La trasformazione silenziosa avviene senza rumore, senza preavviso, non si pensa nemmeno di parlarne. La sua impercettibilità non rientra nell’ordine dell’invisibile, ma si produce sotto i nostri occhi, a poco a poco, lentamente. Però non si nota, non si distingue mai a sufficienza, o da un momento all’altro, per poter introdurre una rottura che possa fissare la nostra attenzione, non si distingue mai abbastanza per poterla distinguere davvero. La difficoltà a pensare la trasformazione ci fa effettivamente mettere il dito nel punto preciso in cui è il nostro modo europeo di pensare a trovarsi in difetto. La difficoltà sta nel pensare l’essere stesso che al suo interno è transizione: dato che non è dell’essere, la transizione sfugge al nostro pensiero. In questo punto preciso il nostro pensiero si blocca, tace, ed è anche per questo che la trasformazione è considerata necessariamente “silenziosa”. Visto che essa si produce nella durata, non c’è nulla che assuma un rilievo sufficiente per farla emergere. Quando infine emerge, la si coglie e se ne parla come di un risultato. Perciò questa trasformazione sarà definita non invisibile, ma “silenziosa”: non è isolabile, non è localizzabile e si confonde con il suo svolgimento.
La vista è il senso del discontinuo e del locale: le palpebre si aprono e si chiudono come una tenda che si alza e si abbassa; l’udito è il senso della continuità. Si dice “tapparsi le orecchie”, ma non si può chiudere un orecchio: non si ascolta più, ma si intende ancora. Analogamente, si guarda necessariamente da una parte e dall’altra, si guarda un aspetto o un altro, sempre parzialmente, ma si ascolta globalmente; mentre la vista, proiettandosi al di fuori, si porta momentaneamente su un punto o su un altro, l’orecchio è quell’imbuto che raccoglie costantemente da tutte le parti. Una simile trasformazione sarà detta silenziosa perché, rientrando nell’uditivo, come senso del circostante e del continuo, tende comunque a sfuggire alla nostra attenzione.
Contro il privilegio che i greci hanno accordato alla vista, e all’ “occhio dell’anima”, quando i nostri occhi non vedono più è il nostro orecchio (è anche un orecchio dello spirito) che bisogna formare, che dobbiamo imparare a esercitare per entrare nella percezione globale e continua dei processi. Tanto è vero che il corso delle cose prosegue di notte come in pieno giorno. Ricordo questi bellissimi versi di Baudelaire: «Ascolta, mia cara, ascolta la dolce notte che cammina». L’articolazione da considerare è quella che connette questo svolgimento silenzioso e ciò che, per contrasto, chiamerò il suo affioramento sonoro. Più la trasformazione è silenziosa nel suo corso, più la sua conclusione sarà sonora e farà rumore quando esplode. Proverò a farvi un esempio molto semplice. L’invecchiare non si percepisce. Poiché è tutto in noi che invecchia senza mai fermarsi, noi non ci percepiamo mentre invecchiamo. È per questo che in Europa se ne è fatta un’età, uno stato, un ente (“la vecchiaia”), nonostante la difficoltà di coglierne l’inizio effettivo: quando ho cominciato a invecchiare? Ben prima che nasciamo la morte cellulare comincia a fare il suo cammino, il processo è troppo continuo perché si possa porre una data e, poiché riguarda tutto in noi, esso non si lascia specificare, separare, in alcun “luogo” di noi stessi. E siccome è “tutto” che si trasforma, un tutto di cui non si potrà mai fare la rassegna completa né si potrà mai contare fino in fondo, siccome è tutto in noi che invecchia, niente se ne allontana mai abbastanza, per farsi notare – se non aneddoticamente-. Poi, un giorno, ci guardiamo davanti allo specchio e gridiamo: “Ah, come sono invecchiato!”. Evento “sonoro”, anche se lo si contiene in petto e lo si tiene per sé: quella constatazione sorge improvvisa, a titolo di risultato. “Spostamento(i) sotterraneo(i) – trasformazione(i) silenziosa(e)”, si dice in cinese, per indicare quell’impercettibile cammino senza rumore, di cui non si pensa di parlare ma il cui risultato, alla fine, si impone. La prima lezione da trarre riguarda la vigilanza da esercitare per udire questa dimensione discreta del mutamento: il pensiero cinese ci educa proprio a questo, perché coglie in ogni stato una trasformazione; la sua aspirazione non è stata tanto quella di contrapporre il fisico al metafisico, ma piuttosto quella di apprendere il gioco delle influenze e delle coincidenze che tutti i fattori del mondo esercitano correlativamente gli uni sugli altri.
Non si tratta di contrapporre il pensiero cinese a quello greco, di propendere per l’uno o per l’altro. Io ammiro molto il pensiero greco. Penso che tuttavia, in un mondo globalizzato come il nostro, sia necessario studiare e comprendere anche un altro modo di pensare, in grado di cogliere la dimensione discreta del cambiamento, le impercettibili trasformazioni, e in questo il pensiero cinese può esserci di aiuto.
Il presente testo è stato riportato da Manuela Moretti in occasione della conferenza di François Jullien dal titolo “Voir ou entendre, entre la Grèce et la Chine/ Vedere e sentire tra la Grecia e la Cina”, che si è tenuta in occasione del Festival “A due voci” nel novembre 2018 ed è stato pubblicato sull’inserto culturale L’Ordine del quotidiano La Provincia domenica 17 febbraio 2019. È possibile consultare gratuitamente l’articolo originale apparso sull’inserto L’Ordine al seguente link: https://ordine.laprovincia.it/archivio/data/2019/02/17/#book5/page1.
La redazione di “A Due Voci” ringrazia il quotidiano La Provincia e l’inserto culturale L’Ordine per la gentile concessione.
La foto di François Jullien è di Ermanno Scozzafava