Nietzsche ama l’operetta. Una musica che cadenza i suoi momenti di piena adesione alla vita, dalle prime scorribande studentesche a Lipsia fino alla beffarda irruzione nella follia. Per un singolare gioco del destino, l’ultima lettera, proprio l’ultimissima indirizzata a Jacob Burckhardt il 6 gennaio 1889 – poi sarà il silenzio – è dedicata all’operetta. Prima riferisce della splendida musica dei caffè concerto che ascolta alla Galleria Subalpina di Torino poi, quasi sottovoce, confida allo stimato professore di aver visto in quel freddo giorno d’inverno l’ultima operetta da lui tanto amata: “Oggi mi sono visto la mia operetta – genialmente moresca” (EP V, 1256).

La “sua” geniale operetta era la La Gran via, una zarzuela spagnola conosciuta pochi giorni prima al Teatro Alfieri di Torino. Ultima testimonianza sonora di un antico legame che unisce la sua vita alla musica e la musica alla sua filosofia. Un legame che attinge sempre alla medesima fonte a cui Nietzsche si rivolge nella sua incessante meditazione sulla natura della giubilazione musicale che costituisce la radice comune della riflessione filosofica sul “tragico”, il “dionisiaco” e l’“amor fati”. Per questo nei suoi scritti anche un semplice accenno alla musica nasconde sempre una precisa indicazione filosofica.

È la musica che occupa i centri vitali del suo pensiero e del suo agire, l’unica in grado di poter “offrire alle passioni di poter gioire di loro stesse” (JGB, 106) senza doversi affidare ad evasioni metafisiche o religiose. Per questa ragione, è raro che riesca a godere di un’opera figurativa al punto che tutto ciò che non si lascia cogliere in termini musicali gli procura “addirittura un senso di nausea e di ripugnanza” (EP II, 177).  Il suo sentirsi orgogliosamente musicista non subirà mai un cedimento neppure negli ultimi anni della sua vita cosciente quando non ha più molte occasioni per praticare musica come compositore o pianista: “Forse, non c’è mai stato un filosofo che fosse, au fond, musicista quanto lo sono io” (EP V, 930) scrive un anno prima della follia al direttore d’orchestra Hermann Levi. Una vicinanza alla musica testimoniata anche nei momenti di maggior amarezza: “non conosco più nulla, non sento più nulla, non leggo più nulla: e malgrado tutto ciò non c’è niente che, propriamente, mi interessi di più del destino della musica” (EP V, 930). 

Bruno Dal Bon

Sì, ma quale musica? “Non sono abbastanza felice, non sono abbastanza sano, per tutta questa musica romantica […] Ciò di cui ho bisogno è una musica con la quale si dimentichi il dolore” (FP 1887, 7 [7]). Con estrema semplicità e senza alcun eccesso o esitazione, Nietzsche si confessa in questo frammento dove la sofferenza non è da intendersi semplicemente come un momentaneo stato emotivo personale. La quotidianità del dolore nietzscheano è qualcosa di più, qualcosa che esce dalla condizione individuale per eternarsi nel dolore di Dioniso. Per uscire da questo dolore singolare ha bisogno di una musica che lo liberi da se stesso “con ritmi lievi, arditi, sfrenati, sicuri di sé, l’indoramento della vita attraverso armonie auree, tenere, benigne” (FP 1887, 7 [7]). Armonie leggere, da operetta alle quali si affiderà negli anni ultimi anni prima della follia.  

In un mondo musicale dedito quasi esclusivamente ai grandi autori dove l’ideale di purezza dell’opera in sé è tuttora un bisogno così forte da trasformare alcuni brani in veri oggetti di culto, è difficile trovare studi che abbiano indagato a fondo queste musiche di confine come l’operetta. Un genere che non ha mai avanzato nessuna pretesa e, forse anche per questa ragione, non si è mai lasciato cogliere fino in fondo da un’estetica incapace di convivere con les âmes mélancholiques et folles che abitano quel mondo, di superare l’insolubile dissidio tra moralità e giubilazione, tra serietà e canzonatura. Un genere artistico oggi ritenuto inattuale come pochi altri: troppo kitsch, disimpegnato, convenzionale, incongruente, volgare. Woody Allen lo rimarcò con grande ironia nel suo film umoristico del 1971 Bananas dove un prigioniero viene obbligato a sentire senza sosta musiche d’operetta come forma di tortura.

Lontana dai grandi sentimenti, sorda alla logica ed estranea all’arte realista, l’operetta si impose come l’arte del quotidiano, del provvisorio che vive sull’effimero, che deforma e incide con ironia e sarcasmo. E fu proprio questa smorfia sorridente che sembrò offendere maggiormente l’engagement culturale delle altre forme d’arte. Un genere cha seppe mantenere il sapore di un’età, che generò mondi dei quali oggi osserviamo l’ultimo crepuscolo. In questa musica Nietzsche si cala senza timori, smarrendosi in un fluire musicale che lo allontana dalla gravità e lo salva: “la musica mi procura adesso sensazioni che in verità non ho mai provato prima. Riesce a liberarmi da me stesso, mi procura una sorta di disincanto nei miei confronti, come se mi guardassi e mi sentissi da molto lontano; allo stesso tempo mi fortifica; […] Questo è molto strano. È come se mi fossi immerso in un elemento più naturale. La vita senza musica è semplicemente un errore, una fatica, un esilio. […]” (EP V, 976).

In questa versione della celebre sentenza sulla musica, presente anche in Al di là del bene e del male, Nietzsche all’errore aggiunge la fatica e l’esilio. Terminata la musica e ritornati al silenzio, la condizione nella quale si ritrova è quella dell’eterno esule, senza una terra, senza una casa, solo con se stesso.

BRUNO DAL BON, tratto dal libro La gioia sovrana – Nietzsche e la musica come filosofia