In tempi di difficile ripensamento di ciò che è stata fino a ora la gestione della cosa pubblica in campo culturale e, in particolare, della piega che questa ha preso negli ultimi decenni, si sente da più parti invocare un massiccio ritorno dello Stato in termini d’impegno economico. Si riapre, così, la questione che sembrava chiusa per sempre della necessità di un ritorno a uno Stato imprenditore anche nel campo dell’industria culturale, Perché di industria si tratta, ormai non vi è dubbio. Come, a mio parere, non vi è dubbio che un ritorno puro semplice a schemi passati – sia ben chiaro, volenti o nolenti – sia quantomeno antistorico e, di conseguenza, fallimentare. Vorrei però affrontare una questione che va aldilà della presunta impossibilità dello Stato a far fronte a nuovi obblighi economici a sostegno della cultura, anche se resterebbero sempre quelli costituzionali, in tal senso. M’interesserebbe, cioè, comprendere perché sia stata fallimentare, in questi ultimi decenni, l’idea di poter coinvolgere in modo sostanziale nella cultura, e ancor più nella musica, i ceti produttivi, industriali e commerciali, o comunque i possessori di grandi patrimoni, salvo lodevoli eccezioni. Questo fallimento si è verificato a prescindere dalla deducibilità o meno di parte degli investimenti, come auspicato da alcuni provvedimenti. Secondo me la questione è da porre su un piano sociologico, più che economico o politico e, per analizzarla, può venire in aiuto il lavoro di Pierre Bourdieu, grande sociologo di gran moda qui da noi negli anni ’90 e adesso piuttosto retrocesso nei gusti attuali, vittima dell’inevitabile ciclicità della fama.

Nel 1979, Bourdieu scrisse un testo fondamentale per la sociologia culturale: La distinzione. Critica del gusto, pubblicato poi in Italia nel 1983. In questo saggio, lo studioso utilizza il gusto come strumento per individuare le distinzioni tra le classi sociali; indaga e determina come le scelte di gusto varino secondo la provenienza sociale e il titolo di studio. Egli individua, così, tre tipologie di ceto, messe in relazione con il livello scolastico: le classi popolari, le classi medie e le classi alte.

A ciascuna di queste tre categorie, Bourdieu fa coincidere un diverso gusto: rispettivamente, popolare, medio e legittimo. Riguardo alla musica, se al primo si lega la musica leggera e al secondo “la Rapsodia in blu o la Rapsodia ungherese”, è sul gusto legittimo che mi vorrei soffermare. Esso, espressione delle classi alte, avrebbe il suo naturale ambito culturale in opere non involgarite dalla commercializzazione di massa: per esempio, Il clavicembalo ben temperato o L’arte della fuga, capolavori bachiani. Così facendo, Bourdieu intendeva anche criticare un mondo in cui le opere erano fruibili secondo il ceto e il titolo di studio dello spettatore, quindi fondamentalmente un mondo fatto di privilegio economico che, a cascata, investiva anche l’atteggiamento di questi, riguardo alla cultura.

Sono passati più di quarant’anni da quel saggio, ma mi sembra di poter dire che la situazione è certamente peggiorata. Ovvero, le classi dominanti, economicamente e socialmente, non sono scomparse – anzi oggi il divario tra ricchi e poveri è aumentato, da allora – ma hanno semplicemente involgarito il proprio gusto, per cui parlare di gusto legittimo, nel senso in cui questo termine era stato coniato da Bourdieu, parrebbe sicuramente anti-storico. Si è avuta, per così dire, una proletarizzazione del gusto, derivante da dinamiche economiche di arricchimento anziché di censo, per cui pochi sono adesso coloro che coltivano interessi alti, a partire dai politici. La continua evocazione dell’importanza culturale, per esempio, del rock, a forza di enunciarla, ha fatto dimenticare che, magari, anche la musica cosiddetta classica è cultura. Questo fenomeno di rimozione, che è di portata mondiale, ci vede protagonisti in negativo, pronti a distruggere un patrimonio culturale che tuttora il mondo ci invidia – e scusate la banalità della frase.

Si è, in pratica, operata un’eterogenesi dei fini, laddove il senso di liberazione rispetto a vincoli di tipo economico e sociale nel poter accedere al gusto legittimo, pur non facendo parte della classe cui esso si riferiva, ha comportato invece un trascinare uniforme verso il gusto popolare anche coloro i quali appartenevano a classi alte, favorendo un livellamento e una banalizzazione del fattore culturale preconizzati anche da Pasolini, allorquando metteva in guardia rispetto a uno “sviluppo senza progresso”. Mai come oggi, questi due termini, ormai fusi – meglio, il primo ha fagocitato il secondo, ormai sparito dal vocabolario come vecchio arnese del Novecento – richiederebbero un recupero di senso e di distinzione.