La monumentale Messa in si minore, conosciuta come “Grande Messa” – anche se questo non è titolo originale bachiano, ma venne attribuito all’opera nella prima edizione a stampa, nel 1845, sicuramente influenzato dal concetto tedesco di Missa solemnis divenuto popolare grazie all’op. 123 di Beethoven – non fu concepita da Bach come opera unitaria né, tantomeno, egli stesso la propose mai nella sua interezza. Infatti, la prima esecuzione della Messa fu nel 1834, un secolo dopo la composizione delle parti iniziali, Sanctus, Kyrie e Gloria, scritte nel 1724 e nel 1733 per sollecitare la nomina di Bach a organista nella Cappella di corte del duca di Sassonia, mentre Credo, Osanna e il resto della messa risalgono agli ultimi anni di vita del compositore, tra il 1747 e il 1749.
Soffermiamoci sull’Agnus Dei, il penultimo numero della Messa, uno dei suoi momenti più alti: nella sua semplicità e rarefazione, arriva dopo la ripetizione del potente doppio coro a otto voci dell’Osanna, con un effetto che potremmo dire di sospensione. Impossibile restare indifferenti. Vengono in mente le parole di Emil Cioran: “Se c’è qualcuno che deve tutto a Bach, questi è proprio Dio”.