Verso la fine del Seicento lo studioso di ottica irlandese William Molyneux propose al filosofo inglese John Locke un interrogativo destinato ad aprire un importante querelle in seno alla filosofia moderna, percossa nel suo arco storico da forti interessi legati alla percezione e alla teoria della conoscenza. Il quesito era il seguente: un cieco dalla nascita, al quale sia insegnato a distinguere mediante il tatto un cubo da una sfera, ove recuperi improvvisamente la vista, sarà in grado di distinguere il cubo dalla sfera, senza far ricorso al tatto?

Il fronte più empirista – costituito dallo stesso Locke e da George Berkeley – sostenne che senza il supporto del tatto sarebbe stato impossibile per neo-vedente il riconoscere visivamente le forme, adducendo una separabilità dei sensi e la necessità di un’abitudine al loro utilizzo. D’altra parte, un’innatista come Leibniz rispose affermativamente al quesito di Molyneux, sulla base di un’universale comprensione delle leggi della geometria proiettiva, iscritte nell’animo umano e indifferenti a una condizione di cecità. Per il francese Condillac la questione si porrebbe invece a livello di giudizio: starebbe infatti all’essere umano esercitare quella capacità innata di riflessione in base al materiale fornito dai sensi, quindi di poter giudicare correttamente sulla forma di un cubo o di una sfera, senza bisogno di un’abitudine come sostenuto da Berkeley.

Al di là delle relative semplificazioni, la questione Molyneux tocca un fenomeno che nel Novecento ha affascinato molte delle menti più importanti della psicologia e della neurologia e che ancora oggi ha un seguito importante nella letteratura scientifica: la sinestesia. Con tale nome intendiamo un fenomeno psichico in grado di portare a manifestazione una rappresentazione visiva completa e più o meno spiccata, indotta però da una percezione del tutto estranea ad essa a livello di osservazione esterna. Nella forma più comune, un’impressione sinestetica si manifesta con una visione cromatica o luminosa indotta però da una percezione esclusivamente uditiva.

In Musicofilia il celebre neurologo americano Oliver Sacks riporta il caso di un compositore, Michael Torke, profondamente influenzato dalle sue esperienze sinestetiche. Compositore precoce, Torke ebbe un giorno, da bambino, uno scambio di battute che gli rivelò la straordinaria singolarità della sua condizione. Disse infatti all’insegnante «Mi piace proprio questo brano azzurro…» e alla richiesta di una spiegazione, insiste: «Sì, il brano in re maggiore… il re maggiore è azzurro».

Come accennato, la sinestesia musicale è una delle forme più comuni di sinestesia. Non sappiamo se sia più diffusa tra i musicisti o le persone con inclinazione per la musica, ma è senz’altro più probabile che i musicisti siano consapevoli della sua presenza. L’aspetto delle impressioni sinestetiche non è facile da spiegare: quando mettiamo infatti assieme più sensi, il nostro linguaggio utilizza, per così dire, degli espedienti potentissimi, che hanno un larghissimo seguito nelle nostre conversazioni: quando non riusciamo a connotare qualcosa, ricorriamo a perifrasi, esempi o a indicatori che avvisano il nostro interlocutore che stiamo addentrandoci in una similitudine o in una metafora. È il potere del “come se” che supplisce ad una non perfetta aderenza tra la portata della sensazione e la portata del linguaggio. Per un sinesteta tutto questo non vale: non è che il re maggiore è come il colore azzurro; il re maggiore è azzurro, esattamente come io vedo il bianco della parete davanti a me mentre scrivo. La difficoltà sta nello spostare quello che per noi è comune su un piano concettuale a un piano puramente percettivo, quindi istantaneo e non mediato. La questione Molyneux celava, più o meno consapevolmente, un interrogativo che ancora oggi anima le ricerche sul cervello: in che relazione stanno tra loro i sensi e fino a che punto è possibile parlare di loro singolarmente?

Piet Mondrian, Tableau I (1921)

Forse uno dei casi più citati in riferimento alla sinestesia è il saggio del medico e psicologo sovietico Alexandr R. Lurija (1968), tradotto in italiano come: Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava. L’importanza di Lurija – che non ha nulla da invidiare a Sacks per le capacità divulgative – sta nell’aver insistito in una comprensione qualitativa e olistica del cervello, di contro a una certa predilezione quantitativa in campo neurologico: il significato di un sintomo è deducibile solo da un’analisi comparata con altri sintomi concomitanti e simultanei e non dalla mera somma dello stesso sintomo in un ampio numero di pazienti. È il concetto di sistema funzionale a muovere le sue indagini, la convinzione di una complessa organizzazione cerebrale dell’attività psichica che non poteva appellarsi a un metodo statico (motivo anche per cui l’analisi neuropsicologica dei pazienti di Lurija durava sempre molte settimane, spesso mesi o anni).

Il protagonista del “racconto” di Lurija è Lev Šezeševskij Vygotskij, un uomo in grado di ritenere in modo indelebile quantità impressionanti di informazioni, un prodigioso mnemonista. Lurija riuscì a comprendere come il processo di memorizzazione di Šezeševskij fosse legato, più che alle leggi della memoria stessa, alle leggi della percezione e dell’attenzione, secondo la forma di un fenomeno sinestetico estremo:

«Le tracce di uno stimolo non inibiscono infatti in lui quelle di un altro stimolo, non tendono a estinguersi o a perdere la loro selettività. È impossibile, inoltre, definire i limiti di durata e di volume della sua memoria, né la dinamica della obliterazione delle tracce in rapporto col trascorrere del tempo; non sembra presente, in Šezeševskij , nemmeno quel “fattore di posizione”, per cui ognuno di noi si ricorda i primi e gli ultimi momenti di una serie meglio di quelli situati al centro di essa; né, infine, è possibile cogliere fenomeni di reminiscenza, in virtù della quale un breve riposo fa riaffiorare tracce apparentemente estinte»

Messo di fronte a una sequenza di serie disposte secondo un semplice ordine logico, Šezeševskij si sforzava di imprimersi nella mente la serie di cifre impiegando i procedimenti di rievocazione visiva, senza accorgersi della semplicità del filo logico che stava dietro a quelle sequenze. In altre parole, Lurija si trovava davanti al caso di una memoria che funziona per impressioni sinestetiche: la rievocazione di suoni o la memorizzazione delle parole era tutta dipendente dal carattere «vividamente figurativo» che Šezeševskij riusciva a dare ad ogni rappresentazione. Era sufficiente che un oggetto fosse posto in ombra o dove era più difficile scorgerlo, che la mente di Šezeševskij non era in grado di recepirlo e quindi di “leggerlo”.

La cosa era particolarmente presente nella difficoltà del riconoscimento dei volti: quello che ognuno di noi esegue quando si imprime nella mente il ricordo dei tratti di una persona, per Šezeševskij era alquanto difficile: «la percezione dei volti somigliava piuttosto alla percezione di quel sovrapporsi perennemente mutevole di luci e di ombre che ci capita di osservare alla finestra, quando guardiamo le onde leggere di un fiume: infatti come “ricordare”, una per una, le onde che oscillano?».

In Musicofilia Sacks sottolinea come ogni sinesteta abbia le sue personali corrispondenze cromatiche. Un altro compositore, anche lui sinesteta musicale, ebbe da ridire a proposito delle “equiparazioni” descritte da Michael Torke, pur intuendone la “logica” di alcune di esse. Se le tonalità cromatiche di quest’ultimo risultano rigidamente specifiche e distinte per le diverse tonalità musicali, per il primo, invece, i colori sinestetici accompagnano il modo in cui si sente emotivamente coinvolto rispetto al suono e alla melodia.

Diversi sinestetici hanno poi difficoltà a descrivere il colore con cui si presenta un suono, al punto da dover far ricorso a una similitudine o a una perifrasi, in un evidente difficoltà del linguaggio a descrivere ciò che viene visto. «Alcune tonalità – scrive Sacks – gli sembrano avere strane sfumature che non riesce a descrivere e che non ha quasi mai visto nel mondo che lo circonda». Quelli che Ramachandran e Hubbard hanno chiamato “colori marziani” sarebbero dovuti a una qualche capacità dei soggetti sinestetici di bypassare i primissimi stadi dell’elaborazione cromatica. La sinestesia sembra accompagnarsi a un insolito grado di attivazione crociata fra aree della corteccia sensoriale che, nella maggior parte di noi, sono funzionalmente indipendenti. «Esiste qualche conferma del fatto che tale “iperconnettività” sia effettivamente presente nei primati e in altri mammiferi durante lo sviluppo fetale e nel periodo neonatale, e che venga poi ridotta o sottoposta a “potatura” nell’arco di qualche settimana o di qualche mese dalla nascita». Questo è un aspetto straordinario che fra poco dovremo recuperare. Tra l’altro è proprio a Ramachandran e a Hubbard che si deve uno dei primi test psicologici oggettivi per la sinestesia: si presenta al soggetto un miscuglio di 2 e 5 graficamente alquanto simili, tutti stampati in nero. Per una persona comune distinguerli è un’impresa, ma per un sinesteta che associ il colore ai numeri, invece, la discriminazione è facile proprio grazie al loro diverso “colore”.

Si è oggi inclini a ritenere che la sinestesia compaia molto precocemente e sia più comune nei bambini (discussa è invece l’incidenza di genere). L’unica causa significativa di una sinestesia acquisita in modo permanente, però, è la cecità. Se la perdita della vista avviene in età precoce è possibile che il cervello rimuova un’inibizione che di norma è imposta dal sistema visivo funzionante, sulla scia delle allucinazioni musicali a volte associate al progredire della sordità o alle allucinazioni visive associata alla compromissione della vista. Come nel caso della frustrazione lamentata da Šezeševskij nel riconoscimento facciale, una sinestesia acquisita può essere altamente limitante e fastidiosa: Sacks racconta il caso di un tizio che, perduta la vista, sviluppò una sinestesia così intensa che la percezione musicale era del tutto rimpiazzata da quella visiva: note, accordi e melodie venivano così immediatamente trasformate in immagini astratte da rendere pressoché impossibile per il soggetto in questione suonare o seguire un concerto.

 

Oliver Sacks (agosto 2015 – Photo by Bill Hayes)

Vorrei portare ora l’attenzione su un aspetto che Sacks descrive in Musicofilia e che non va confuso con quanto detto finora della sinestesia: l’orecchio assoluto. Le persone dotate di orecchio assoluto non solo sono in grado di percepire precise differenze di altezza, ma anche di nominarle, ossia di farle corrispondere con le note di una scala musicale. Negli individui con orecchio assoluto, la risonanza magnetica mostra un’attivazione focale di certe aree associative della corteccia frontale, cosa che negli individui con orecchio relativo avviene solo quando si nominano gli intervalli. Non è tuttavia chiaro se quest’attivazione dell’area associativa escluda in verità una precedente percezione dell’altezza dei suoni, svincolata dall’associazione e dall’apprendimento. Chi è infatti dotato di orecchio assoluto sa bene che ogni tonalità possiede una propria “qualità” ben precisa. E in effetti tale “qualità” viene spesso indicata con il termine chroma o colore. Chi ha l’orecchio assoluto paragona spesso la percezione di ogni tonalità ha un colore: «queste persone sentono la qualità di un sol diesis in modo istantaneo e automatico, proprio come noi vediamo l’azzurro». Questo aspetto non deve tuttavia far coincidere l’orecchio assoluto con la sinestesia: per quanto ci sia un’incidenza piuttosto alta di sinestetici con orecchio assoluto, la sovrapposizione dell’esperienza uditiva con quella percettiva è una caratteristica propria della sinestesia, dove, come già detto, ogni elemento metaforico o di similitudine è eliminato: il sol maggiore è il giallo che io vedo.

C’è tuttavia un affascinante elemento che sembra accomunare sinestesia e orecchio assoluto, e cioè l’ipotesi di una loro originaria presenza nello sviluppo dell’uomo. Abbiamo già detto che la sinestesia si associa ad un’iperattività presente nello sviluppo fetale e nel periodo neonatale, attività che poi andrebbe a perdersi per una normalizzazione dei rapporti tra i sensi. Ma anche per l’orecchio assoluto sembra essere così.

Nel 2001 Jenny Saffran e Gregory Griepentrog, dell’Università del Wisconsin, pubblicarono uno studio sull’apprendimento infantile di sequenze di note da parte di bambini di otto mesi. Gli autori scoprirono che i bambini si affidavano molto più degli adulti a indizi derivanti dall’orecchio assoluto, mentre gli adulti, dal canto loro, a indizi provenienti dall’orecchio relativo. Questo ha suggerito agli autori che l’orecchio assoluto potesse essere una qualità altamente adattativa nel primo anno di vita, che andrebbe in seguito a perdersi. Il motivo di questa perdita sarebbe nella riconfigurazione immensa che a livello comportamentale e funzionale comporta l’acquisizione del linguaggio: «Bambini che raggruppassero le melodie solo in base all’altezza assoluta delle note, non scoprirebbero mai che le canzoni sono le stesse anche quando sono cantante in tonalità diverse, né che le parole pronunciate a diverse frequenze fondamentali sono le stesse». Sarebbe pertanto lo sviluppo del linguaggio a imporre l’inibizione dell’orecchio assoluto. È come se il nostro cervello si spostasse su un altro sistema di apprendimento, basato su una diversa categorizzazione, più ottimale a livello funzionale per la sopravvivenza, sociale e naturale, dell’individuo.

La cosa ha un risvolto filosofico estremamente interessante: se sinestesia e orecchio assoluto possono essere condizioni originarie del neonato, fosse anche per brevissimo periodo, perché non ipotizzare allora che essi siano un fattore di importanza cruciale per l’origine del linguaggio e della musica? Non solo: perché non arrivare a ipotizzare un’originaria unità dei due in una forma arcaica e ormai perduta?

Per chi “mastica” di filosofia, questa ipotesi è tutt’altro che nuova. Rousseau, nel suo Saggio sull’origine della lingua, sosteneva che nella società primitiva il linguaggio e il canto non fossero distinti l’uno dall’altro, secondo un concetto di armonia soggiacente la convinzione del filosofo di un’originaria bontà della condizione umana. Ma l’idea, in una forma diversa e più affascinante, era già stata di Giambattista Vico.  Il filosofo napoletano parte dall’ipotesi che oltre un certo limite temporale non esista più alcun linguaggio articolato simile al nostro: un mondo oscuro delle origini separato dall’epoca moderna, che non permette alcuna ipotesi etimologica di continuità. Il parlare dell’epoca delle origini è un parlare poetico, privo di alcuna rispondenza fonica con le parole che noi utilizziamo. Il linguaggio originario è dominato dall’espressività del gesto mimico, dal rimbombare della voce nella gola e nel diaframma del corpo umano: il gesto è la prima forma di poesia. Eppure è proprio dall’unione di questo linguaggio con il pensiero, attività spirituale, che ha luogo una configurazione simbolica della realtà: nel momento in cui gli uomini primitivi vengono scossi dalla visione del primo fulmine e dal fragore assordante del primo tuono, essi non reagiscono percependo la realtà per come si era manifestata, ma interpretandola come manifestazione di una entità sovrannaturale. Vico supera la dicotomia cartesiana tra res extensa e res cogitans mostrando che la percezione di un dato non è mera ricezione passiva, ma si traduce in una attività costruttrice di ampi e forti significati. In altre parole, la sensazione e la percezione si trasformano in espressione. Il linguaggio non è pertanto frutto di una convenzione sorta per scopi solamente comunicativi: è piuttosto il frutto dell’ostinato conflitto con cui l’uomo ha cercato di esprimere ciò che vedeva e sentiva, il bisogno di buttar fuori il mondo assimilato per sensazioni. Siamo qui in tutt’altra dimensione dall’originaria armonia di Rousseau: l’uomo di Vico è l’uomo che deve conquistarsi la strutturazione simbolica del mondo e il conferimento di senso che da questa deriva.

Pur nel suo indiscutibile fascino clinico e artistico, la sinestesia, proprio per la sua alterità, espone il singolo soggetto all’immensità della sensazione (quindi anche, in un certo qual modo, alla violenza che una sensazione può portare con sé). Il sinesteta può trovarsi in balia di flussi continuamente mutevoli e sfumati, vedere un mondo instabile che continuamente si trasfigura nei suoi correlati sensoriali, spesso impossibili da codificare a parole: che sia tutto ciò una reminiscenza di quella poesia originaria da cui veniamo?