Il 29 agosto del 1945, Sergiu Celibidache, direttore rumeno poco più che trentenne, protégé del grande Wilhelm Futwängler, esordì sul podio dei Berliner Philharmoniker, a sei giorni dalla morte improvvisa del loro direttore, Leo Borchard. Quel concerto fu l’inizio di una carriera eccentrica: partita dall’apice, lo condusse in seguito a dirigere tutte orchestre definibili come ‘minori’, seppure impropriamente. Dunque, un giovane direttore, brillante intellettualmente, carismatico – era anche un uomo molto bello – lanciato nell’empireo della scena musicale, si trovò poco tempo dopo quel concerto d’esordio a essere nominato direttore stabile dei Berliner Philharmoniker. Quest’ascesa folgorante ebbe un’improvvisa interruzione nel 1954, quando, alla morte di Furtwängler – che era rimasto comunque il maestro di riferimento per l’orchestra, una volta superato il periodo di ‘denazificazione’ – i Berliner scelsero Herbert von Karajan come nuovo direttore, invece del talentoso rumeno.
Il giovane Celibidache possedeva una solida preparazione musicale e filosofica; dopo gli studi in patria e un breve passaggio a Parigi, a segnarlo particolarmente furono gli anni berlinesi alla Musikhochschule e alla Friedrich-Wilhelm Universität, dove incontrò in particolare Nicolai Hartmann (per la filosofia) e Heinz Tiessen (per la musica). A Berlino Celibidache aveva avuto modo di accostarsi anche alla filosofia zen, che rappresentò un punto di riferimento fondamentale per le sue riflessioni, specie in tarda età. E adesso si trovava con il ‘gran rifiuto’ della più famosa orchestra al mondo che lui aveva diretto per quasi nove anni e che gli aveva preferito un altro: anzi, quell’altro, Karajan, che lui definiva «come la Coca-Cola, la bevono tutti ma è una porcheria». Poco prima di questo suo allontanamento da Berlino – perché la conseguenza di quel gesto fu che Celibidache non tornò a dirigere i Berliner fino al 1992, per l’insistenza del Presidente tedesco von Weizsäcker – anche il suo maestro, Tiessen, gli aveva assestato un notevole sganassone, dicendogli, alla fine di un concerto, che non aveva capito nulla e che se pensava che quello fosse dirigere, lui, Tiessen, aveva perso il suo tempo.
Evidentemente Celibidache dimostrò tempra, umiltà e intelligenza e, invece di abbattersi, capì che doveva mettersi a studiare di nuovo e ricercare quello che, fin lì, non aveva compreso. Fu, così, che elaborò quella che lui definiva un vera scienza – attirandosi l’ironia dei suoi detrattori per la pomposità della definizione – ovvero la ‘fenomenologia musicale’. Con questa espressione Celibidache intese istituire una base filosofica, ma non razionale/discorsiva, alla sua visione musicale: questo perché, a suo vedere, la musica è dove non è il pensiero. Egli attribuiva al suono – che è elemento fondativo ma distinto dalla musica, peraltro – quasi una funzione magica: ogni nota rappresenta un’entità che trascende il limite della razionalità, un qualcosa che vive in un mondo universale e assoluto, quasi al di fuori della portata dell’uomo. Secondo le parole di Celibidache, la fenomenologia è il tentativo di dire ogni volta qualcosa che «non ha mai luogo finché pensate», poiché è «fuori dal pensiero». E il direttore non è un interprete perché «non c’è nulla da interpretare», ma solo da accettare le indicazioni della partitura, operando una riduzione (parola chiave nella sua filosofia musicale) dei vari elementi a un tutto coerente. Attenzione, però: per Celibidache non vi è oggettività nella musica, e tempi, dinamiche possono essere cangianti secondo luogo e disponibilità degli esecutori (direttore e orchestra) ma anche del pubblico. Piuttosto, oggettivi saranno i rapporti che intercorrono tra le sezioni della partitura, le relazioni di tempo e dinamiche interne che garantiscano l’organicità dell’esecuzione. Il lascito maggiore di Celibidache, come direttore e filosofo, sta proprio in questa cura verso una logica esecutiva pienamente rispettosa della logica di un brano, lontana da effetti di sicuro impatto ma anche superficiali e sterili, perché spezzano e/o rendono incoerente il discorso musicale.
Questa visione si realizzava, dal punto di vista del lavoro in orchestra, attraverso lunghe, lunghissime sessioni di prove, dove il Maestro cercava, con maieutica pazienza, di instillare il proprio credo ai musicisti con cui lavorava. Ecco anche perché, dopo l’esperienza a Berlino, Celibidache scelse sempre di collaborare con orchestre che avessero voglia e tempo di lavorare con lui secondo le sue modalità e, quindi, necessariamente, non facessero parte dello star system: l’Orchestra Sinfonica della Radio Svedese, la Cappella Reale Danese, l’Orchestra Sinfonica della Radio di Stoccarda, l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Per le stesse ragioni si rifiutò sempre di dirigere negli Stati Uniti.
Una vera battaglia fu, poi, quella che Celibidache combatté contro il mondo discografico: la sua idea di suono era indissolubilmente legata all’«hic et nunc», come soleva ripetere. Per il direttore rumeno, la musica si manifestava nel momento della esecuzione, secondo rapporti spazio/temporali ogni volta unici e irripetibili: egli definiva questi rapporti di carattere «topologico», cioè alimentati da una tensione tra la continuità temporale del dipanarsi della partitura e la dimensione spaziale del luogo in cui l’esecuzione avveniva. Il disco, per quanto eccellente possa essere la presa di suono e il suo successivo trattamento, non rispetterà mai il rapporto originario che si crea nella sala da concerto, né permetterà all’ascoltatore di cogliere quanto «la musica è evoluzione del suono in funzione della coscienza di chi crea e di chi ascolta».
Celibidache fu oggetto di feroci antipatie che ripagavano spesso, a onor del vero, il suo patente disprezzo per tanti colleghi (tutti?), motivato dalla consapevolezza di essere l’unico ad aver capito la musica. Altrettanto, fu idolatrato da molti, e la sua generosa attività di docente alimentò senz’altro questa forma di amore. Certo, i suoi seguaci, semplici appassionati o allievi che siano, si comportano tuttora come adepti di una setta esoterica, detentori di uno speciale sapere; peccato che l’unicità della sua concezione filosofico/musicale ha costituito, in fondo, un limite alla sua riproducibilità, per cui non vi sono purtroppo allievi del Maestro che abbiano affrontato la professione direttoriale con successi degni di tanto pensiero. Eliahu Inbal raccontò una volta che, durante un cena con altri studenti, Celibidache lo prese da parte e gli disse: «Puoi diventare un grande direttore, ma dovrai lavorare con me almeno dieci anni, se no arriverai a dirigere tutt’al più come Bernstein». Poco dopo, Inbal divenne direttore stabile dell’Orchestra Sinfonica della Radio di Francoforte, diventandone Maestro Onorario dal 1995.