Facciamo un salto da Freud a Nietzsche (che sono in realtà molto vicini). Un comportamento in conformità con i divieti, i precetti e le regole accumulati nel Super-Io può essere chiamato, come fa Nietzsche, con il nome di “moralità”. In Aurora scrive: «[…] moralità non è nient’altro (e quindi niente di più!), che obbedienza ai costumi, di qualunque tipo possano essere; i costumi però sono il modo tradizionale di agire e di valutare». Al contrario Kant aveva attribuito un valore assoluto alla moralità. Un’azione è morale o buona quando corrisponde all’imperativo categorico, quando è la sola forma della legge morale a determinare l’agire, e non ad esempio un oggetto desiderato. Invece per Nietzsche la morale è nient’altro che una norma tradizionale e la moralità nient’altro che un’ubbidienza. Nella parola tedesca herkömmlich [tradizionale, ndr] è implicato il fatto che la norma non è eterna o celestiale, ma che viene da qualche parte, che sorge e si trasforma in determinati contesti storici, e appunto questo è il lavoro culturale, il lavoro della civiltà di Freud.
Nella Genealogia della morale Nietzsche parla esplicitamente di un’obbedienza indotta, a cui l’uomo viene “addestrato”. Nietzsche è sempre un pò più spietato degli altri filosofi della morale, che parlano di educazione, processo culturale o contratto sociale. Con questo addestramento l’uomo è reso «necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola e di conseguenza calcolabile». Il suo comportamento e le sue azioni sono prevedibili. Da una parte questo è senz’altro desiderabile perché non potrebbe aver luogo nessuna attività comunitaria, se non esistessero certi standard che condividiamo. E ovviamente alla fine la pulsione aggressiva e la violenza sono arginate da tali norme, standard, precetti e divieti. Per dirla con Georges Bataille, «È il rispetto dei divieti e non l’uso della ragione che dava all’uomo il senso di non essere animale». Possiamo dire che la pulsione aggressiva rappresentava un problema e la moralità è stata la risposta, la soluzione al problema.
Allo stesso tempo però la moralità a cui si è addestrati è problematica. Si acquista il vantaggio della tranquillità collettiva al prezzo di nevrosi individuali. Più grave però è un altro problema, cioè la tendenza ad elevare una certa idea di moralità, che sempre è condizionata dalla storia, a una morale obbligatoria per tutti e ad imporla come legge assoluta. È la tendenza a non tracciare la genesi delle norme e a difendere la loro validità con argomenti laboriosi. Ci si dimentica di chiedere quale fosse il motivo di certe distinzioni, per esempio quella tra buono e cattivo. Secondo Freud, l’abbiamo visto, è cattivo ciò per cui l’individuo viene sanzionato con una privazione d’amore. E Nietzsche scrive in Aurora: «in tutti gli stati primordiali dell’umanità il significato di “cattivo” corrisponde a quello di “individuale”, “libero”, “arbitrario”, “insolito”, “imprevisto”, “incalcolabile“».
Ci si dimentica anche di chiedere perché è buona cosa distinguere tra buono e cattivo. Qual è il buono in questa distinzione? Chi è che lo definisce? Per quali motivi? È questo il paradosso di una morale che opera con valori come buono e cattivo, ma che non può dare un concetto di buono che vada oltre. Tuttavia si atteggia come assoluta ed esclude quelli che non l’accettano, dato che la morale non è solo una forma di inclusione, ma anche una strategia di esclusione.
Ugualmente grave è un altro problema, quello dell’assorbimento e dell’addestramento all’ubbidienza per ottenere degli individui uniformi ed equivalenti tra loro.
Lo sguardo reciproco ha un effetto livellante: uno è osservato e si adatta alle attese degli altri, e viceversa, uno osserva e incalza l’altro ad adattarsi. Risulta una complicità che Nietzsche dipinge nel tipo dell’ “ultimo uomo”. Nella prefazione allo Zarathustra afferma: «Guardate! Io vi mostro l’ultimo uomo. / Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è nostalgia? Che cosa è astro? – così chiede l’ultimo uomo ammiccando. / La terra sarà divenuta allora piccina e su di lei saltellerà l’ultimo uomo che impicciolisce ogni cosa. / La sua razza è indistruttibile come quella della pulce; l’ultimo uomo vive più a lungo di tutti. “Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e ammiccano. […] / Nessun pastore è un solo gregge. Ognuno vuol la stessa cosa, ognuno è simile: chi sente altrimenti, va volentieri al manicomio. / Una volta tutto il mondo era pazzo dicevano i più astuti ammiccando».
Nella quarta parte dello Zarathustra Nietzsche contrappone l’ultimo uomo all’oltre-Uomo : «Uomini superiori, imparate questo da me: sulla pubblica piazza non crede nessuno al super-uomo. E se voi volete parlarne, ebbene! La plebe ammicca come per dirvi: “Noi siamo tutti uguali”. / Uomini superiori?! – così ammicca la plebe; – non esiste l’uomo superiore, noi siamo tutti eguali, l’uomo è buono, dinanzi a Dio – Siamo tutti eguali!” / [Una contro-voce disse:] Dinanzi a Dio! – Ma ora questo Dio è morto. E dinanzi alla plebe, noi non vogliamo essere eguali. Uomini superiori, allontanatevi dalla pubblica piazza!».
A causa del controllo reciproco viene impedito che un individuo si innalzi sopra gli altri. Anche questo processo è ambivalente: ci sono casi in cui un controllo reciproco è desiderabile (pensiamo alla corruzione). Ma quello che viene problematizzato qui è un’ uguaglianza nel senso di livellazione, di un appiattimento dogmatico e presuntuoso.
Tramite lo sguardo degli altri l’individuo è stato identificato, assegnato, giudicato ,”liked‘, valutato, categorizzato, condannato; se ne registrano le presunte caratteristiche e i presunti desideri. I concetti di identità e di persona sono un ancoraggio per attribuire qualcosa a qualcuno, e per poterlo giudicare. Nei Nuovi saggi sull’intelletto umano Leibniz discute il concetto dell’identità morale. Filalete dice: «La parola persona significa un essere pensante e intelligente, capace di ragionare e di riflettere, e che possa considerare se stesso come uno stesso […]». Poi Theophilus: «Nell’uomo, in conformità con la provvidenza divina, l’anima mantiene una identità morale, evidente a noi stessi, per formare la stessa persona, che di conseguenza può sentire la pena e la ricompensa». Questa situazione può provocare un’alienazione dell’ individuo, perché̀ è relegato in un ruolo che non gli corrisponde, perdendo così la sovranità sulla sua vita.
La moralità comporta da parte sua dei problemi e un paradosso della morale, siamo quindi in cerca di nuovi concetti e di nuove distinzioni per superare questi problemi.
Il testo qui proposto fa parte della conferenza dal titolo “La sovranità e lo sguardo degli altri” che il professor Timon Böhm ha tenuto durante l’edizione 2018 del Festival “A Due Voci”.