«La libertà di cui non si gode attraverso il pensiero, la si conquista infine ridendo del proprio conflitto. Quando ridiamo, infatti, non ridiamo sempre un poco di noi stessi? Ridiamo di quel che il prossimo – gli altri – fanno o dicono, ma se in essi non ci vedessimo un po’ oggettivati, non proveremmo quella sensazione di esserci liberati di un conflitto o di un timore. Dell’inconfessato timore di essere così, in un modo determinato che non ci piace. Il pagliaccio, dunque, ci consola e ci allevia del fatto di non essere come siamo, di non poter essere altrimenti: di non poter oltrepassare il recinto che noi stessi poniamo alla nostra libertà. Di non osare accollarci il peso della nostra libertà, il che si fa solo pensando. Solo quando si pensa si carica ci si carica del peso della nostra esistenza, e solo allora si è veramente liberi. Con l’ombra densa dei nostri conflitti il pagliaccio modella i suoi gesti, la sua mimica quasi immobile. E, alla fine, risolve tutto in musica: alcuni gemiti di violino o una cadenza appena accennata al pianoforte, o anche il suono lieve di una fisarmonica che viene a dirci: “Eppur si muove!” Siamo, malgrado noi stessi, liberi».
MARÍA ZAMBRANO, Il pagliaccio e la filosofia