Rose is a rose is a rose is a rose
Gertrude Stein

Il valore della ripetizione come struttura ritmica del verso di Gertrude Stein, non ha solo funzione poetica e rafforzativa, bensì implica la libertà di riempire quella parola dei significati che più ci appartengono e sentiamo vicini. Gilles Deleuze affermava che “tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione”.

La ripetizione è tra le cifre stilistiche più pertinenti della poesia, laddove libere ripetizioni lessicali, nel corso del testo, possono dare luogo a ingannevoli attribuzioni, secondo i canoni della retorica classica, al campo dell’anafora, o di altre figure come l’anadiplosi o l’epanalessi. 

Molto spesso, specie nel Novecento, la ripetizione appartiene all’ironia, trasgredisce, sovverte, costituendosi come una singolarità contro le generalità che fanno legge. (La questione della rosa, peraltro, viene presto chiusa dal protagonista di un racconto di Jorge Luis Borges, il giovane Urbas, che vince un concorso di poesia, il cui tema è “la rosa”, presentando una rosa: “le parole, artificiose figlie dell’uomo, non poterono competere con la spontaneità della rosa, figlia di Dio”). Proprio negli stessi anni parigini della Stein, Erik Satie opera con logica simile in campo musicale, prendendo una cellula semplice ed estendendola con la tecnica della ripetizione, immutabile e ostinata. Da questa uguaglianza deriva l’impercettibile varietà; per dirla sempre con Deleuze, “la ripetizione più esatta e più stretta ha per correlato il massimo di differenza”. In questo modo, la ripetizione, che è un mezzo espressivo intrinseco alla musica, assume una valenza tutta nuova, specifica di un’epoca. Erik Satie, personaggio tra i più eccentrici del panorama culturale e artistico parigino d’inizio Novecento, ebbe diverse manie, fissazioni: una per cui andava certamente celebre, fu quella per l’ombrello, senza il quale era davvero impossibile vederlo per Parigi. Forse, parodiando la sua amica Gertrude, Satie avrebbe potuto dire “un ombrello è un ombrello è un ombrello”.

L’ombrello è oggetto in qualche modo fondativo anche del movimento surrealista, se vogliamo attenerci alla frase di Max Ernst ripresa da I canti di Maldoror di Lautréamont, che definisce il bello “come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio” e adottata come manifesto estetico dai surreliasti.

Proprio l’ombrello, quindi, sarà adoperato come espediente narrativo per raccontare un incontro, quello tra Satie e il surrealismo, secondo la logica di trasgressione e libertà che le poche parole sulla ripetizione hanno appena introdotto. D’altronde, Michel Foucault pensava che la somiglianza fra i procedimenti adottati dagli scrittori e certi rituali degli ossessivi o certi scarti verbali degli schizofrenici avessero forti somiglianze.

Nel 1924, André Breton formulò il primo manifesto del surrealismo, definendolo “un automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, o verbalmente, o per iscritto, o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza d’ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori d’ogni preoccupazione estetica o morale”. (Attorno al 1915, lo stesso Breton e Louis Aragon, entrambi giovani studenti di medicina, rivolgevano il loro interesse al lavoro di Pierre Janet, professore al Collège de France, figura di spicco della psicologia e, seppure di poco, anticipatore di Freud nell’intuire l’importanza dei ricordi subconsci nella quotidianità.)

Breton e i surrealisti, quindi, partirono dall’idea che la creatività automatica fosse una forma di creatività superiore, l’unica in grado di raggiungere la purezza primaria della fonte poetica, svincolata dalla tirannia della ragione appellandosi al misterioso universo del subconscio.

In realtà, Breton aveva letto solo documenti di seconda mano su Freud e le sue teorie, perché non conosceva il tedesco – come la maggior parte dei suoi colleghi, peraltro. Così, nel 1921, decise di fare un viaggio a Vienna proprio per incontrare il padre della psicoanalisi, il quale però lo ricevette ma liquidandolo piuttosto bruscamente. Nonostante la sua delusione, e nonostante le forti tensioni che periodicamente si ebbero tra il surrealismo e il mondo della psicanalisi, Breton sostenne sempre quest’ultima come base delle proprie teorie.

La differenza tra psicanalisi e Surrealismo consiste principalmente nella relazione con le parole e le immagini: per Freud, queste andavano interpretate, mentre per Breton e compagni, esse rappresentavano formule magiche, dal potere incantatorio. Il rapporto colla psicanalisi segnò una netta differenza, poi, tra surrealismo e dadaismo; questo intendeva guardare la realtà come terreno della massima sperimentazione, fino allora mai osservata con tanta lucidità, mentre quello operava esaltando l’io con un movimento introspettivo, sprofondato nell’inconscio individuale.

Per i surrealisti, la libertà dello spirito doveva avere, come premessa indispensabile, la libertà sociale, da raggiungere attraverso la rivoluzione. Per questo, i due cardini della ricerca di Breton e degli altri surrealisti erano costituiti dal pensiero di Marx e da quello di Freud. Breton stesso, al di là dalle elaborazioni presenti in manifesti e saggi, spiegò bene cosa intendesse in un’intervista del 1935: “Noi abbiamo proclamato da lungo tempo la nostra totale adesione al materialismo dialettico, di cui facciamo nostre tutte le tesi. […] Il surrealismo ha annesso una particolare importanza alla psicologia del sogno così come Freud l’ha spiegata”.

Tratto da Guido Giannuzzi, Gli ombrelli di Satie, Ogni uomo è tutti gli uomini (2018).