«Devo indugiare un poco in una rappresentazione che nella mia giovinezza era frequente ed urgente come nessun’altra. Quando un tempo mi abbandonavo come volevo ai desideri, pensavo che il terribile sforzo e l’impegno di educare me stesso mi sarebbe stato risparmiato dalla sorte, se al momento giusto avessi trovato come educatore un filosofo, un vero filosofo cui si potesse obbedire senza ulteriori esitazioni, perché di lui mi sarei fidato più che di me stesso».
Curiosava nel negozio di libri usati del signor Rohn, a Lipsia – era la metà di novembre del 1865 – quando un libro lo attrasse più di altri, il titolo: Il mondo come volontà e rappresentazione. Decise di comprarlo, mettendo da parte la solita parsimonia nell’acquistare libri e lo lesse d’un fiato quella notte stessa. L’alba del giorno seguente lo vide letteralmente convertito allo schopenhauerismo, come ci si converte ad una religione. A Lipsia, Nietzsche si era recato per frequentare le lezioni di filologia, che aveva scelto come materia di studio in sostituzione a teologia. Se infatti inizialmente pensava di seguire la strada del padre e diventare pastore protestante (come caldamente suggerito dalla madre), ciò non avvenne per causa di forza maggiore: la perdita della fede cristiana. Tale perdita non fu senza dolore e i nuovi studi scientifici non riuscivano a distrarlo dal vuoto che portava con sé (certo Nietzsche non era uomo di facile distrazione) né tantomeno a colmarlo. Ma la notte de Il mondo come volontà e rappresentazione cambiò le cose: aveva trovato una nuova dottrina, ben più veridica di quella cristiana, che seppur presentava un quadro della realtà non proprio accattivante, non era del tutto pessimistica, giacché offriva alcune scappatoie da quella stessa realtà. Le vie di liberazione dal dolore tramite arte, morale e ascesi, erano la soteriologia di una dottrina che aveva, senza alcun dubbio, molte delle caratteristiche delle grandi religioni.
Nietzsche iniziò a predicare quella filosofia ad ogni suo amico. Da buon discepolo convertì alla causa del maestro tante giovani menti, e con loro diede luogo ad una comunità di lettura e discussione dell’opera di Schopenhauer. Ciò che più gli mancava, era però un confronto diretto con l’autore, morto cinque anni prima. Assieme agli altri amici cercò in ogni dove un suo ritratto, e quando alla fine riuscirono a vederne uno in uno studio privato, l’effetto che fece sui ragazzi fu quello di un’icona. Ma non bastava, Nietzsche dovette provare ad immaginarsi l’uomo in carne ed ossa, con il quale improvvisare un dialogo interiore:
«Presentivo di aver trovato in lui quell’educatore e filosofo che da tanto tempo cercavo. Certo soltanto come libro e questa era una grande mancanza, tanto più mi sforzai di vedere attraverso il libro e di rappresentarmi l’uomo vivente, il cui grande testamento dovevo leggere e che prometteva di fare suoi eredi soltanto coloro che volevano e potevano essere qualcosa di più che suoi semplici lettori: vale a dire suoi figli e discepoli».
Quando cinque anni dopo, già professore di filologia classica a Basilea, Nietzsche incontrò Wagner, quest’ultimo dovette impressionarlo al punto da indurlo a credere di aver finalmente trovato il maestro che fino ad allora aveva potuto soltanto immaginare. Wagner non solo incarnava la dottrina schopenhaueriana, ma la predicava nel modo più significativo: attraverso la musica, che Nietzsche amava forse ancor più della filosofia.
La musica wagneriana si faceva carico di un compito di primaria importanza: doveva unire il popolo tedesco, ricreare la comunità che il capitalismo – attraverso la divisione del lavoro e l’atomizzazione dell’individuo nelle grandi città – aveva distrutto. Il suo autore si sentiva investito di una missione epocale: «La mia bacchetta da direttore diverrà un giorno lo scettro del futuro. Insegnerà ai secoli quale passo debbano tenere. Alla fine tutto dipende dal tempo musicale; ritmo, armonia, bellezza vengono poi da soli».
Con la sua bacchetta Wagner dava espressione alla Volontà schopenhaueriana: la sua musica aspirava a smascherare l’illusione della pluralità, riconducendo artisti ed ascoltatori all’indissolubile unità originaria, realtà più vera, quotidianamente nascosta dalle nostre rappresentazioni del tutto illusorie. L’opera wagneriana non voleva avere nulla a che fare con le forme di intrattenimento teatrale richieste dal sistema capitalistico al fine di divertire le masse e distrarle dall’insoddisfazione nei confronti del lavoro bestiale cui erano costrette. Aveva invece la pretesa del rito religioso, che doveva condurre i propri iniziati a rompere gli schemi del principium individuationis ed esperire la verità del tutto, la Volontà. Questo non solo avrebbe colmato il bisogno metafisico presente in ognuno, ma avrebbe anche offerto la comune esperienza religiosa sulla quale poggia ogni popolo, e che era venuta a mancare con la secolarizzazione della dottrina cristiana. Il punto di riferimento di Wagner era la tragedia greca, non in quanto rappresentazione teatrale, bensì in quanto esperienza comunitaria tanto forte da rinnovare ogni volta il fondamento unitario della comunità stessa.
L’adesione iniziale di Nietzsche alla causa wagneriana fu totale. Si mise al completo servizio del maestro, fino al punto di compromettere la propria carriera accademica con la pubblicazione de La nascita della tragedia – testo che doveva legittimare scientificamente l’opera di Wagner, attribuendogli il diritto di additarsi come colui che stava riportando in vita la tragedia greca –. Ma dopo qualche anno di profonda amicizia e costante frequentazione, Nietzsche aveva smascherato alcuni aspetti «troppo umani» del maestro e della sua missione.
Il distacco emerse già in Wagner a Bayreuth, la quarta inattuale, che doveva essere pubblicata lo stesso giorno dell’inizio del primo festival di Bayreuth, per sottolinearne la portata epocale. Il filosofo lavorò al testo con molta difficoltà e contemporaneamente il suo diario si riempì di critiche al compositore tedesco, che contengono in nuce quelle del futuro Nietzsche contra Wagner: «la giovinezza di Wagner è quella di un versatile dilettante, che non vuole approdare a nulla di buono»; «nessuno dei nostri grandi musicisti era a 28 anni un così cattivo compositore»; «il tiranno non ammette altre individualità che la sua e quella dei suoi amici fedeli»; «l’eleganza e la grazia, come la pura bellezza, il riverbero di un’anima equilibrata, gli sfuggono; perciò cerca di screditarli»; «il suo talento d’attore si rivela in ciò, che non lo è mai nella vita reale»; «[la sua musica] ha un che di fuga dal mondo, nega il mondo». Wagner è un attore (sarà il commediante del quarto libro di Zarathustra), un tiranno, e la sua musica una fuga dal mondo; come poteva Nietzsche contemporaneamente scrivere l’agiografia che doveva essere la sua inattuale? Attraverso una mossa sottile ed ingegnosa: proponendo una biografia idealizzata del proprio maestro, in cui un sé ideale si contrappone a quello reale, ed i limiti di quello reale, il suo carattere troppo umano, sarebbero stati superati in vista della divinizzazione che lui stesso aveva fatto di sé, presentandosi come iniziatore della grande rivoluzione artistica. Il compositore è descritto come un eroe, il genio rivoluzionario della cultura tedesca, che lotta contro le proprie mancanze e i propri vizi, al fine di dar vita a qualcosa di immenso: il Wagner ideale è un creatore.
È molto significativo il fatto che in Ecce Homo, a proposito di questa inattuale, così come della terza, dedicata a Schopenhauer, Nietzsche scriva di non aver parlato altro che di se stesso, descrivendo i propri maestri. E sebbene si tratti senz’altro di un’esagerazione posteriore, sicuramente il filosofo aveva messo molto di sé nei suoi Wagner e Schopenhauer. Ma questo dovette permettergli anche di acquisire sempre più consapevolezza della propria differenza, ed infine, indurlo a percorrere la propria strada.
«Ciò che quella volta si decise in me non fu precisamente una rottura con Wagner – io avvertii allora una generale aberrazione del mio istinto, della quale l’errore singolo, si chiamasse Wagner o cattedra di Basilea, era solo un sintomo. Mi prese una impazienza per me stesso; vidi chiaramente che era tempo, che ero all’ultima occasione di tornare a me stesso […]. Allora per la prima volta indovinai il nesso tra un’attività scelta contro il proprio destino, una cosiddetta “professione”, per cui non si ha nessuna vocazione – e quel bisogno di anestetizzare un senso di fame e di desolazione per mezzo di un’arte narcotica – per esempio l’arte di Wagner».
Questo passo è oltremodo significativo perché vi emerge la coscienza di una estraneità, non solo rispetto alla propria professione, quella di filologo, ma anche alla causa wagneriana. E se l’uso del termine narcotico segna una rottura definitiva col maestro, già nella quarta inattuale troviamo una presa di distanza molto simile, seppur senza l’utilizzo di un termine così forte. Come afferma Young, biografo americano di Nietzsche, la centralità di Wagner a Bayreuth è ancora dedicata – come lo era la Nascita della tragedia – all’esperienza dionisiaca che la musica del compositore tedesco intendeva riportare in vita, al fine di unire spiritualmente i bayreuthiani. Però una cosa fondamentale cambia: l’esperienza del regno di libertà che il dionisiaco schiude è una mera immaginazione suscitata dalla musica, non la vera realtà, al di là delle nostre illusorie rappresentazioni – come era nella Nascita della tragedia – ma, al contrario, il frutto della nostra fantasia, nient’altro che un’illusione. Il cambio di prospettiva è talmente mascherato che Wagner non si accorse di nulla e fu così entusiasta del libro da farne dono al principe suo protettore Ludwig. Ma questo testo esprime l’abbandono definitivo dell’idealismo schopenhaueriano, in favore di un metodo critico che andava a demitizzare ogni metafisica, non più solo quella cristiana ma anche quella schopenhaueriana e wagneriana, e che troverà piena espressione in Umano troppo umano, la cui pubblicazione è il definitivo parricidio dei due maestri.
«Come può l’uomo conoscere sé stesso? Egli è una cosa oscura e velata; e se la lepre ha sette pelli, l’uomo può trarsene settanta volte sette e non potrà dire: “Ecco, questo tu sei realmente, questa non è più corteccia”. Inoltre è un inizio tormentoso, rischioso, scavare sé stessi in tal modo e discendere con violenza per la via più breve nel pozzo del proprio essere».
Queste parole risalgono a Schopenhauer come educatore, e rivelano la reticenza di Nietzsche verso la fatica di guardarsi dentro, di trovare in sé stesso nuove potenzialità da realizzare, senza il bisogno di appellarsi continuamente ad una guida esterna. Quando però il filosofo rimase solo a Rapallo, il fatidico inverno tra il 1882 e il 1883 (di cui si è parlato nel precedente articolo), non aveva più alcun maestro da seguire. Si fece allora più che mai concreto il timore giovanile circa la possibilità di doversi educare da sé: lui stesso era infatti la propria unica fonte di conoscenza; decise quindi di fare la fatica di attingere al «pozzo del proprio essere». Fu così che «l’uno divenne due», e Zarathustra gli passò vicino.
Zarathustra nacque dalla ricchezza che Nietzsche trovò in sé, in virtù della quale si riprese anche le caratteristiche attribuite a Wagner nel tripudio della sua quarta inattuale. «Ciascuno dei suoi impulsi tendeva allo smisurato, tutte le qualità che procuravano gioia di vivere volevano scatenarsi e soddisfarsi ciascuna per proprio conto; quanto più grande era il loro numero, tanto più grande era il tumulto, tanto più ostile il loro incrociarsi», così viene rappresentata l’anima del compositore: come l’agone di impulsi che nella loro lotta avrebbero potuto realizzare «potenzialità infinite», oppure autodistruggersi. Nietzsche si riprese quelle potenzialità, perché lui stesso, il discepolo, doveva diventare maestro. Ma poiché il filosofo non aveva ancora la forza di una piena affermazione vitale, non era in grado di rinunciare del tutto alla condizione di discepolo. Allora egli fu entrambe le cose: un discepolo ed un maestro; come aveva descritto Wagner: un sé reale ed uno ideale – «l’uno divenne due» per l’appunto. Zarathustra avrebbe aiutato Nietzsche a realizzare le proprie potenzialità senza distruggersi, non solo, sarebbe diventato il maestro di tutti quegli spiriti disposti a fare la stessa fatica. Questo sì che avrebbe portato ad una vera rivoluzione per l’umanità, una rivoluzione a paragone della quale quella wagneriana sarebbe stato mero estetismo.
Nietzsche fu il primo discepolo di questo Zarathustra, non si trattava però in alcun modo di una sottomissione, infatti, seppure il nuovo ideale ponesse il filosofo in una condizione di lotta interiore, chiedendogli di superare i propri limiti, un tale ideale era Nietzsche stesso: quindi era Nietzsche ad accompagnare Nietzsche nel raggiungimento della pienezza vitale di chi afferma l’eterno ritorno.
Tantomeno dobbiamo pensare che questo doppio si possa trasformare in una sorta di nuovo imperativo morale, sul modello kantiano. Sebbene il fatidico percorso cui egli richiama presenti le caratteristiche dell’ascesi spirituale, sono enormi le differenze: l’etica kantiana deve condurre ad un perfezionamento morale infinito e fine a sé stesso, quella di Zarathustra è un’autodisciplina volta a realizzare le potenzialità del sé. Inoltre, la legge di Kant, secondo Nietzsche, nient’altro è se non la voce del gregge dentro di noi, Zarathustra risponde invece a sé stesso, traendo dal proprio percorso di vita gli insegnamenti di cui fa dono ai propri discepoli. E tanto meno ciò che trae da sé si esprime nella forma di una legge, i suoi discorsi hanno la fluidità del divenire e la fragilità di ciò che può essere facilmente dimenticato.
Tuttavia c’è da domandarsi perché il filosofo, ancora una volta, abbia avuto bisogno di un ideale. Aveva idealizzato Schopenhauer, poi Wagner, ora se stesso. Cosa stava cercando? Perché l’uomo, così com’era, non gli bastava? Sossio Giametta scrive che quella di Nietzsche è un’incoerenza, perché se da un lato Zarathustra implora di rimanere fedeli alla terra, dall’altro rinnega la natura umana, insegnando il Superuomo. L’errore dello studioso, a mio parere, consiste nel considerare il Superuomo come qualcosa di totalmente al di là dell’umano, come una sorta di evoluzione futura. Ma è guardando dentro di sé che Nietzsche lo vide; lui sapeva di poterlo diventare, e ci avrebbe provato tutta la vita. Sia in Così parlò Zarathustra che nella Genealogia della morale, l’individuo è il frutto più recente della Storia, e la facoltà di promettere che lo caratterizza, facendo di lui un essere sovrano, autonomo e sovra morale, è anch’essa il derivato dell’eticità dei costumi. È proprio un tale individuo ad avere in sé il potenziale per diventare il Superuomo, e Nietzsche il solitario, che era diventato cosciente di sé e capace di promettere, proprio a questo aspirava, e vi lavorò attraverso il suo ideale. In Così parlò Zarathustra, il protagonista è infatti Nietzsche stesso: il suo percorso, la sua solitudine, le discese tra gli uomini e i suoi ritiri, sono quelli del filosofo, e la famosa “caverna” è la sua minuscola stanza di casa Durish, a Sils Maria. Nel raccontare il divenire di Zarathustra, Nietzsche romanza il percorso verso il proprio superamento, interpretando l’eroe che diventa al contempo un ideale da raggiungere, ideale non solo per sé, ma anche per i futuri discepoli.
Una domanda frequente tra gli interpreti è se alla fine questo Nietzsche-Zarathustra sia riuscito nell’impresa. Ci sono molti passaggi in cui il personaggio nietzschiano dichiara esplicitamente di non essere il superuomo, di aspettare l’arrivo di qualcuno più degno di lui, ma ci sono anche episodi in cui Zarathustra sembra presentarne le caratteristiche. Non possiamo certo trovare una risposta, che sicuramente dipende da cosa uno intenda per superuomo: Nietzsche è stato così gentile da non darne una definizione chiara, in modo tale da permettere ad ognuno di intraprendere il proprio cammino per diventarlo, nella libertà di decidere anche cosa esso sia.