Il volto della musica, come si può dire, il suo versante matematico, era l’elemento che ordinava la vita […] In tutte le civiltà antiche, comunque, la musica era un’istanza di indicibile responsabilità, e molto conservatrice. Questo è il punto in cui si potrebbe apprendere qualcosa che ha a che fare col mio sentire nei confronti della musica; qualcosa, intendo, che fornirebbe a questo sentire, di estrema e ingiustificata primitività, una sorta di albero genealogico a posteriori: che la musica, l’autentica, unica seduzione (null’altro, in fondo, seduce), deve essere consentita solo se seduce alla legittimità, alla legge stessa. Perché in essa soltanto si verifica il caso inaudito che la legge, che di solito comanda, si apra e si faccia implorante, infinitamente bisognosa di noi.
Dietro quel pretesto, quella parete di suoni, si avvicina il tutto; noi siamo da un lato, e dall’altro lato, da noi separata da null’altro che da un poco d’aria mossa, eccitata da noi, trema la declinazione delle stelle. […] Per me ha importanza estrema il fatto che nelle arti non decida l’apparenza, l’“effetto” (il cosiddetto “bello”), ma la causa più profonda ed intima, l’essenza sepolta che evoca quell’apparenza, che non necessariamente deve subito mostrarsi come bellezza: per me sarebbe comprensibile che un tempo, nei misteri, si venisse iniziati all’altra faccia della musica, alla beatitudine del numero che là si divide e torna a ricomporsi, e che da multipli infiniti ricade nell’unità.
RAINER MARIA RILKE, Lettera a Marie von Thurn und Taxis