Il silenzio di Liszt / Suono sono (prima parte)

Non c’era palco, non c’era scena: la musica fuggiva da se stessa. Polvere di ogni nota che si solleva fin sopra le corde e se ne stacca, come la scorza da un ramo ancora fresco. La musica è in fuga, scappa dalla finestra, piange i suoi colori trascinandoli sul mondo semiliquidi, a pennellate distratte, involontarie; quasi insperate. È una ladra da poco, nessuno le corre dietro; ma di una corsa selvaggia si tratta: un galoppo che non stanca, lo scatto che distingue chi non vuole da chi vuole ancora sopravvivere. La musica è andata, partita. È già lontana; dopo l’ostacolo di vernice lucida ha preso il volo: rincorre qualcuno, ma più ogni altra cosa vuole allontanarsi dai suoi passi, come il Tancredi del Tasso, o il Mazeppa di Liszt. Tornare indietro, riavvolgere il nastro mentre una mano inanellata ruota, senza tregua, sui tasti muti di una carrozza da viaggio. Ma tutto, un attimo dopo, si era già perso nell’aria: nessuno aveva ancora fermato la musica.

Il silenzio ha una sua tonalità: senza tonica, senza dominante; è sempre e solo una sensibile. A volte un tamburo risuona prima che il battente lo colpisca, quasi sentisse tremare la musica che deve ancora sgorgare: vibra al rumore dei fischi e degli applausi, o al fragore di un terremoto che miete le sue vittime dall’altra parte del mondo. Risuona ancora prima di suonare. Franz Liszt inseguì, per tutta la sua vita, ciò che avrebbe potuto dare nuovo senso alla propria arte, a tal punto che non smise mai di trasformarsi; e dubitò della natura stessa di ogni suono, in cerca del suo “capolavoro sconosciuto”. Solo vicino alla morte, fece silenzio; ma fu proprio quel silenzio di dubbio metodico, così eufonico e veggente, a consentirgli di ascoltare le musiche del futuro: una risonanza anticipatrice di Debussy, Ravel, Bartok e Schönberg.

Suonava Nuages gris, di fronte alla stessa finestra da cui, ogni giorno alla stessa ora, la sua musica si gettava, esuberante e suicida; metamorfica. Infine il suono si disperdeva in strada, più giù, fino a perdersi tra i palazzi.

1827, Benoît Gonod inventa la stenotipia; presto si diffonde la Macchina Michela, tastiera da pianoforte adoperata per riportare velocemente le dichiarazioni degli imputati nei processi in tribunale. Nel 1828, Liszt si trasferisce a Parigi; “prende nota” della volontà più intima del suo pubblico, si fa interprete delle sue pulsioni più recondite, come se trascrivesse istante per istante ciò che la folla – lisztomane, appunto – avrebbe desiderio di ascoltare; suona sotto dettatura. Improvvisa sul cuore della gente. Si rivela infatti un’idea fortemente pianistica quella di trovare il suono senza averlo generato, ovvero di imbattersi nella meraviglia di un miracolo quasi per caso. Non è musica, ma un dialogo buttato sulla carta alla rinfusa, nel tentativo di cogliere i nodi fondamentali tra le parole, mentre gli attori recitano nell’ego teatrale della sua persona. La composizione stenotipica, abbozzata, si serve di escamotages e abbreviazioni solo perché comodi sulla mano; la scrittura è stenografica, affinché si possa cogliere con realismo il ritmo del sentimento e dell’emozione.

Liszt compone in tempo reale, da grande romanziere, per dare sempre l’impressione che, solo sul patibolo dell’artificio, stia improvvisando: il suo virtuosismo è trascendentale nel momento esatto in cui riesce a imprimere sul pentagramma l’afflato della melodia che palpita libero nella sala. Liszt, più veloce del tempo, è stato il primo a fermare la musica.

Tra le braccia di Marie, come fra le rovine di una Roma papale. Sacro e profano si legano nel vortice della passione domata, così petrarchiana nel suo essere: il giovanile errore, l’errare per l’Europa del petit Ferenc, da un concerto all’altro; la trascendenza mortuaria del Totentanz; le note ribattute, sul letto del pedale in risonanza, come l’accidia dei Sonetti del Petrarca; ma soprattutto l’angoscioso frammentarsi del proprio io, così lontano dal ricongiungersi a sé. “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono” – i pensieri come avvoltoi si scagliano sulla carcassa polverosa dei ricordi smembrati e non vi riconoscono più nulla. La musica, nella sua struttura rigida e inflessibile, non può più sopportare le scosse che smantellano la coscienza dell’autore: le note non potranno allora che essere fluide, amniotiche, “sparse” e disseminate sopra una liquefatta pasta di fondo. Non sono le giunture armoniche, né le linee melodiche a tenere insieme le singole tessere del mosaico, ma il “suono”, nella sua ricercatezza e identità, nella propria unicità di carattere: Liszt diceva di “essere il concerto”; come il Petrarca, avrebbe confessato: “Suono sono”. La musica svanisce, ma se noi davvero siamo musica, allora non saremo mai pronti alla fuga selvaggia che ci porta a disperderci, senza poterci vedere, quell’istinto che ci condanna giorno per giorno ad improvvisare, vivendo dei nostri sbagli e di tutto ciò che ci avvicina alla vallée d’Obermann, sempre più sterminata, sempre più vana. Dove siamo diretti, dove ci spinge il silenzio? La partitura sigilla gli insostituibili ricordi dell’uomo: diventa impossibile fare nostro un brano – per noi che ascoltiamo – intessuto com’è delle fibre di chi l’ha composto. Possiamo soltanto stringere per un attimo fra le dita i nostri frammenti, notarci e subito annotarci in uno specchio infranto; il nostro autoritratto ci sfinisce, nella certezza di essere noi, con la nostra immagine corporea, l’unica cosa che ci tiene uniti a noi stessi, appesi alla vita come funamboli: è la solitudine del pianista, che a volte, atterrito sul palco, a un minuto dall’attacco della prima misura, corre il rischio di fuggire da se stesso; le mani gli tremano, sui tasti bianchi e freddi come un cadavere, e non ha più la forza di tenersi insieme. Ecco da dove germoglia l’incontenibile fame dell’altro. Solo l’improvvisazione, dichiara il lisztiano Georges Cziffra, “permette di innescare un processo di autosuperamento, mettendo in collegamento l’esecutore con se stesso”: improvvisando, quindi, l’esecutore riesce a ritrovarsi, a bastarsi. Compone.