Esaminiamo la possibilità di non condividere la moralità come norma assoluta e di non lasciarsi identificare dall’altro. Nietzsche ha esplorato questa possibilità sotto la cifra dell’indivduo sovrano. Nella seconda dissertazione della Genealogia della morale intitolata  “Colpa, cattiva coscienza e simili“ Nietzsche scrive così: «Mettiamoci invece al termine dell’immenso processo, là dove l’albero finalmente fa maturare i suoi frutti, dove la società e la sua moralità [da Ferruccio Masini: eticità] di costumi porta infine alla luce lo scopo per il quale essa fu unicamente il mezzo: troveremo il più maturo frutto del suo albero, l’individuo sovrano, l’individuo eguale soltanto a se stesso, nuovamente riscattato dalla morale [eticità] dei costumi, autonomo, sovra-morale (“autonomo” e “morale” [etico] si escludono)». Quest’uomo, l’individuo sovrano, si distingue per la propria autonomia. Ma che genere di autonomia è intesa qui?

George Bataille ha dedicato un testo favoloso alla sovranità. Il concetto di sovranità, dice lui, «si oppone per principio a tutte le limitazioni di fatto, che contrassegnano la sovranità reale o immaginabile. La sovranità appartiene soltanto a chi nega per principio tutto ciò che limita l’autonomia della sua decisione. Se questo è vero, ciascuna definizione empirica di una sovranità più o meno grande ha poco senso. Quello che conta è sempre il carattere sospeso, revocabile di un limite di fatto – se non in relazione ad una sovranità data, a questa sovranità intangibile, che si trova sempre al di là del possibile-». In questo concetto c’è una dialettica storica di divieto e trasgressione: «Il dato era per l’uomo originalmente quello che è stato rimandato dal divieto: l’animalità non limitata da nessuna legge. Il divieto è diventato da parte sua il dato, che viene rimandato dall’uomo – adesso appunto nella forma singolare dell’individuo sovrano».

Dunque sovranità vuol dire che uno si riserva di rompere un precetto o divieto, con le parole di Bataille, di trapassarlo in una trasgressione: «Gli uomini rispettano questi divieti [della moralità], però si riservano momenti seri, in cui li rompono. Non hanno bisogno di trapassare ciascuna legge sistematicamente; però generalmente il momento della trasgressione ha un posto insostituibile nella vita umana». E di nuovo incontriamo una ambivalenza. Da una parte sembra una promessa di farsi indipendente, di fare qualcosa in un altro modo, di non rispettare una norma non approvata, di dire: lo faccio a modo mio. D’altra parte si rischia un’offesa dell’altro, un’arroganza o una hybris. Inoltre la rottura del divieto o del precetto non può essere tutelato da un altro precetto (non è il carnevale, dove l’ordine pubblico è scardinato per un paio di giorni, e poi incardinato di nuovo. Il carnevale è una comportamento amorale conforme alla moralità basilare).

In un certo senso anche la sovranità è un paradosso. Da una parte l’individuo è un concetto paradossale, e non qualcosa che si lascia definire come persona morale, come ha pensato Leibniz. Perché quello che un individuo è si determina tramite la differenza da tutti altri individui. D’altra parte anche il concetto della sovranità è paradossale. Cito due critiche a Nietzsche: «L’uomo sovrano si libera e insorge contro la moralità, però può farlo solo perché ha interiorizzato la capacità di collegarsi alle regole, perché sono diventate la sua seconda natura». E ancora: «L’individuo nel senso positivo inteso da Nietzsche è un individuo sovrano, liberato da tutte le catene esteriori dello stato, della società, della chiesa e della morale […]. Liberazione non significa isolamento o alienazione dalla realtà sociale, ma superamento della realtà tramite il suo riconoscimento e allo stesso tempo il riconoscimento della realtà tramite il suo superamento».

La sovranità è ambivalente anche da un altro punto di vista, così come ciascuna forma di dominio è consegnata al pericolo di perderla. Nel passaggio già citato di Aurora Nietzsche scrive: «In origine quindi tutto era costume, e chi intendeva elevarsi al di sopra di esso, doveva diventare legislatore e stregone, una specie di semidio: cioè doveva creare dei costumi – cosa terribile e pericolosa per la vita!». Perché: «Ovunque ci sia una comunità e quindi una moralità del costume, domina anche il pensiero che il castigo per la offesa al costume ricada soprattutto sulla comunità». L’individuo che offende un precetto è punito per la sua slealtà. Ciò è valido soprattutto  per l’individuo sovrano, il contrario dell’uomo armentizio e dell’uomo utile per la comunità. Come dice Bataille: «L’uomo utile è quello che si occupa di cose che l’uomo sovrano nega».

Torniamo alla domanda: in che misura un’azione sovrana non è un’arroganza o una hybris? Di solito ci si indigna quando qualcuno non rispetta le regole obbligatorie per tutti, quando uno contravviene arbitrariamente ai precetti (pensiamo a certi uomini di stato). Si potrebbe dire, che questa indignazione non è nient’altro che il risentimento di quelli che non hanno il potere di fare lo stesso. Si tratta allora solo di una questione di potere, della preponderanza economica, finanziaria, istituzionale? Se da Nietzsche il concetto di potenza e potere è onnipresente, bisogna servirsene prudentemente e vedere come egli lo intende in vari contesti. Nel contesto dell’individuo sovrano non è inteso come potere economico, finanziario e istituzionale. Piuttosto propone un altro concetto, con cui la possibilità di una gerarchia alternativa appare. È il concetto di rango. Certamente anche rango suona marziale e militare, ma è inteso in altro modo(in tedesco non si distinguono “potere” e “potenza”, ma è semplicemente “Macht“). Nietzsche utilizza questa parola in entrambi i sensi: “potenza” è più ontologico, mentre “potere” è più politico.

Esaminiamo quindi come Nietzsche lo intende. Nel concetto di “rango” l’uguaglianza dei dritti è messa in dubbio, l’uguaglianza prescritta dalla moralità delle morale. Nietzsche confronta i due concetti in Al di là del bene e del male: «Ovunque si credeva in una gerarchia [Rangordnung; qui mi sembra inadeguata la traduzione di Ferruccio Masini] e non già nell’uguaglianza e negli uguali diritti». E gli preferisce una tale gerarchia a una uguaglianza proclamata dalla morale. «Per esempio, in chi fosse destinato al comando e fatto per comandare, il sacrificio di sé e il tenersi indietro per modestia non sarebbero una virtù, bensì la dissipazione di una virtù: così a me pare. Ogni morale non egoistica, che si afferma in guisa assoluta e si rivolge a ognuno, non pecca soltanto contro il buon gusto: essa è uno stimolo a peccati di omissione, una seduzione sotto la maschera della benevolenza per gli uomini superiori, più rari e privilegiati. Occorre costringere le morali a inchinarsi soprattutto dinnanzi all’assetto gerarchico [anche qui in tedesco Rangordnung], occorre mettere di fronte alla loro coscienza la loro presunzione — finché non giungano concordemente a rendersi conto che è immorale dire: “Quel che è giusto per uno deve essere giusto per l’altro”».

Così Nietzsche passa al contrattacco. Immorale non è la presunzione che ved̀e una asimmetria, ma la presunzione che tutti debbano aggiustarsi allo stesso schema, dove l’uomo è «necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola e di conseguenza calcolabile».                

Ma che cosa vuol dire rango? Ci sorprende, ma sono associati al rango dei concetti come nobiltà («uomini non abbastanza nobili per scorgere quale gerarchia abissalmente diversa e quale scissura di rango sussista tra uomo e uomo – tali uomini, con la loro, uguaglianza dinanzi a Dio») o responsabilità (un filosofo «determinerebbe persino il valore e il rango, a seconda di quali e quante cose uno sia in grado di sopportare e di assumere sopra di sé, a seconda del limite fino al quale uno può tendere la sua responsabilità»).

E qui entra in gioco di nuovo la coscienza. L’abbiamo conosciuta come coscienza cattiva, insorta dallo sguardo degli altri. Nell’Aurora Nietzsche scrive: «L’originalità di ogni tipo, sotto il dominio della moralità dei costumi, ha acquistato una cattiva coscienza». Al contrario c’è adesso una prospettiva per una buona coscienza. Il secondo articolo della seconda parte della Genealogia della morale chiude con una tale nozione di coscienza: «La consapevolezza di questa rara libertà, di questa potenza sovra se stesso e sul destino è discesa in lui sino al suo infimo fondo ed è divenuta istinto, istinto dominante – quale nome darà a questo istinto dominante, ammesso che senta in sé il bisogno di una parola per esso? Ma non v’è dubbio: questo uomo sovrano lo chiama la sua coscienza […]».

Si instaura così una nuova forma di coscienza. Il concetto di Super-Io sorvegliante, secondo la mia ipotesi, è convertito in una figura interna, che ha la forza di decidere. La sua forza si mostra nella frase “è lecito far promesse“, perché è capace di difendere una promessa e «poiché si sa abbastanza forte da mantenerla persino contro casi avversi, persino contro il destino» (la formula “versprechen dürfen” si ripete tre volte, mentre nella traduzione si trova anche “è consentito promettere“). L’individuo sovrano non agisce più a partire da un senso di colpa di fronte a un chip impiantato di nome Super-io, bensì da se stesso. Un atto sovrano è un’espressione di questa figura interna. L’opera intera di Nietzsche è una liberazione da mille catene e catture: dalla famiglia (madre, sorella), dai padri sostituivi (Schopenhauer, Wagner), dalla comunità (i tedeschi, i cristiani), dai paradigmi in voga (la morale). Nell’ individuo sovrano questo sforzo è diventato carne e sangue.

Il testo qui proposto fa parte della conferenza dal titolo “La sovranità e lo sguardo degli altri” che il professor Timon Böhm ha tenuto durante l’edizione 2018 del Festival “A Due Voci”.