Tratto da Voir et entendre (traduzione di Guido Giannuzzi)
La concezione cartesiana dell’intelletto esprime al contempo un pensiero dell’essere; non un pensiero del reale (il divenire), ma della sua immagine. Vogliamo dire, cioè, che un tale pensiero dell’essere è precisamente il risultato di una rappresentazione in immagine del reale, – di nuovo: l’essere è un prodotto dell’immaginazione. Spinoza, per parte sua, nell’Etica scrisse:
Stando così le cose, risulta che la Mente umana potrà immaginare distintamente e simultaneamente tanti corpi quante sono le immagini che nel suo stesso Corpo possono essere formate insieme. Ma quando nel Corpo le immagini si confondono del tutto, anche la mente immaginerà confusamente e senza alcune distinzione tutti i corpi e li comprenderà quasi sotto un unico attributo, cioè l’attributo dell’Ente, della Cosa, ecc .
L’essere, la cosa, e qualsiasi idea «generale» (non proveniente da un’impressione trasmessa dal corpo) sono prodotti della ragione, che, per quanto la riguarda, ha la tendenza a considerare le cose «come se» (quâdam) queste possedessero «un certo aspetto di eternità» (Etica, II, 44, cor.2; V, 29). Questo quâdam delimita la differenza tra il pensiero e il reale: l’intelletto immagina, certo, immobilizza, fissa, considera le impressioni come se fossero sempre le stesse, – ma proprio per questo è esso a ingannarci, e non i corpi (II, 35, dim.: Mentes enim, non Corpora errare, nec falli dicuntur). È la ragione che raggira l’uomo facendogli credere che esista qualcos’altro oltre alla singolarità degli oggetti (che Spinoza chiama modes). Cos’è, dunque, l’essere? Solo un’immagine astratta, generale, privata di ogni particolarità del reale, un riflesso impoverito delle cose che esistono.
Le conseguenze di questo ribaltamento operato da Spinoza sono importanti per la nostra riflessione sotto molti punti di vista. – Comunque, la conoscenza «adeguata» delle cose è una vera e propria intuizione, e con ciò dobbiamo prendere in considerazione un’attenta visione della singolarità delle cose; una visione reale, dunque, visto che nessun essere ha mai avuto una visione del generale come quella che determina l’intuizione secondo Cartesio. L’evidenza cartesiana consegue da una visione del generale – delle cose fissate in immagini, «come dei quadri» –, l’intuizione spinoziana, da una visione dell’essenza reale e singolare delle cose (l’«essenza adeguata» della cosa, afferrata dall’intuizione, è differente dal suo carattere «generale», colto dalla ragione), incapace quindi di produrre un’immagine alla loro portata. – Inoltre, e soprattutto, capiamo che non sono le cose che ci toccano, ma le loro immagini (imagines rei), ovvero la nostra immaginazione:
Noi non soffriamo necessariamente nella misura in cui immaginiamo (III, 56, dim.).
In cosa consistono pertanto le emozioni umane (gioia, tristezza, ecc.)? Delle reazioni del corpo alle impressioni che riceve e che l’immaginazione rende nuovamente presenti (II, 27, dim.). Non sono le cose in sé a essere desiderabili o meno (cioè buone o cattive), bensì le immagini che noi ne realizziamo che le rendono tali (III, 51), e questo spiega la molteplicità (e l’irrazionalità) del desiderio. Spinoza sembra qui prendere il testimone da Lucrezio (De rerum natura IV, v. 1093: Sic in amore Venus simulacris ludit amantis): noi desideriamo sempre dei simulacri, delle immagini delle cose; il desiderio, dal quale tutti gli oggetti potrebbero essere considerati buoni o cattivi secondo l’immagine che li richiama, è cieco (caecae; IV, 58, sc.). Lacan potrà aggiungere a ragion veduta che non desideriamo mai un corpo («Il rapporto sessuale non esiste»). Non c’è dato di conoscere le cose, ma solo le emozioni dei nostri corpi e, per giunta, quelle che permettono la formazione effettiva dei nostri corpi (IV, «Definizione generale delle emozioni», dim.). In altre parole, tutto ciò che noi conosciamo è frutto della nostra immaginazione che, sotto forma della ragione, pretende di concedere al reale singolare il carattere di una immagine generale (idea dell’essere).
Inoltre, la critica implacabile della morale (la superstitio) è basata sull’idea che l’uomo giudichi il bene e il male secondo un rapporto di casualità (rerum ordine et causarum nexu) inconsapevole della durata e pertanto apparente, fondato sull’immaginazione, e quindi privo di qualsiasi realtà:
Noi, però, non possiamo avere che una conoscenza del tutto inadeguata della durata delle cose e determiniamo i loro tempi di esistenza con la sola immaginazione, la quale non è affetta nello stesso modo dall’immagine di una cosa presente e da quella di una cosa futura; per cui accade che la vera conoscenza che abbiamo del bene e del male non è che astratta o universale, e il giudizio che formuliamo sull’ordine delle cose e sul nesso delle cause, per poter determinare che cosa sia buono o cattivo per noi nel presente, è più immaginario che reale. (Spinoza, Etica)
La retroattività dell’immagine è all’origine non solo dell’illusoria distinzione tra l’essere e l’apparire, ma anche, in certa misura, lo vediamo, della morale, vale a dire della svalutazione di ciò che esiste.