Ritorno a Salem.
Un manoscritto ritrovato, uno pseudonimo, un viaggio verso l’isola che non c’è. Yggdrasil.
Difficile davvero sintetizzare il contenuto di questo terzo libro di Hélène Grimaud, per certi versi così denso, per altri stranamente statico.
In via preliminare possiamo annunciare, come semplice invito alla lettura, che qui è approfondita la componente medianica e sovrannaturale dell’approccio alla realtà. Tale componente è ora presentata senza veli, senza possibilità di metafora, ed è il tornio alchemico dell’intera opera. Sempre, Hélène parla in prima persona, e di sé: è evidente che però ella appare come mediatrice tra dimensioni assai diverse: una, la nostra, radicata nell’oggi (e vi fa esplicito riferimento); l’altra, molto più antica e insieme futuribile, captabile attraverso di segni, casualità, revenants, inciampi.

Arte, d’altronde, è ricezione, sintonia, disponibilità a patire.
La prima scena è nella sua Amburgo fitta di spiriti. Reduce da una estenuante prova dei due Concerti di Brahms con l’orchestra in vista di una incisione, la pianista è stanca, quantunque piena di musica e in più di un senso felice
Si imbatte, nella lunga camminata che si concede per smaltire la tensione, in un curioso negozio che ha tutta l’aria di una bottega dell’antiquario alla Dickens.
Ne esce un quarto d’ora dopo con uno strano tesoro tra le braccia; vi è letteralmente inciampata, dato lo strano buio del luogo, illuminato da qualche rara lampada: un grosso faldone di manoscritti firmati Karl Wurth, “pseudonimo di Johannes Brahms“, inframezzati da copie di nove acqueforti di Maximilian Klinger. I due “tesori”, quantunque lì assieme per caso, si rivelano legati da mutua risonanza: e la natura della risonanza è il mistero di cui Hélène deve venire a capo.

Perché ciò che accade nel libro, e di cui parleremo, accade a lei?
Perché lei è artista; perché lei è innamorata di Brahms e lo suona; perché lei sente su di sé, con una intensità micidiale, le sofferenze fisiche della terra e dei viventi; perché lei, di recente – forse anche a causa di questa attitudine recettiva tanto marcata, cui non vuole rinunciare e che anzi affina, accogliendo ferite – ha avuto il cancro allo stomaco, circostanza che la ha portata in Svizzera per lunghe cure, lontana da Salem. Altra affinità con Brahms, nonché ambiguo privilegio, occasione.

Lei, che aveva detto che il suo secondo libro sarebbe stato l’ultimo, ecco che ne partorisce un terzo – naturalmente imprevisto – che è il suo Angelo della guarigione, il suo modo di stendere il dolore e attraversarlo e dirlo. Dolore cosmico, non personale: personale, semmai, in quanto cosmico. L’apertura al tutto, che Hélène aveva decretato essere il suo modus vivendi a partire dal secondo libro, ha reso i suoi frutti di natura polare: carità, empatia, sensibilità ecologica spinta all’estremo…e un dolore che redime, e un’interpretazione e una scrittura sempre più ampie, senza paura.

Il manoscritto contiene la provocazione a compiere un viaggio: lo stesso viaggio che il giovane Brahms aveva compiuto e di cui aveva lasciato un ignoto resoconto, ritrovato da Hélène nella bottega amburghese.
Era accaduto difatti, si evince dal manoscritto, che il giovane Brahms si fosse avventurato, all’incirca nei tardi anni Cinquanta dell’Ottocento, in una delle sue lunghe escursioni nei boschi. Era partito da qualche punto del nord Europa: ma attraverso gole, valichi, passaggi, si era trovato in un luogo che chiamava a sé, nel quale il viaggiatore doveva inoltrarsi, sino al centro.
Il cammino per giungervi è stranissimo: il bosco è un luogo antinomico, tropicale (si suda) e insieme gelido: apparentemente rorido e invece privo di vera vita animale e vegetale. Il suo omphalòs è un immenso albero alchemico, un Yggdrasil che sorge solitario e altissimo su cerchi di terra e lingue di acqua. Magnifico albero, ma lucido, e carico di valenze astrali: è l’albero dei metalli della tradizione alchemica, coacervo di ogni possibile antinomia. Bellissimo e velenoso, pieno di foglie senza clorofilla, suggerisce l’idea di un centro sofferente che è il Rovescio del mondo, e che contiene il suo proprio contrario. La terra tutta, di cui il luogo, anzi l’albero, è il cuore indicibile, l’Ort sorgiva, il sintomo, attende di essere liberata tramite qualche capovolgimento.
Il liberatore è il musicista.
Questa l’intuizione di Brahms; questa l’interpretazione di Hélène, la quale raggiunge il mitico posto con un suo viaggio personale verso Ruegen.
La pianista trova l’isola: un’isola dentro un’altra isola. E’ quello il luogo, ella non ha dubbi: un luogo che è contemporaneamente non-luogo, un luogo impossibile, un’utopia, un’isola che non c’è.

Da quale dove, da quale quando giunge sino a Hélène questo messaggio? Da un altro non-luogo e non-tempo: questo è la bottega dell’antiquario, dove tutto ha avuto inizio, luogo che naturalmente non esiste. L’amico che la pianista manda per verifica sul posto non trova nulla: solo un’antica serranda chiusa da tempo. Anche qui, un’intercettazione di dimensioni altre, di cui Hélène è portatrice perenne.

Sì: è questo il messaggio.

Doppelgang
Quanto all’amico, qualche cosa va detta. I manoscritti vengono affidati da Hélène, appunto, a un filologo suo amico, che ha l’incarico di tradurli, datarli, contestualizzarli, guardarli al microscopio… è lo stesso amico che si reca nella bottega, o nei pressi di ciò che ne ritrova oggi, su incarico di Hélène.

Il suo nome è Hans Ingelbrecht.

E’ un caso? No, troppo simile, il nome, a quello dell’angelo spezzato (Engel-brecht) protagonista dell’ultima stazione del viaggio nel secondo libro: il violinista cieco, il bel sole buio. Ma anche diverso, e apposto a un personaggio irrimediabilmente altro da quell’Hans. E’ la I del cognome, difatti, che ne fa ora qualche cosa di affrancato dall’Angelo martire di se stesso, recluso, edenico, maniaco del recinto e della ripetizione. C’è bisogno di notare, infatti, che questo Hans è filologo, che deve, eccome, usare la vista? Che svolge una professione dinamica, che guida la macchina, che è inserito nel mondo, che interloquisce con l’amica pianista dapprima con divertito scetticismo, poi sempre più impressionato dalla serie di coincidenze di cui legge, in fitta corrispondenza con Hélène? Allora?

Molto può essere ipotizzato: quell’uomo è forse il primo Hans in una sua possibilità differente, in una diversa sua vita gemella o parallela? Uno Hans che, a monte, ha forse scelto l’altra strada? Oppure si tratta di qualche operazione di redenzione, di conversione che riguarda quell’Hans, di cui però non sappiamo nulla. Il nome resta un inciampo, un segno, un enigma.

Acque.
Coincidenze, sovrainterpretazioni, spirali: la struttura del libro.
Nel secondo libro era stato l’amato fantasma di Liszt ad accompagnare Hélène nelle sue visite a Roma e poi ad Assisi, dove la figura di Franz si fondeva a quella dell’altro Francesco, e dell’altro ancora, cari al Liszt più religioso e meditativo. La Fantasia quasi Sonata après une lecture du Dante, e soprattutto le due Leggende – San Francesco d’Assisi: la predica agli uccelli e San Francesco di Paola che cammina sulle onde – sorgevano a turno, quali latenti leitmotive dell’anima, a condurre e ispirare le passeggiate di Hélène in Italia, piene di riflessioni subliminali. Lo spirito tutelare di Liszt la guidava, come uno psicopompo muto ma sonoro, mostrandole sullo sfondo nuovi possibili aspetti della musica e dei suoi significati, mai fermi, sempre vivi; è lui che forse visse le stesse esperienze, in Assisi e a Roma, e respirò la medesima aria di perenne inquietudine interiore e insieme desiderio di pace, di grandiosità dello spirito ed estrema umiltà, di slancio solitario e panico.

In questo Liszt tutto è vicenda d’acque: barcarole, laghi boschivi, lugubri gondole.

Hélène era con Liszt quando, impegnata in una drammatica tenzone con il giovane Sconosciuto sul concetto di Amore, che lei trattava alla maniera cortese e neoplatonica e lui invece denigrava cinicamente, il viso atteggiato a un sorriso disperato e beffardo a un passo dal singhiozzo, ecco, aveva avuto un’esperienza straordinaria, intermittente, collocata negli strati profondissimi dell’anima, alla voce gravissima della sua polifonia interiore. Accade che mentre parla, qualcosa in lei immagina e dipinge un mistico scambio d’acque, alla maniera dei Preraffaelliti, di Ofelia, de I giochi d’acqua a Villa d’Este. Acque di cui le è chiara la natura plurima e circolante, di cui fa esperienza diretta: l’acqua stagnante, lagunare, lacustre; la cascata irrefrenabile; l’acqua delle fonti; l’acqua regolarissima degli orologi e dei meccanismi meravigliosi, combinata con luci e riflessi; l’acqua marittima nelle varie accezioni greche del mare: thalassa e als salato, teatro d’incontro di navi, commerci ed eroi; okeanòs simile ad un lago enorme, quasi a rifiutare l’idea stessa di infinito che il greco assorbe solo per via negativa; pèlagos che lambisce ogni cosa, mare le cui impensabili componenti stanno tutte l’una a contatto con l’altra, in quell’unica ondata in cui, secondo il pitagorico Xuto, la natura dell’essere consiste… ma tutto in Hélène è risposta soggettiva a interrogativo interiore, segno, indicazione, vicenda alchemica.
Quello scambio d’acque si era compiuto e si compie ancora, ogni giorno, inconsciamente, in lei, anche mentre è impegnata apparentemente in altro.
Questa, spesso, la co-implicata, segreta, ignota, polifonica, immensamente ampia vita interiore dell’interprete.

Acqua: elemento importantissimo, per Hélène Grimaud, che all’acqua dedica intere sue incisioni discografiche. https://www.youtube.com/watch?v=okK3OXLRFGE

Queste acque sono strutturalmente implicate anche in Ritorno a Salem: non solo perché la direzione dell’interno viaggio sarà un’isola; ma anche per la valenza mistica che le figure d’acqua e di terra qui assumono.
C’è difatti una mutua risonanza tra le acqueforti di Max Klinger e la ricerca di Brahms: tutte e due le cose – tutti e due i reperti, che Hélène ha ritrovato ravvolti l’uno nell’altro, intrecciati, contaminati del medesimo afflato, protesi verso la stessa speranza – contengono l’idea di un canto liberatorio, e alludono a una improcrastinabile guarigione della Terra, a una forma di redenzione del mondo (non del solo uomo, che non può salvarsi da solo) tramite la musica.
Acquatica è la natura della Sirena di Klinger: una figura orfica, inserita in un quadro già surrealista che evoca un pianista su un oceano di flutti, e un’arpa la cui maniglia dorata è a forma di testa di donna.
Klinger dedica a Brahms le sue acqueforti, che sono, forse, enigmi a chiave, messaggi in bottiglia destinati a marinai audaci.

Le liquide réflections, le coincidenze, però qui nel terzo libro di Grimaud investono la forma e gli scopi del libro stesso. Risonanze di quale tipo?
Per tutto il libro, leggendo, siamo pervasi da un senso di attesa: si aspetta una rivelazione – che certo consiste primariamente nel messaggio artistico-ecologico. Eppure c’è dell’altro: la rivelazione piena tarda ad arrivare; essa è sempre incompleta e pare rimandare ad altro enigma; e questo ad altro ancora. Che significa?
A questa serie di rimandi, in sé infinita, ecco aggiungersi una complicazione: il modo di procedere del pensiero di Hélène, che pare dedurre collegamenti e necessità d’azione ravvisando qua e là miriadi di segni parlanti. Tali collegamenti, tali infiniti reciproci rimandi, vengono istituiti, o rinvenuti, tra cose oggettivamente assai lontane, ma ravvicinabili perché la toccano contemporaneamente o perché si offrono per assonanza o spontanea associazione d’idee alla sua attenzione.
La sua mente pare procedere più di una volta alla ambigua luce, alogica, del falso sillogismo, della deduzione impropria, dell’arbitrio – legittimato però dal fatto più legittimante di tutti: il fatto che Hélène stessa trovi in qualche modo significativo il collegamento, o che vi si imbatta: fatto da cui si sente autorizzata a dedurre destini, disegni, attese.

Un esempio. Con il problema ecologico e umano sempre nel cuore, e in già viaggio ideale verso Ruegen, la protagonista-narratrice riflette su ciò che sa in merito a un fatto storico che le viene improvvisamente in mente. Si tratta della vicenda – inizi Seicento – di Tituba, schiava caraibica accusata, a Salem, di arte diabolica perpetrata ai danni della piccola comunità protestante del luogo: è la storia delle Streghe di Salem – una storia patetica, in un certo senso, ma che si risolve in modo meno tragico di quanto avrebbe potuto: Tituba e le sue compagne non vengono uccise, nonostante conoscano momenti di esclusione, tortura e vero pericolo. Il fatto resta emblematico dello strano paranoico rapporto che l’uomo, a volte, ha col presunto male – male che si stenta a riconoscere in sé, e che si proietta fuori, sullo straniero, sul diverso.

Hélène è tutta dalla parte di Tituba, con la quale si identifica. Anche lei, in quanto musicista, è maga. Anche lei, in quanto artista e anche medium, è depositaria (non lo dice ma lo si intuisce) di una sapienza di segno femminile, troppo ampia e analogica per essere accettata con facilità. Salem: perché la sua mente si dirige verso questo nome? Salem è il nome del luogo che aveva ospitato – e ancora ospita – la “sua” comunità di lupi in Massachusetts. Il luogo la chiama, evidentemente, la sospinge al ritorno dopo la parentesi svizzera legata alla malattia e alla cura… Poco importa che non si tratti della stessa Salem, e che la vecchia, quella delle Streghe, si chiami oggi Danvers, cosa che lei sa e cita: il nome è comunque lo stesso, qualcosa le dice, e deve dirle. Altrimenti non ci si sarebbe imbattuta. E come si chiamava la principessa caraibica cui si fa riferimento in un documento che rievoca la vicenda di Tituba, e che ora Hélène sta leggendo…? M.lle de Saint Loup’! Il Lupo: di nuovo l’animale totem è nella sua vita; e lo è anche con Brahms, che fu in contrastato contatto con Hugo Wolf (il cui nome significa lupo); Brahms che nel diario racconta della visita di spettri di animali, tra cui per primi i lupi, venuti in branco quasi dentro la tenda ad ammonirlo della necessità di un qualche mutamento nella direzione intrapresa dall’umanità, a forte rischio. Un qualche sterminio di massa sta per essere perpetrato dall’uomo, e ai danni della Natura: sterminio, annientamento cui gli animali tutti – e il lupo ne è il Re – potrebbero essere condannati. Solo l’uomo – ma nella sua versione migliore e più ricettiva: l’Artista – può invertire d’un sol colpo la marcia che l’umanità ha intrapreso. Spettri, lupi, Tituba; mondo in pericolo; vecchia e nuova magia femminile; incredulità di piccole e grandi comunità nei confronti di giovani sciamane; principesse e nobiltà di intenti. Tutto risuona: e risuona per lei. Deve dare un senso a quei segni, che lei ha collegato, che in lei trovano sintesi. Tornerà a Salem.

Ecco. Nel libro episodi simili non si contano: è proprio il procedere irrazionale del pensiero che funziona così, in Grimaud, qui.
Interessante notare come di un fenomeno simile, anche se non identico, parli anche Umberto Eco in quel formidabile corpus di lectures che è pubblicato in italiano col titolo di Interpretazione e Sovrainterpretazione.
Cosa significa sovrainterpretare i testi – o quel gran testo, potremmo dire noi, che è la vita stessa? Sovrainterpretare significa procedere a discrezione, a balzi tra sillogismi ben poco ortodossi, collegando enti e fatti non in solida o logica relazione, avanzando in una foresta di significati tra i più fantasiosi e ascientifici: significa stabilire contatti deboli o indebiti, e trarne deduzioni fantastiche: significa prendere colossali abbagli. In definitiva Eco disapprova tale modo di procedere, sostanzialmente inaffidabile, antiermeneutico…

Qualcuno ne isolerebbe la valenza formativa, però: Nietzsche e anche Jung, per esempio, ne parlano in positivo…
E sempre Eco fa riferimento a un’attitudine, secondo lui fiorita con la forma mentis alchemica di inizi Seicento in Inghilterra e in Europa centrale ma nata parecchio tempo prima, a fine Trecento – attitudine che è comune a una casta di fedeli: Eco li chiama, non senza ironia, gli Adepti del Velame. Il gruppo (ma non è un insieme fisico di studiosi: al contrario la loro esistenza è disseminata per l’Europa e stesa nel corso di quei tre secoli) prende le mosse dal Corpus Hermeticum, il cui cuore pulsante e generatore è, naturalmente, la Tabula Smaragdina, testo scarno, mitizzato, frainteso e perciò caricato di sensi profetici. Coloro che vi meditano, e che vi fanno riferimento intendendo ravvisarvi un lascito prefilosofico e prereligioso, che però fonda religione e filosofia insieme nel loro assetto più puro e originario, costoro, dicevamo, vivono, operano, costruiscono, creano, filosofano in funzione e in attesa di eventi escatologici o rivelazioni decisive intorno alla Verità. E il modo di procedere è segnico e immaginifico: una cosa ne rispecchia molte altre; anzi, probabilmente: una cosa rispecchia potenzialmente tutte le altre – dunque tutte le cose stanno tra loro in un rapporto di risonanza speculare ove ogni specchio riflette l’infinito, e ogni termine, ogni evento, ogni res, rimanda sempre ad altro.

L’impressione è quella che rinveniamo leggendo Ritorno a Salem di Grimaud: ci pare di attraversare una strada spiraliforme in fondo alla quale il segreto dei segreti sarà disvelato: ma questo segreto ultimo sta proprio nell’impossibilità di svelare l’ultimo segreto (o nella inesistenza dell’ultimo segreto).

Quale la struttura del libro, allora? Quale il suo significato ultimo? Ne ha uno?

La struttura è spiralica, o a scala infinita, come accade nei frattali di Gyorgy Ligeti. Ciò riflette l’infinito che siamo, che ospitiamo e intuiamo e proiettiamo, anche se in modo non consaputo. Non c’è tempo, qui, di approfondire: ma è certo che l’atteggiamento di Grimaud ricorda i protoromantici che ella conosce, che imita spontaneamente nello stile letterario e di vita (basti citare i meravigliosi Aspetti Notturni della Natura di G. H. Von Schubert, di cui si discute con Ingelbrecht). Protoromantico è l’assetto autobiografico ed esistenziale dei suoi libri, e la forte dilatazione del suo ego; protoromantico è il fatto di cimentarsi e ritenersi ingaggiata in questioni, arti, battaglie così differenti. Romantico è il modo sintetico e panico di considerare il mondo e trattarlo, sempre alla luce della radice di ogni romanticismo, che è alchemica, melanconica, entusiastica, panica.

E l’anima mundi che compare sullo sfondo, e proprio nel senso impresso al termine da Marsilio Ficino – e, se possibile, più magico.

Senza pelle
Tutto il libro corre verso l’urgenza di interpretare con senso, di dire, di suonare nel senso intransitivo e riflessivo, cioè schumanniano del termine. Qui, in Ritorno a Salem, Hélène sviluppa e racconta di un rapporto con Brahms che è emblematico del modo suo di intendere l’interpretazione. Questo modo è viscerale, senza pelle. Vive con il “suo” compositore. Ella non desidera affatto essere un punto-zero, una bilancia tarata in modo tale da stare in equilibrio sul quel vuoto che l’interprete è e, per alcuni, deve voler essere. No: lei cerca il rapporto d’amore, la simbiosi; lo sbilanciamento, il disequilibrio, l’approccio immediato e senza pelle che piega e innamora; il dialogo appassionato, ma nel senso emotivo e veggente del termine. Così fa tante scoperte: dipinge per esempio un Brahms poco convenzionale. 
Siamo abituati al solido Brahms neoclassico, amato da Hanslick per il rigore di una musica che non ha bisogno di altri riferimenti fuori di se stessa – che significa per sé? Ebbene, Hélène sa di un altro Brahms, col quale vive da tempo: un compositore giovane, che cede volentieri alle suggestioni goethiane, alla ridda di immagini, all’idea del quadro musicale. E’ il Brahms delle Romanze sulle Quattro Ballate, di cui la quarta, secondo Hélène, è un sabba di streghe (e dobbiamo ammettere che, intesa così, questa musica acquista una valenza lunare, notturna, scenografica): qui è la Walpurgisnacht a stagliarsi sullo sfondo, con le sue risonanze ossianiche. E’ il Brahms innamorato di Clara e di Robert Schumann, preso in un rapporto a tre che si nutre di se stesso come del più puro circolo d’affetti, pieno di speciale, pudica grazia teutonica, di ispirazione reciproca, di rimandi e riflessi.
E Johannes ed Hélène formano ora, per Hélène, una figura tipica; quando lei lo interpreta o lo legge, vive accanto a lui, si sente avvolta in una effusione che rinsalda il cerchio. Ricordano la coppia di fronte alla luna che ammiriamo nel quadro di Caspar David Friedrich (è dentro il quadro che si incontrano tutte le notti? E’ qui che sorge l’interpretazione brahmsiana di Hélène?). Oppure, più pericolosamente, più arditamente, ricordano Hinchliff e Catherine, uniti per sempre in una passeggiata fuori dal tempo, sul mare, vicino all’erica…

Senza pelle, e legato all’arte, è l’approccio alla salute della Terra. Commovente l’insistita citazione di Bernie Krause, il musicista laureato in bioacustica cui “era venuta la passione per la sinfonia composta dalla natura intera… perché non esiste foresta che non abbia la sua voce“.
Sensibilità spasmodica, denuncia, sofferenza, speranza, musica fuse in un solo progetto sono le pietre di fiume sulle quali Hélène poggia il piede inquieto per orientarsi nel suo cammino, decisa a considerare tante cose assieme, saltando di roccia in roccia, sino a contemplare dall’alto lo stato della Terra che è inseparabile dalle vicende dell’uomo.
Nietzsche: “Due viandanti attraverso una foresta sono giunti sulla sponda di un torrente selvaggio, il quale trascina con le sue onde grandi pietre: l’uno salta dall’altra parte con piede leggero, servendosi di quelle pietre e slanciandosi oltre con il loro aiuto, sebbene esse sprofondino precipitosamente dietro di lui…l’altro si arresta a ogni momento. Che cos’è dunque ciò che spinge il pensiero filosofico così rapidamente verso il suo scopo? (…) Il suo piede è spinto da una forza estranea e illogica: la fantasia; (così egli, il vero filosofo) balza oltre, di possibilità in possibilità (mosso da) un presentimento geniale… La forza della fantasia è possente soprattutto nell’afferrare somiglianze (e) accostamenti intuivi…” E: “C’è qualcuno, tra i filosofi, che ancora ricordi la forza della parola ispirazione?…” .
C’è anche del Rimbaud, qui, molto citato da Hélène lungo tutto il terzo libro; naturalmente resta il problema dei tempi: come fa il giovane Brahms a conoscere versi che saranno scritti assai più tardi? E’ difatti Karl Wurth, alias Johannes Brahms, a esser folgorato, a ogni pie’ sospinto, da immagini e Illuminations tipicamente rimbaudiane, ove la veggenza, più che la semplice capacità intuitiva, e l’allucinazione veritativa ancorché visionaria, fanno da padrone e da fili d’Arianna… Il legame tra memoria e futuro, il gioco di contaminazioni e di sovrapposizioni di stati, disegnano qui un plurimo azzardo di cui non tutto ci è spiegato.

Il serpente. La Chiave d’oro.
Da decifrare a nostra discrezione è il senso della parabola del serpente con cui il diario di Brahms-Wurth si conclude; l’ultima visione del Wanderer Brahms è quella, del tutto nicciana, di un serpente che ha in gola uno specchio.
Poco dopo, la regia del libro si sposta verso Salem, casa di Hélène, dove la pianista è diretta.
In viaggio, la donna riflette su altri strani doni che quella improbabile prima visita presso la bottega dell’Antiquario, da cui tutto aveva avuto inizio, le aveva elargito: fine e inizio si saldano in una figura di cerchio aperto.

Perché?
Il faldone di manoscritti e di acqueforti, a pensarci bene, non era stato l’unico reperto strappato ad altre dimensioni del tempo. Strappato? Ma no! Tutto le era stato, piuttosto, offerto. E da una bambina: una bimba bellissima, dai lunghi boccoli biondi, unica abitatrice del vecchio negozio; stagliata su uno sfondo polveroso e insieme accogliente, la piccina era sempre intenta a fare i compiti. Strano che non rispondesse mai alle domande di Hélène, quasi che le due non potessero comunicare che su un altro piano. E l’altro piano si era palesato a sprazzi, quando la pianista aveva acquistato e visto qualcosa d’altro. 
Aveva preso “un grande specchio in una cornice dorata” – lo “specchio di Alice“. Aveva visto qualcosa che l’aveva turbata, come il presentimento di un’urgenza: l’urgenza di far accadere ciò cui aveva dato seguito, e in cui il libro consiste. Che cosa? Un’inezia, ma significativa; cosa di un attimo, ma sconvolgente. Semplicemente, guardando dentro una di quelle piccole sfere di vetro, che ospitano paesaggi innevati apparentemente immobili – una di quelle palle giocattolo in voga nell’Ottocento che, capovolte, si animano – ebbene, aveva compiuto il gesto: l’aveva rovesciata. E subito, ecco gli alberi ansare di vento del nord, ecco le sue foreste di Salem, ecco il suo ancestrale freddo paesaggio accogliente, che la attendeva… una visione cui le pareva di essere interna. Non aveva comperato la sfera di vetro. Ma qualcosa aveva poi fatto la bambina: sempre senza parole, eccola prendere da terra una piccola chiave d’oro e chiuderla con forza nella mano di Hélène. La quale dunque era uscita dal negozio recando con sé anche questo piccolo tesoro da favola.

Quella, pensa Hélène “senza smettere di camminare verso casa, dove aveva disposto che appendessero il grande specchio” è la chiave del futuro. E fiabesca è la delicatezza con cui ci viene suggerito che dobbiamo sporgerci sull’orlo di scoperte lunghe e complesse quanto la vita stessa, e insieme semplici come l’atto, infinitamente lento e asintotico, con cui apriamo, con la piccola chiave d’oro, la sua cassetta dei segreti ultimi; e che non dobbiamo né possiamo rinunciare a ricordare che questo – il futuro – dipende da noi, dalla capacità di usare bene i nostri specchi.