Nel mondo antico, andare oltre i limiti stabiliti dalla divinità, costituiva un atto di hybris, di oltracotanza, un atto che era universalmente censurato e severamente punito. Per gli antichi greci, dunque, il limite non solo non simboleggiava un’imperfezione o una mancanza ma rappresentava esattamente una condizione di pienezza, costituendo un elemento di ordine e perfezione, vero e proprio perimetro entro cui si dava la Legge.

Solo con l’avvento del pensiero cristiano, il limite divenne segno d’inferiorità, imperfezione e incompiutezza. Per Tommaso d’Aquino, per esempio, essendo Dio perfetto, è necessario che sia anche eterno e infinito, così che, però, tutto ciò che è altro da lui, giacché creato da questo Essere increato e perfetto, non può essere che imperfetto, finito, in altre parole limitato.

Con la modernità, il limite diviene esattamente ciò che deve essere oltrepassato, un ostacolo alla ragione e alla conoscenza. Da Cartesio in poi, questo diventa il compito dell’uomo moderno.

Ovviamente, il rapporto tra arte e limite è stato oggetto di dibattito parallelo a quello più strettamente metafisico, cui si è brevemente accennato. Centrali, in questo senso, appaiono le parole di Immanuel Kant, in un celebre passo dalla Critica del Giudizio: “Il bello della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione; il sublime invece, si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione sull’illimitatezza, pensata per di più nella sua totalità”. Kant opera quindi una differenza tra bello e sublime e quest’ultimo corrisponde, dunque, all’idea dell’infinito (nel senso di non-finito). L’arte, tramite le sue creazioni – che sono per loro natura finite – richiama quello stato d’animo, che apre lo sguardo sull’infinito. Ancora più chiaro Leopardi, che intuisce l’infinito solo perché la siepe gli ostruisce la vista: per percepire l’infinito, si rende necessario il limite.

Nel caso di Paul Wittgensein, a dispetto di una retorica che accomuna pavlovianamente l’arte alla libertà, proprio attraverso un limite imposto – peraltro loro malgrado – ai compositori con cui egli ebbe a che fare, furono creati capolavori come il Concerto per la mano sinistra di Ravel e altre composizioni che, se capolavori non sono, non meritano neanche l’oblio cui sono state destinate, come i concerti di Korngold, Schmidt, Strauss, per citarne alcuni. Forse, sarebbe da ripensare il rapporto tra arte e limite come un rapporto che può essere virtuoso, costringendo il compositore a misurarsi con esso; magari si scoprirà che proprio il limite può fornire chiavi di lettura inaspettate o, costringendo l’artista a confrontarsi con esso, può aprire strade inesplorate altrimenti. Proprio come fu nel caso di Ravel o degli altri compositori che ebbero a che fare con Wittgenstein.

Il primo dicembre del 1913, Paul Wittgenstein, figlio di una delle più importanti famiglie viennesi, ha già ventisei anni, studia pianoforte con determinazione e affronta il suo primo concerto pubblico. Lo scoppio della Prima guerra mondiale, nel luglio del 1914, gli impedirà di tenerne altri, perché costretto ad arruolarsi nell’esercito imperiale. Appena un mese dopo, mentre guida la sua pattuglia di Dragoni nelle vicinanze della cittadina di Zamość, nella Polonia sudorientale, una pallottola russa lo colpisce al gomito; perde i sensi e viene trasportato in un ospedale da campo. Mentre è ancora incosciente, i russi s’impossessano dell’ospedale e traslocano medici e feriti a Omsk, in Siberia, a diverse migliaia di chilometri di distanza. Quando Paul riesce a riprendere le forze, scopre la cruda realtà: gli era stato amputato il braccio ferito.

“Avere un braccio fantasma significa rimanere aperti a tutte le azioni di cui solamente il braccio è capace, conservare il campo pratico che avevamo prima della mutilazione”. Quest’affermazione del filosofo Merleau-Ponty – che ha lasciato pagine importanti sulla dimensione corporea della coscienza – ci fa capire perché Wittgenstein, dopo una perdita fisica irrimediabile, decide, comunque, di dedicare la sua esistenza alla musica: egli non faceva il pianista, era un pianista, seppure con un braccio solo, e questa sua condizione mentale gli permise di affrontare difficoltà apparentemente insormontabili. Erna Otten, allieva di Wittgenstein, riferisce che più volte, quando definiva la diteggiatura di un pezzo, Paul interveniva – quando ormai aveva perso il braccio da anni – dicendo “di fidarsi delle sue scelte, perché sentiva ancora ogni dito della mano destra”.

Non è, tuttavia, con il fantasma della mano destra che Paul traccia la sua storia, ma senz’altro con una fiducia incrollabile nella sua capacità di scegliere per il meglio. Da questa facoltà, dunque, nascerà il progetto di commissionare concerti per la mano sinistra del pianoforte, un genere quasi del tutto sconosciuto fino allora e completamente nuovo, nella variante dell’accompagnamento orchestrale.

Si possono considerare le almeno quaranta composizioni commissionate da Paul Wittgenstein per la mano sinistra, sotto due profili. Il primo sembra suggerire una sorta di estetica della menomazione: un processo spesso usato in letteratura, dalla gamba d’osso di balena del Capitano Achab nel Moby Dick, alla gobba shakespeariana di Riccardo III. Queste diventano caratteristiche peculiari dell’eroe tragico che, come in un dramma faustiano, trascende la propria condizione deciso a perseguire il suo scopo fino all’estremo. Nel caso dei concerti per pianoforte, infatti, peculiare preoccupazione di Wittgenstein era che i vari compositori, cui egli commissionava concerti, non tendessero a mascherare le difficoltà tecniche, ma anzi enfatizzassero il virtuosismo pianistico, seppure limitato a una sola mano.

Sotto un altro profilo, vi è la peculiarità della disabilità dell’esecutore: fino allora, i limiti psichici o fisici, le malattie, le infermità, avevano colpito gli autori. Da Goya a Beethoven, da Milton a Schumann, a Monet, era l’autore dell’opera che soffriva o che era vittima di limitazioni. In questo caso, si può dire che l’abilità di Wittgenstein è stata anche nel rendere inabile Ravel, e gli altri compositori: egli impose delle domande formali alle partiture e ai loro autori, che questi ultimi non si sarebbero mai posti, in condizioni normali. Un capolavoro come il concerto di Maurice Ravel, nasce quindi da una limitazione imposta: questo aprirebbe il campo a interessanti riflessioni su come un limite prescritto, se da un lato vincola un autore, da un altro, lo costringe a ricercare e inventare nuovi modi, regole, territori.

A proposito del suo Visconte dimezzato, Calvino scrisse di avere a cuore “il problema dell’uomo contemporaneo, dimezzato, cioè incompleto, alienato”. Calvino riteneva che tutti noi contemporanei si abbia coscienza della nostra incompletezza, riuscendo a realizzare solo una parte di noi stessi e non l’altra. Ecco, quella di Paul Wittgenstein è invece un’altra storia: quella di un uomo, un artista, che si è sentito senz’altro dimezzato, alienato, ma che ha trovato, proprio nella sua incompletezza, il suo successo.

da GUIDO GIANNUZZI, Paul Wittgenstein, il pianista dimezzato