Sette ragioni per amare la filosofia. Sono quelle che Giuseppe Cambiano ha elencato in un suo recente saggio. Io personalmente ne ho molte di più ma sono d’accordo con Cambiano quando scrive che “gli eventi promossi possono essere apprezzati” e che dunque per fare promozione alla filosofia sia necessario essere semplici e chiari. Sì, perché il primo grande pregiudizio nei confronti della filosofia è che sia, nel migliore dei casi, appannaggio di illuminati, intellettuali (preferibilmente di sinistra) e professori; nel peggiore, di predicatori da blog o urlatori da media generalisti. 

A cadenza regolare giornali e case editrici pubblicano “le collane dei filosofi” perché i lettori vogliono capire, sentono il bisogno di fondare il loro pensare. Non è scontato però che prendere in mano un testo di Platone – per quanto introdotto, contestualizzato, attualizzato, semplificato – sia utile a comprendere e soprattutto a vivere la filosofia. 

La filosofia, a prescindere dal suo inestimabile valore storico, è una disciplina in cui a essere importante è il cammino e il modo in cui lo si percorre non il risultato, l’obiettivo, la mission, come si usa tanto dire. La filosofia è la pratica filosofica. Scrive Rossella Fabbrichesi che “la filosofia non si può insegnare ma solo mostrare mentre si fa”. Lei, illuminata docente di filosofia teoretica, lo ha sperimentato direttamente con i suoi studenti universitari. “C’è però bisogno – dice ancora – che ci siano maestri consapevoli e allievi che stiano produttivamente nel cerchio dell’ascolto”.

Ecco un altro, imprescindibile, aspetto: la dimensione pubblica del lavoro dei filosofi. Nulla contro chi si chiude nei suoi anni di studio filosofico matto e disperatissimo, ma è pur necessario che la filosofia, per esser tale – e non condurre da un lato a un impazzimento di chi la pratica, dall’altro a un girare a vuoto su se stessa – esca dall’esclusività della sfera privata. “Una ricerca puramente individuale è illusoria, alle spalle e intorno a ogni filosofo ci sono sempre esperienze, conversazioni, letture che mettono a confronto con altri”, rimarca Giuseppe Cambiano.

Uno dei cerchi dell’ascolto dentro cui si può praticare la filosofia è il caffè filosofico. La formula è quella ideata da Marc Sautet: “Né circolo per iniziati, né gruppo di terapia selvaggia” ma un modo di stare insieme profondo e piacevole. E così è stato per me nei quattro appuntamenti Café Philo che ho organizzato in una cornice accogliente e simbolica, L’Ostello Bello di Como, luogo di passaggio di viaggiatori come tanti filosofi sono stati, Nietzsche in testa, e “bello” come bella è la filosofia. Quattro, nel nostro caso, aperitivi filosofici durante i quali il “Vedere / Sentire”, tema dell’ultimo Festival “A due voci”, si è declinato a partire da una suggestione da me proposta: una musica, una lettura, a volte un’esperienza capitata lì per lì, e da cui sono nate libere discussioni. Nessun obbligo di arrivare a una conclusione per forza ma la possibilità per tutti di mettere in circolo i dubbi, le domande, le critiche o le emozioni via via emerse. Io che in quel cerchio ero la moderatrice, la collettrice di pensieri, a volte semplicemente uno specchio che rifletteva le voci altrui, ho potuto vivere la filosofia. Un grande privilegio. Giovani e meno giovani, provenienti da contesti diversi con storie personali e cammini distanti per formazione e vocazione, abbiamo trovato quel che ci accomunava e che ci differenziava nell’approccio

alla vita e alle sue domande. Qualcuno tra i partecipanti, terminata la discussione, sulla soglia dell’Ostello o camminando verso l’automobile mi ha poi aperto altre porte sulla sua vita. Un altro grande privilegio.

Mai come ora la filosofia può essere arma di difesa dalle mitologie contemporanee. Una scommessa (quando serve) carbonara contro l’assimilazione acritica delle posizioni del cosiddetto senso comune. La filosofia però può rivolgersi solo a chi è pronto ad accoglierla e il gruppo dei Café Philo l’ha fatto pienamente.

In chiave esistenziale, il caffè filosofico ha alzato il velo sulla quotidianità vissuta da ciascuno dei “filosofanti”, facendo sì che sullo sfondo si delineassero orizzonti frutto di abitudini, scelte, costrizioni… a loro volta cresciute dentro alvei culturali, familiari e sociali ben precisi. Divenirne consapevoli dentro il circolo, poter esprimere emozioni e dubbi forse ha acceso una luce inedita. Per me è stato così.

La filosofia è nata nella vita quotidiana come diretta emanazione dell’uso della ragione. E per prima cosa si è interrogata sull’uomo e sul senso del suo essere in questo mondo. Ciò che accomunava maestri e discepoli della filosofia, fin dal suo sorgere, era il desiderio di essere liberi. Liberi dalla paura, dall’ignoranza, dal bisogno, da dipendenze distruttive, dall’avarizia, dalle malattie dell’anima. Il primo passo del cammino che porta, se non alla libertà a una qualche forma di libertà, è una domanda: perché? 

E con un “perché” sono cominciati (o finiti!) i caffè filosofici. Perché interpretare la musica? Perché sentire/vedere una cosa invece che un’altra? 

William James avvertiva sull’importanza di partire dall’esperienza pura cioè “dal flusso immediato della vita che fornisce il materiale per la nostra successiva riflessione con le sue categorie concettuali”. Vita e conoscenza spesso cozzano tra loro ma questo è il bello, direbbe Nietzsche, che ci porta a vedere il necessario delle cose come quello che v’è di bello in loro. Divieni ciò che sei, prova a conquistare ciò che da sempre appartiene alla tua forma di vita. Coltiva la sapienza per condurre una vita felice.