.

D’altra parte però, Nietzsche aveva una grande aspettativa sulla ragazza – che allora aveva soli ventuno anni – quella di farne la sua prima discepola (oltre che moglie), e questo doveva significare per lei una totale abnegazione alla fatica del lavoro filosofico. Per Nietzsche infatti, la filosofia non era in alcun modo una scienza tra le altre, che richiede unicamente rigore intellettuale. La filosofia era una missione di vita, che come tale necessitava di ogni tipo di energia posseduta e che arrivava a domandare l’estremo dell’utilizzo di sé in quanto esperimento conoscitivo. Lui aveva intrapreso quella missione nella maniera più radicale, ed alla giovane ragazza chiedeva di bruciare dello stesso fuoco. Ma la piccola Louise sarebbe diventata una psicanalista, non una filosofa, almeno non alla maniera intesa da Nietzsche. Fu così che la bella poesia di cui lui le fece dono come gesto di congedo – un congedo che non sospettava essere quello definitivo – non ricevette risposta.

Amica – disse Colombo –
Più non fidarti di alcun genovese!
Nell’azzurro egli sempre si assisa,
troppo lo attrae ciò che è più lontano!
Chi lui ama, gli piace allettarlo
Al di fuori dello spazio e del tempo –
Sopra di noi stelle con stelle sfavillano,
attorno a noi freme l’eternità.

Lou non si fece affascinare dalla dimensione dell’eterno che Nietzsche – attraverso il suo pensiero abissale, il pensiero dell’eterno ritorno – le proponeva. Per la verità, la ragazza nemmeno sembrava prenderlo seriamente in considerazione quel pensiero, che probabilmente le risultava avere echi metafisici, non essendogli stato presentato attraverso una dimostrazione scientifica (alla quale il filosofo voleva pur dedicarsi, nei dieci anni successivi).

Fu così che, proprio come un buon genovese – nell’ inverno tra il 1882 e il 1883 – Nietzsche si ritirò in Liguria, corroso dai dubbi verso la ragazza e verso l’amico Paul Rée, che gliela stava portando via. Si stanziò a Rapallo (a Genova non aveva trovato alloggio), lì dovette superare uno dei momenti più difficili della sua vita, quando realizzò di aver chiuso definitivamente con Lou e Rée, nonché, almeno temporaneamente, con la famiglia: madre e sorella erano sconvolte dall’amicizia con la scandalosa Lou Salomé, che secondo loro aveva compromesso il buon nome della famiglia (la madre arrivò ad accusare il figlio di essere un’onta per la tomba del padre). Ma Rapallo è anche il luogo in cui avvenne uno degli incontri più gravidi di conseguenze per l’intera storia della filosofia: l’assalto di Zarathustra. In Ecce Homo – celebre autobiografia del filosofo – riferendosi a quel luogo: «Questo piccolo dimenticato mondo di felicità. Su queste due strade mi venne incontro tutto il primo Zarathustra, e soprattutto il tipo di Zarathustra stesso: più esattamente, mi assalì».

Come possa un uomo rimasto solo, in condizioni fisiche e psichiche del tutto compromesse, disperato al punto da meditare il suicidio, essere in grado di scrivere un’opera come Così parlò Zarathustra, è per me uno dei più grandi misteri della filosofia. Tuttavia per Nietzsche era necessario proprio questo: doveva fare esperienza del dolore più estremo, in virtù di quel principio della sua missione filosofica che lo spingeva a fare di sé lo strumento di sempre nuovi esperimenti. A Overbeck, il giorno di Natale dell’82, scrisse:

«Questo ultimo boccone di vita è stato di gran lunga il più duro da masticare, ed è ancora possibile che esso mi soffochi. Ho sofferto come di una follia per i ricordi degradanti e tormentosi di questa estate […] si tratta di un conflitto di affetti opposti, che non sono in grado di affrontare. […] Se non riesco a scoprire l’espediente degli alchimisti per trasformare anche questo fango in oro, sono perduto».

Si trattava di giungere alla soglia dell’abisso, di immergersi nella notte più nera di sé, ed essere comunque in grado di realizzare l’impossibile: trarre oro dal fango, ed in questo modo, sopravvivere. Il filosofo seppe fare della propria sofferenza, della propria malattia, una gravidanza: così nacque Zarathustra.

La prima parte dell’opera (che inizialmente doveva essere l’unica), fu realizzata in tempi record: una decina di giorni (o perlomeno in dieci giorni venne elaborato il materiale di precedenti riflessioni); Nietzsche annunciò per lettera all’amico musicista Köselitz l’inizio della stesura il primo febbraio 1883 e già il quattordici febbraio inviò il manoscritto all’editore Schmeitzner. Non si accorse fin da subito della straordinarietà del testo, fu proprio Köselitz, a fargliene prendere coscienza: «A questo libro si deve augurare la diffusione della Bibbia, il suo prestigio canonico, tutta la sua serie di commenti».

La seconda parte dello scritto, frutto anch’essa di una decina di giorni di lavoro, ebbe origine a Sils Maria, luogo prediletto da Nietzsche, che già gli aveva fatto dono del pensiero più profondo della sua filosofia: l’eterno ritorno, che è anche il Leitmotiv di Così parlò Zarathustra. I dubbi circa il valore dell’opera, erano ormai un ricordo lontano: in quel momento Nietzsche era pienamente consapevole di stare raggiungendo apici del pensiero fino ad allora mai toccati. Se da un lato questo lo eccitava al punto da consentirgli di affrontare ogni dolore, dall’altro il libro suscitava in lui una sorta di sacro spavento: forse già prevedeva quanto a fondo esso avrebbe modificato il corso della storia del pensiero, quanto sarebbe stato prolifico, e probabilmente prevedeva anche che i figli del suo Zarathustra non sarebbero stati tutti di suo gradimento. A Köselitz scrisse della «spaventosa avversione che io porto con me in cuore per l’intero complesso dello Zarathustra»; qualcosa di terribile poteva seguire alla sua opera, ed egli se ne sentiva responsabile. D’altronde non poteva certo evitare di portarla a termine: lui doveva essere l’autore di Così parlò Zarathustra, di ciò era convinto: quello era il suo destino.

Nizza è la culla della terza parte. Ancora una volta si trattò di un’eruzione (e non uso casualmente questo termine, nell’agosto 1883 l’esplosione del vulcano Kracatua aveva decisamente impressionato gli animi): fu scritta nel mese di gennaio dell’84, in circa dieci giorni (se ne possono però individuare tracce preliminari già nel novembre 1883), e fu sentita come conclusiva. Qui infatti Zarathustra deve affrontare il più amaro pessimismo, e ciò lo induce a ritirarsi nell’ennesima solitudine per lavorare ad un ulteriore superamento di sé. Dopo la vera e propria estati creativa, all’amico Overbeck Nietzsche scrisse:

«Le ultime due settimane sono state le più felici della mia vita: non ho mai veleggiato con tali vele su un cotale mare; e l’enorme tracotanza dell’intera storia di questo viaggio di scoperta, che dura da quando tu mi conosci, dal 1870, è giunta al suo culmine».

Si potrebbe pensare che la lunga lotta alla depressione, che lo vide costantemente indeciso tra il sacro sì alla vita e la sua negazione più totale – il suicidio – fosse stata, almeno temporaneamente, vinta.

Un’origine completamente diversa è quella della quarta parte di Così parlò Zarathustra. Inizialmente concepita come un’opera a sé stante, essa diventò un quarto libro esoterico: non venne infatti pubblicizzato, solo poche copie furono stampate e distribuite agli amici più intimi. Motivo principale di questa decisione è il carattere del tutto blasfemo del testo, che addirittura si conclude con una parodia della cerimonia cattolica, in cui la devozione è indirizzata ad un asino. La quarta parte fu composta nell’inverno del 1885, in seguito all’ennesima delusione di Nietzsche nel riscontrare l’impossibilità di crearsi una cerchia di amici con i quali discutere i temi pregnanti della sua filosofia. Una grande speranza di quel periodo era Heinrich von Stein, giovane studioso della cerchia wagneriana, con il quale aveva avuto un bel confronto l’estate precedente a Sils Maria, in cui il giovane si era recato appositamente per fargli visita. Ancora una volta, Nietzsche lo invitò a farsi suo discepolo attraverso una poesia – Da alti monti – alla quale però Stein rispose con una lettera tanto confusa quanto chiarificatrice del fatto che non si poteva contare su di lui, almeno per il momento. Così il filosofo ebbe a soffrire di quel pathos della distanza che già aveva ben sperimentato: la sua filosofia, il suo stesso modo di essere, erano diversi da quelli di tutti gli altri. Le principali correnti culturali di allora – il positivismo (per Nietzsche incarnato da Lou e Rée), e il romanticismo wagneriano (incarnato invece da Heinrich von Stein), frutti, seppur antitetici, della sua epoca – non lo convincevano del tutto. Egli aveva pur provato a percorrerli entrambi, ma fu costretto a discostarsene per avventurarsi da solo su sentieri fino ad allora mai calpestati. La sua “terza via” era del tutto incomprensibile agli uomini del tempo, e forse è rimasta tale. Fu così che Nietzsche non riuscì mai a soddisfare il profondo desiderio di amicizia e di confronto filosofico, e di questo dovette soffrire ancor più che della sua terribile emicrania.

Alla complessa geografia in cui si vede nascere Così parlò Zarathustra bisogna aggiungere una tappa fondamentale: Recoaro. In Ecce Homo il filosofo rivela che alla nascita di Zarathustra furono necessari 18 mesi di gestazione. È interessante constatare come il conto non parta dall’intuizione fondamentale dell’eterno ritorno – che comunque è ribadito essere l’elemento essenziale per comprendere l’opera – bensì da quella che secondo lui fu una premonizione di quel pensiero:

«Se torno indietro di un paio di mesi da quel giorno, trovo come segno premonitore un cambiamento improvviso, profondo, decisivo del mio gusto, soprattutto in fatto di musica. Forse si può considerare come musica tutto lo Zarathustra; – e certamente un suo presupposto fu una rinascita dell’arte dell’ascoltare. In una piccola località termale in collina, a Recoaro, non lontano da Vicenza, dove trascorsi la primavera dell’anno 1881, io scoprii, assieme al mio maestro e amico Peter Gast, anche lui un “rinato”, che la fenice musica volava sopra di noi con piumaggio più leggero e più luminoso di quanto mai si era visto».

Tale affermazione ci permette di constatare come la musica ricopra un ruolo del tutto centrale. La musica di nuovo gusto a cui si riferisce Nietzsche è quella di Köselitz, che egli diceva essere meridionale: fresca, giocosa, allegra, insomma l’antitesi di quella wagneriana. E fu oltremodo significativo, per il filosofo, venire a sapere della morte di Wagner appena finito di scrivere il primo libro di Zarathustra. In virtù di tale simbolica coincidenza, concepì anche la sua opera come una musica nuova, che assieme a quella di Köselitz e alla Carmen, scoperta poco tempo prima a Genova, poteva finalmente lasciarsi alle spalle la pesantezza metafisica di quella wagneriana.

In che modo però Così parlò Zarathustra possa dirsi musica lo si deve chiarire. Nietzsche ebbe a parlarne più volte come di una sinfonia, ed effettivamente è possibile farne un’analisi formale che rivela l’adozione di tecniche proprie dell’architettonica musicale: la divisione in quattro parti più un’introduzione, tipica della sinfonia classica; la legge delle parti crescenti; il Leitmotiv, garante della visione unitaria dei quattro libri (tecnica questa usata soprattutto da Wagner, ma che risale a Bach). Tuttavia, Carl Janz, celebre biografo di Nietzsche, anch’egli musicista, fa notare come la musicalità dello Zarathustra sia qualcosa di diverso e di precedente alla forma sinfonica, e coincida piuttosto con il concetto greco di Kosmos o Harmonia, «che esprime l’ordine equilibrato di una creazione di vaste dimensioni». Ordine che nel caso di Così parlò Zarathustra è suscitato dalla presenza di un Leitmotiv come l’eterno ritorno, che ricordiamoci, è il frutto di un’ispirazione. La musicalità del testo sembra risiedere proprio in questa ispirazione, a cui, sempre in Ecce Homo, il filosofo cerca, per quanto possibile, di dare una spiegazione. Vi riesce ricorrendo al modello classico, per cui l’ispirato non sarebbe altro che lo “strumento sonoro” per mezzo del quale si esprime la rivelazione degli dei. Pensiamo ad Esiodo, il cui canto divino, come egli stesso rivela, fu suscitato dalle muse affinché cantasse ciò che è stato e ciò che sarà. Così parlò Zarathustra è la risposta ad un simile tipo di evento. Non una forma d’arte determinata, ma una musica più originaria; il frutto di un originario ascolto, dal quale consegue la vibrazione del proprio sé, che di rimando, è in grado di creare simboli in una forma sonora:

 «Si ode, non si cerca, si prende, non si domanda da chi ci sia dato; un pensiero brilla come un lampo, senza esitazione nella forma – io non ho mai avuto scelta […] Tutto avviene in modo involontario al massimo grado, ma come in un turbine di senso di libertà, di incondizionatezza, di potenza, di divinità… La involontarietà dell’immagine, del simbolo, è il fatto più strano; non si ha più alcun concetto; ciò che è immagine, o simbolo, tutto si offre come l’espressione più vicina più giusta, più semplice».

Dei 18 mesi di “gestazione” di Così parlò Zarathustra, Nietzsche ricorda due frutti: la Gaia scienza, «che rivela da cento segni l’arrivo di qualcosa di incomprensibile»; l’Inno alla vita (per coro e orchestra). Quest’ultimo nasce dall’amicizia con Lou von Salomé: si tratta infatti di una poesia della ragazza accompagnata dalla musica del filosofo. Anche la poesia di Lou è l’esito di un’ispirazione che, con l’aiuto della musica di Nietzsche, trova espressione in suoni che danno vita ad un kosmos tutt’altro che pacifico: ancora una volta è il dolore l’elemento centrale: «non hai più altra felicità da darmi, bene! hai ancora la tua pena…».

Proprio l’Inno alla vita io credo ci possa aiutare a fare chiarezza sul significato del cambiamento occorso nel gusto musicale del filosofo a Recoaro. Così come la musica di Köselitz e la Carmen di Bizet, quella dell’Inno è agli antipodi della musica wagneriana. Quest’ultima – con la sua pretesa di rispecchiare la schopenhaueriana Volontà – non lasciava spazio alla gioia. Per questo bisognava combatterla, e lo si poteva fare solo dando vita ad una musica antiwagneriana completamente indirizzata all’affermazione della vita, in tutta la sua pienezza, in tutta la sua forza distruttiva oltre che creativa. Si sarebbe trattato di una musica giocosa, allegra, vitale, nonostante tutto. L’Inno alla vita coglie pienamente proprio quel “nonostante tutto” dal quale poteva nascere un’arte per quanto possibile “onesta”. Non si trattava infatti soltanto di suscitare allegria, di creare un’illusione capace di nascondere la sofferenza per la breve durata dell’opera. Si trattava piuttosto di musicare quella stessa sofferenza, e con lei, ogni cosa bella che pure è parte della vita tremendamente ingiusta. A Recoaro il filosofo cercava una musica che arrivasse a quel vertice: una musica sublime ed affermatrice. L’avrebbe trovata nell’Inno alla vita, frutto del pathos tragico che accomunava lui e Lou, ma ancor più, l’avrebbe creata in Così parlò Zarathustra, la sua musica più alta, la sua tragedia.