Quanto a me, la musica è la più bella lingua che io conosca. Nelle lingue parlate si pronuncia meglio, quanto più si articolano le sillabe, mentre invece nel linguaggio musicale i suoni più lontani, dal grave all’acuto e dall’acuto al grave, sono filati e si susseguono impercettibilmente: è per così dire un’unica lunga sillaba che ad ogni istante varia d’inflessione e di espressione. Mentre la melodia porta questa sillaba al mio orecchio, l’armonia viene eseguita senza confusione, da una moltitudine di strumenti diversi – due, tre, quattro o cinque – che concorrono tutti a rafforzare l’espressione della prima, e le parti cantate vengono interpretate, cosa di cui farei benissimo a meno, a patto che il compositore fosse un uomo di genio e sapesse infondere carattere alla sua melodia.
È soprattutto nel silenzio della notte che la musica è suggestiva e deliziosa.
Sono convinta che i vedenti, distratti dagli occhi, non possano né ascoltarla, né capirla come me. Perché l’elogio che me ne fanno mi sembra povero e debole? Perché non sono mai riuscita a esprimere a parole ciò che sento? Perché mi fermo a metà del discorso, cercando, senza trovarle, le parole per descrivere le mie sensazioni? Forse quelle parole non sono state ancora inventate? Potrei paragonare l’effetto della musica solo all’ebbrezza che provo quando, dopo una lunga assenza, mi getto tra le braccia di mia madre: allora la voce mi manca, mi tremano le membra, mi scendono le lacrime, mi si piegano le ginocchia; è come se mi sentissi morire per il piacere.

DENIS DIDEROT, Lettera sui ciechi per l’utilità dei vedenti