Dedicata alla memoria del Maestro Antonio Anselmi (7 maggio 1969 – 8 luglio 2019).
La fanciullezza di Claudio Arrau (1903 – 1991) è tipica dell’enfant prodige. Esistono persino su internet, oggi, vecchie foto che ritraggono il bimbo di tre o quattro anni, con lunghi boccoli chiari, intento a suonare, su uno sgabello altissimo, con un sorriso da manifesto sul visetto paffuto.
Ultimogenito di una agiata famiglia cilena, tutta declinata al femminile (il padre aveva abbandonato il nucleo poco dopo la sua nascita), Claudio cresce all’ombra di numerose fanciulle-sorelle già grandi, della zia, e soprattutto della madre. Intelligente e ambiziosa, conscia del talento strabiliante del figlioletto che preferisce esprimersi suonando anziché parlare, la signora decide – per tutti – che la famiglia si trasferirà a Berlino, ove il fanciullo studierà con l’anziano Martin Krause, già allievo di Liszt.
Grande svolta. Da precettore rousseauiano, Krause accoglie il ragazzo a casa propria: lo carica di compiti settimanali di un’ampiezza volta a saggiarne la capienza e la profondità; forgia in Claudio il suo ultimo capolavoro didattico: inizia il giovane alla cultura che pretende completa, enciclopedica, vivente, sintesi delle più ardite visioni schleiermacheriane e diltheyane dell’ermeneutica e della Storia. “Vuoi suonare Beethoven? Devi conoscerlo tutto. E non solo il Beethoven pianistico: ma anche quello sinfonico, cameristico. Devi leggere moltissimo, ricostruire le fonti dell’atto creativo rivivendone la genesi. Attorniati di stimoli atti a conoscere l’uomo Liszt…”. Soprattutto, Claudio ha da essere fedele alla Neue Sachlichkeit, la Nuova Oggettività antiromantica che attraversa la cultura tedesca come una religione positivista e investe il campo della interpretazione musicale. Nata soprattutto in ambito letterario-filologico, essa si contrappone al facile romanticismo che manipola i pezzi adattandoli all’esecutore e talvolta modificandoli a piacimento pur di rendere l’idea in pubblico, pur di creare un’atmosfera, pur di strappare l’applauso o commuovere. No: il musicista, ovvero l’interprete puro, deve esser conscio della propria missione ancillare e sacerdotale: deve muoversi nel più sacro e attento e severo rispetto del testo. È solo a partire da lì, dal corpo del testo, dal manoscritto, che la realtà del lascito si fa viva e si impone all’interprete come compito. Il pianista deve essere colto.
Krause introduce Claudio presso le piccole corti del Nord Europa, sino alla Norvegia: il giovane si fa conoscere ma anche assorbe, come una spugna, un patrimonio culturale che in Germania dava già esiti sconcertanti e pieni di fascino: assiste alla genesi del Gabinetto del Dottor Caligari, e ne vede la prima, nella rossa Berlino. Vede danzare Martha Graham e soprattutto Nijinskij, folle e profetico Zarathustra. Conosce attori di teatro: ne ammira in particolare la generosità, lo slancio; nota che costoro non temono lo smarrimento del baricentro della personalità, ma anzi lo cercano, spingendosi oltre se stessi, senza rete, diventando il personaggio, come fa Donna Anna nel sublime e atroce racconto di Hoffmann: gli Artisti appaiono tanto più grandi quanto più disponibili a vivere pericolosamente, perdendosi, provocando il proprio inconscio, movendo marosi sotterranei, bevendo la follia altrui per rappresentarla – e dando così la stura alla propria.
Essere interprete è cosa seria e pericolosa, dunque, oltre che sublime. Vi incombe il pericolo di follia, di identificazione perniciosa alla Cosa, di dissipazione del talento; di solitudine, incomprensione e banalizzazione; di esaurimento di forze e di ispirazione; di freddezza, di angoscia, di ansia da prestazione. Tutto questo è presto sperimentato dal giovane Claudio Arrau: non appena egli esce dalla fanciullezza in cui “tutto è spontaneità e natura”, accade che Krause, figura paterna, muore. Inoltre c’è la guerra mondiale, che cambia la geografia del mondo; dopo, muta il concetto stesso di concerto, sempre più spesso affidato a grandi organizzazioni internazionali che bramano creare il personaggio e il divo, insistendo non di rado sul virtuoso in rivalità con altri virtuosi. Lui non sa più suonare: sbaglia, non ha più memoria, è preda di dubbi, è dominato dall’ansia. Ha standard troppo alti, e al minimo errore cede. Si sente soprattutto freddo, come un pattinatore che esegua passi di bravura su una pesante coltre di ghiaccio assolutamente impenetrabile, che impedisce ogni vero contatto col Sé profondo: è meccanico, e ciò in qualche modo arriva al pubblico, che è sempre meno commosso e meno convinto dalle sue prestazioni. Egli risulta infantile, scontato, pur possedendo doti pianistiche straordinarie. Non ha mai vissuto, e il suo inconscio si è messo di traverso rispetto alle sorti progressive della carriera che non ammette debolezze o arresti. Deve fermarsi. E’ la crisi più nera.
Quando la crisi scoppia Claudio ha vent’anni.
Lui è un riflessivo, e apparentemente non compie gesti eclatanti: ma medita il suicidio, e seriamente. Un giorno, qualcuno gli segnala un’ultima ratio: “tenta, non può andar peggio di così”. Si tratta di recarsi da uno psichiatra – allora visto come pericoloso medico dei matti – di orientamento junghiano. Il dottore si chiama Hubert Abrahamson. Lui ci va, come ci si reca da un pranoterapeuta, vagamente speranzoso ma poco convinto. Invece quell’incontro è la chiave della sua vita. Di tredici anni più anziano di Claudio, il dottore rimarrà amico di Arrau per tutta la vita, e suo mentore.
La psicologia è per Claudio una esperienza rivelativa: l’incontro con l’inconscio spinge quest’uomo di straordinaria intelligenza e umanità a toccare le intime corde del proprio essere, in risonanza con le vicende ancestrali del cosmo, e dell’intera umanità.
Approfondisce moltissimo le letture filosofiche: attraverso Schopenhauer scopre la sapienza del corpo e il suo immenso potenziale espressivo; impara ad ascoltarne i segnali e a fidarsene. Corpo è scrigno vivente e pensante: e la memoria artistica è anch’essa corpo – l’interpretazione stessa è questione di confronto col corpo. Si dispone, finalmente, a tollerare l’ansia, ad accettarla e incanalarla usandola come puntello di forza: “E’ l’ansia dell’umanità: devo, in concerto, rendere il suo campo magnetico, le sue mille giunture, le sue mille ombre, il suo potenziale di luce“. Annota i sogni su un taccuino, ove spesso – anche – disegna, dando corpo, finalmente, ai suoi più tremendi fantasmi. Apprezza e pratica l’omeopatia della Danza moderna, che con le sue figure angosciose e le sue mute grida, se vissuta sino in fondo, ha il potere di rappresentare e catarticamente sciogliere, attraversandole, le più terribili fonti di angoscia dell’uomo, e di quest’uomo che Claudio è.
La musica vibra in lui, ora, in risonanza con molte altre arti, e con le più sublimi fonti della cultura, che scopre interconnesse, e che coltiverà per tutta la vita.
Corpo è anche il corpo inconscio del pubblico, mezzo dell’afflato umano che tutti unisce nel momento sacro del concerto.
Il ghiaccio, piano piano, si scioglie.
Claudio conquista così – con la trivella dell’analisi che lo spinge in profondità e contemporaneamente su e fuori, verso l’Altro – una gravità e un calore del suono dapprima sconosciuti: il pattinatore su ghiaccio cede il posto, finalmente, a un artista che esce da se stesso ed esplora. secondo la felice espressione di Maria Zambrano, «tutti i molti che avremmo potuto essere e che in un certo senso siamo ad ogni momento», saggiando livelli sempre più ampi, vari e imprevedibili di umanità.
Tipico, in questo senso, il rapporto di Arrau con Liszt. L’impatto di Arrau con il mondo lisztiano è scioccante. Tanto lui, Claudio, è riservato, intimista, lunare, sognante, tutto volto verso una interiorizzazione delle esperienze muta e parca di gesti, quanto l’Ungherese è, o sa essere, teatrale, istrionico, zingaresco, fascinoso, faustiano… e ancora mistico, religioso pittore di paesaggi, di acque, di miti complessi; latore di Voci divine e mefistofeliche. Profeta, e in molti sensi.
Claudio si tuffa nelle sorgenti calde e polivoche della creatività lisztiana compartecipandovi, e imparando. «Non si può declamare Schiller o suonare Liszt con ritegno»: bisogna farsi generosamente avanti, munirsi, come Liszt, di un arsenale espressivo eloquente tanto nel gesto quanto nelle intenzioni narrative. Narrare, raccontare, è combattere la morte, e perpetuare quel senso di condivisione in cui il con-certo consiste.
Meraviglioso esempio in questo senso è la Seconda Ballata di Liszt interpretata da un Claudio Arrau formidabile e giovanile nel pianismo e nello sguardo. Egli pare avere davanti a sé un quadro ove anche nelle lunghe pause i suoni rimangono teatralmente vivi e pieni di significato.
Claudio Arrau – F. Liszt Ballade no.2 S.171 B minor
Che quadro? Il quadro del racconto che sottende la vicenda legata al pezzo, e che la Ballata significa: il mito di Ero e Leandro. Ecco il respiro di Ero, il suo timbro vocale, le sue bianche braccia avvolgenti – la melodia suonata da Arrau diventa la voce di Ero e incarna la foggia fisica, protesa, della sua domanda d’amore; è ricambiata: ecco Leandro che ogni notte, sfidando i flutti sempre più alti, a larghe bracciate raggiunge la torre ove la fanciulla è rinchiusa. Ebbene, Claudio nota come il corpo del testo lisztiano rechi tracce fisiche di quelle onde, anche graficamente parlando: le ottave spezzate che la mano sinistra deve compiere, in risalita rischiosa, veloce, irregolare, richiedono un atteggiamento mimetico della mano, anch’essa fattasi onda montante, percorsa da fremiti. È qui l’atto interpretativo, la resa pianistica, a unire romanticamente l’evento naturale – il mero accadere della tempesta marina – all’amore umano-divino che vi si innesta, che ne monta e attraversa, narrativamente, spettacolarmente, la dinamica simbolica. E poi la drammatica discesa, la risacca, il pericolo. Infine, l’ultima notte, la morte di Leandro, il suo perdersi, affogato tra i flutti. E però, il senso ultimo dell’amore: l’unione degli Amanti in una superiore dimensione dello spirito: dimensione forse non greca, ma presente in Liszt, che risignifica romanticamente, con sfumature prewagneriane, la chiusa del mito.
Musica è dunque poema del corpo e dello spirito, anche quando l’atletismo del virtuoso deve dare spettacolo: anche questa è arte, emozione, strabuzzare d’occhi, entusiasmo. Far corpo unico con lo strumento significa accettarne la dimensione angelica, diabolica, titanica: mai separata dalla vera arte.
Splendida, e ne approfondiremo la descrizione in una prossima puntata dedicando spazio alle affinità tra attori e interpreti musicali, la Sonata in Si minore, vissuta come grande, ciclica vicenda faustiana. Qui il corpo stesso di Claudio è percorso da più voci: Faust, Margherita; e soprattutto l’Onnipotente, e Mefistofele, che con le stesse note osa imitarne, sarcasticamente, la grandezza. Allora? Basta rispettare il testo? Evidentemente all’interprete è richiesto dell’altro: una penetrazione psicologica della vicenda, una mìmesis, una intenzionalità della coscienza, tesa a rendere differenze, sfumature, caratteri, vicende interiori e cosmiche sempre attuali.
E la Sonata Dante! Arrau ne penetra l’essenza iniziatica. Compie, con Liszt, il viaggio attraverso i tre mondi. Studia la Divina Commedia, e lo fa in italiano, approfondendo anche, come Liszt, i presupposti della nostra lingua: impara il greco e il latino; si circonda di manoscritti e di edizioni rare, che studia con infinito amore sino a tarda età. Significare tali passioni non è fatto privato: siamo sideralmente lontani dalle scelte di Glenn Gould. Per Arrau è fondamentale l’atto del concerto, in cui tutto converge. Il concerto è vissuto come atto eroico, pregno di vicende singolari e collettive, che riesce bene solo se le forze dell’inconscio sono completamente mobilitate, accettate e sanamente incanalate – ciò che rende l’evento significativo e possibile da un punto di vista umano, non stolidamente performativo: solo così l’ansia da prestazione cede il posto alla concentrazione su qualche cosa di grandioso, in grado di attraversare la sala e coinvolgere ogni spettatore. Riuscire “bene” significa non già evitare di sbagliare note, ma conquistare ed essere Libertà: il concerto diventa per Arrau sfida ed eroica verifica ma anche poetico atto di condivisione col pubblico, occasione per mobilitare registri espressivi che non sarebbe in grado di creare da solo; concerto è narrazione e – inevitabilmente – autonarrazione, apertura al contingente, all’imprevisto: capacità di andare oltre l’errore, e stare nel momento, senza la tirannia della vanità che ci inchioda ai nostri stessi standard. Forze bene incanalate: quali? Bisogna mobilitare anche quelle terribili, pena la morte! Occorre trasformare – è di fatto un’operazione alchemica – forze cieche e meccaniche, anonime e potenzialmente distruttive, in cariche positive che passano attraverso l’uomo e la sua storia. E l’interprete è storia radicale.
Si diceva prima, difatti, dell’affinità di Arrau – de facto erede e testimone della migliore cultura tedesca – con Schleiermacher e Dilthey: vale qui la pena di indagare questo tratto, data la missione di questa stessa rivista.
Due parole per introdurne la portata, che dovremo però approfondire in una prossima puntata.
A testimonianza del fatto che l’interprete non è avulso dal mondo culturale, non è mero intrattenitore, ma compartecipe e cuneo di molte cose – nemmeno solo e mero riflesso, ma apritore di strade, profeta – si staglia il rapporto di Arrau maturo con Beethoven e soprattutto Schubert. Schubert è l’ultimo enigma. Le ultime sue Sonate sono, secondo Arrau, pregne di presagi di morte – Schubert ha trent’anni e morirà dopo qualche mese, a trentuno – e di un paradossale sentore di compimento aperto. Ora la Sonata in Do minore, per esempio, reca in sé (Primo Movimento) un passaggio cromatico discendente alla mano destra che Arrau interpreta come descensus dello spirito entro dimensioni profondissime, infere.
Da giovane, ricorda, rispettava il “pianissimo scheletrito” raccomandato dal testo (ma lo sfondo scheletrito è già una deduzione di Arrau interprete), sforzandosi di renderne la dimensione sottilissima, quasi totalmente separata dal corpo, profondamente estraniata, in attesa di epifanie ulteriori; poi, da adulto, tornando sulla stessa Sonata, cambia idea: fa di quello stesso passo qualche cosa di gravido, gerente il segreto che deve schiudersi nell’aldilà, e che riguarda il corpo. A parte la poesia di una simile prospettiva – poesia che ora è in Arrau, e di cui si trova traccia in Schubert solo perché l’interprete vuol rinvenirne, nella filigrana invisibile delle note e tra un segno e l’altro, l’impalpabile e inconscia presenza, presaga del mistero vitalissimo della morte – bisogna chiedersi: con quale diritto l’interprete legge oltre le note? Con quale diritto si sente il compitore e il testimone del tragico inconscio in Schubert? Del suo presunto sentore della morte che si avvicina? (Soprattutto un interprete come Arrau, fedelissimo al testo persino nella distribuzione delle parti tra le mani: raccomandava per esempio, a chi eseguisse l’op. 111 di Beethoven, di non cedere alla tentazione di dare alla destra, all’inizio, ciò che Beethoven aveva scritto per la sola mano sinistra: nonostante la destra sia libera, il pianista deve accettare il rischio del “salto” pericoloso proprio ad apertura di Sonata: perché? Perché quel rischio, quel gesto fisico soltanto, può rendere il titanismo e la drammaticità di quell’inizio d’opera. A costo di sbagliare? Certamente sì!).
Come Aristotele considera “buona vita” solo quella che si è conclusa, affidandone la ricostruzione delle parti a chi resta, e dunque ai futuri, cui è affidato il segreto della coerenza, del compimento, del senso, della risultanza a vicenda conclusa (tutti fattori ignoti all’attore della medesima vicenda, al vivo che vive, e non si guarda da fuori), così, parafrasando, potremmo dire che l’interprete stesso è questo segreto: Die Welt ist fort. Ich muss Dich tragen. Con le parole di Paul Celan, il mondo non c’è più; io devo portarti. Con la morte tramonta un intero mondo: il mondo di chi non c’è più; eppure, il dialogo in qualche modo resta aperto, e anzi nasce a una nuova dimensione. Tale dimensione sottende il più nobile compito della interpretazione.
Schleiermacher, Dilthey, Adriana Cavarero, Donatella Di Cesare saranno i filosofi che accompagneranno la nostra disamina nel prossimo articolo: sempre in compagnia di Arrau, ma non solo di lui, ci addentreremo per quanto ci sia possibile entro i presupposti filosofici della interpretazione, entro il mistero del lascito e dell’approccio ermeneutico.