Richard Wagner e il sogno divino del Genio

Oggi non crediamo forse più al genio, né alla gloria, né alla voce degli artisti, sempre soli con se stessi. Una figura come Richard Wagner, la cui genialità ha qualcosa di misterioso, di ineffabile, sarebbe oggi relegata tra i sognatori più incurabili. La coscienza del Novecento ha placato, nel nome della più concreta realtà, gli antichi ardori romantici e i suoi condottieri dalla vita straordinaria, irrequieti visionari e creatori di miti. Ma se già Schopenhauer nel Mondo come volontà e rappresentazione aveva scolpito a forti tratti la figura del genio, dell’artista in grado di rappresentare il mondo cogliendone i significati più profondi, Baudelaire avrebbe intravisto, in quella stessa figura, il “faro” capace di illuminare le nostre vite e le vie dell’Arte, riconoscendo poi in Wagner la sua stessa idea, intimamente perseguita, di Musica: «qualcosa di elevato e che eleva» nel godimento stesso dell’ascolto; un mito positivo, un cielo di luce, la prospettiva redentrice dell’umanità e del mondo. Un genio degno di devozione, dunque, nell’immaginario del suo tempo come negli scritti di Schopenhauer, che Wagner medita nelle ristampe degli anni ’50 (arricchite dai cinquanta capitoli dei Supplementi) ritrovandovi un sostegno che non avrebbe mai più abbandonato. Quel pessimismo che scardina il mondo gli giunge benefico per respingere il male dell’esistenza, affrancarsi dal servizio della volontà e giungere alla contemplazione estetica del mondo, all’accettazione estatica della morte, mentre proprio la Musica, linguaggio universale ricco di emozioni e capace di rappresentare la vita in sé, diviene, con i suoi sogni, i suoi moti segreti, i suoi bagliori, la via per la liberazione. 

L’incontro con quella nuova filosofia, impregnata di estatica ricerca del dolore nella illusorietà del mondo, si rivela il grande evento della vita di Wagner. Un’esperienza etico-intellettuale importantissima, capace di definire la sua stessa arte, i suoi stessi eroi. Da quel momento in poi, infatti, il musicista non proporrà più nei suoi drammi le azioni della vicenda ma tenterà di trovare, nei simboli delle leggende, un’espressione estatica ai tratti fondamentali di quella filosofia, a quel regno della malinconia che ne è cifra identificativa. E se Tristan sublimerà il dolore nella morte per amore, Parsifal, folle e puro, potenzierà il dolore in compassione per attuare quella redenzione dell’umanità fallita agli eroi del Crepuscolo degli dèi, lasciando ancora una volta all’Arte il dono di elargire la fragranza dello spirito e del divino

Incarna, dunque, Wagner il genio secondo il dettato di Schopenhauer?

«Estremamente sensibile – scrive il filosofo – il genio vive isolato e, sotto il fuoco della vita quotidiana, cede spesso a passioni violente, a gioie sfrenate, all’ansia, alla collera, al dolore profondo». Sembra «inadatto alla vita, la sua condotta ricorda talvolta la follia»; eppure egli «appartiene all’intera umanità». E Wagner ha una vita rocambolesca, pericolosa, nomade. È un viandante senza meta, un fuggiasco perseguitato dai mandati di cattura, passionale, tenace, di un egocentrismo sfrenato, trascinatore di uomini, incantatore di donne. Un uomo “faustiano”, incommensurabile maestro dell’utopia, audace e ribelle per istinto. Apollineo nell’ordine delle strutture e dionisiaco nell’ebbrezza del caos, come Hunding di Valchiria desidererebbe essere Frohwalt, l’uomo che gode della gioia, ma di fatto è sempre Wehwalt, l’intellettuale malinconico che vive nel dolore, elaborandolo in eroismo. Il suo mondo spirituale è un campo di battaglia trasformato in deserto. Vi combattono coraggio e sconfitta, forza e resa, fede e follia. Sopravvive la speranza e i pensieri alti, che guidano il suo genio sulla via non ancora intrapresa di una nuova Arte. 

Nelle cinquecento pagine della corposa Autobiografia, dettata alla moglie Cosima Listz nei primi anni di vita comune a Triebschen, risaltano idee rivoluzionarie, ambienti di corte, imprese alpinistiche, il fascino di città d’arte, aspirazioni, amori, disavventure e tanta solitudine. Durante l’esilio di Zurigo, tra gli anni 1852-1858, Wagner gode della stima di Otto Wesendonk, ricco borghese renano stabilitosi in quella ridente cittadina, e di sua moglie Mathilde, cultrice d’arte. Quale venerazione per quell’ombroso musicista! per quel profugo, sulla cui testa pende una condanna a morte guadagnata nell’insurrezione di Dresda del 1849, quando al fianco dell’anarchico Bakunin aveva tentato di dar fuoco alle polveri del vecchio mondo in nome della Rivoluzione! I Wesendonk ascoltano Wagner dirigere le Sinfonie di Beethoven e, catturati dalla sua forte personalità, lo inseriscono nella cerchia ristretta degli amici; quindi, poiché l’artista di genio «deve essere dispensato da ogni occupazione pratica, a lui non consona, e avere tempo libero per creare», per favorirne la serenità creativa Otto acquista per lui l’Asilo, un’appartata villetta con giardino e vista sul lago, collegato a Villa Wesendonk da quello che diverrà “il sentiero dell’amore” di Richard e Mathilde, costellato di affinità elettive tra le pagine del Mondo come volontà e rappresentazione. Poi, versi di passione che diverranno i Wesendonk-Lieder prima di trasformarsi nell’eros notturno del Tristan und Isolde:

Dimmi, quali meravigliosi sogni avvolgono i miei sensi… penetrano sublimi nella mia anima per imprimervi un’immagine eterna… Sogni, belli come il sole primaverile che bacia i fiori spuntati dalla neve perché a nuovi piaceri, mai immaginati, possa aprirli il nuovo giorno; perché fioriscano e, sognando, effondano il loro profumo per poi spegnersi dolcemente sul tuo petto e perdersi nel silenzio della morte (Mathilde Wesendonk, Träume).

Morire uniti, senza fine, senza risveglio, perduti in noi per vivere solo d’amore!… Eternamente insieme in spazi infiniti, in sogni beati, nel piacere supremo dell’amore! (Wagner, Tristan und Isolde, atto II).

Tristan und Isolde sarà l’apoteosi di un romanticismo elegiaco immortalato nel regale triangolo amoroso del triste cavaliere, della bella Isolde, del patetico Re Marke, il marito tradito cui non viene concesso il diritto di mostrare il dolore ma che continuerà a sostenere finanziariamente quell’artista sublime, poeta dell’incanto, acquistando finanche i diritti, già venduti, dell’Anello del Nibelungo, la tetralogia che ancora non intravede alcuna possibilità di rappresentazione scenica.  

Cosa spinge, dunque, i Wesendonk a venerare quello stravagante, egocentrico esule, se non una incondizionata devozione al genio? Cosa spingerà, dieci anni più tardi, Hans von Bülow, apprezzato direttore d’orchestra, a offrire la giovane moglie Cosima Liszt in dono a quello stesso geniale compositore, profeta della “musica dell’avvenire”, per poi votarsi alla propaganda wagneriana? Cosa spingerà al perdono Franz Liszt, che abbraccia i voti mentre nella cattolica Baviera sua figlia Cosima rinnega il cattolicesimo per sposare, con rito protestante, il canuto amico? Cosa spingerà Cosima a dimenticare il tradimento di Richard con la sensuale Judith Gautier dal profumo d’oriente, immortalata nella Kundry del Parsifal, la peccatrice asservita al potere del male e poi vinta dall’amore? Cosa spingerà Friedrich Nietzsche, il giovane grecista immolato alla filosofia, che formerà la rivoluzione spirituale del domani secondo la Tavola delle leggi di Schopenhauer riveduta da Wagner, ad abbandonare la cattedra universitaria di Basilea per votarsi, discepolo eletto, al mistagogo musicista e alla sua causa, esortando i tedeschi tutti ad aderire gioiosi «all’impresa del genio germanico» per consacrarsi «all’incanto sublime di un’autentica Arte tedesca»? Appello raccolto dall’enigmatico re Ludwig II di Baviera, sognatore malinconico e visionario paladino della “missione tedesca” che, ritrovando nella musica di Wagner gli stessi accenti dionisiaci della sua cetra, gli concederà incondizionata protezione e il teatro di Bayreuth, tempio della Musica per la rappresentazione integrale de L’anello del Nibelungo. E tutto per compiere appieno il loro sublime sodalizio artistico, la loro sublime grande illusione.  

Personaggi colti, aristocratici, illuminati, utopisti di un rinnovato umanesimo nel nome dell’Arte, attratti dal magnetismo incantatore di Wagner e dalla Weltanschauung del suo genio, rappresentazione pura del canto del mondo, della quintessenza della vita, offerta all’intero genere umano. Per tutti loro, Wagner sembra proprio incarnare il genio descritto dal filosofo di Danzica nei Supplementi al Terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione: «Depurato da ogni volontà, il genio crea le sue opere con il sacro ardore della libera ispirazione, divenendo lo specchio della rappresentazione del mondo. Viene così creata l’anima delle opere immortali, di una serenità profonda, quasi sovrumana, derivante dalla perfetta oggettività dello spirito, e che ben si accorda perfino con la malinconia che segna i tratti stessi del suo volto».  

E come quel genio, avvertendo la miseria della condizione umana, anche Wagner, richiamando Schopenhauer, sembra «preda di un umore cupo, da spiriti eletti», con tratti di una serenità breve e sublime «come il Monte Bianco, sempre immerso tra le nubi, ma rosso alle prime luci del mattino». È libero e vivo, estraniato dal mondo, mentre recita, consapevole, tra le marionette della vita per poi «abbandonare la scena e godersi lo spettacolo dai palchi». Egli «incontra il proprio tempo come una cometa le orbite dei pianeti, alla cui ordinata disposizione la sua eccentrica traiettoria rimane estranea. Non potendo così intervenire nel regolare processo culturale del tempo coevo, già avviato, lancia in avanti le sue opere su vie non ancora percorse, dove il tempo futuro dovrà recuperarle, al pari dell’imperator che, votandosi alla morte, gettava il giavellotto tra i nemici». E colpisce bersagli «che nessuno riesce neanche a vedere!».  

Il mondo «sparisce alla sua vista». La propria ricompensa è in sé. Le sue opere, sempre in lotta con il gusto facile del tempo, non servono l’utile, perché non sono oggetti da usare: «L’essere inutile rientra tra le caratteristiche delle opere di genio: è la loro patente di nobiltà». Esse esistono per se stesse, per schiudere i cuori e «farci emergere dalla pesante atmosfera della necessità». 

Wagner risponde ai canoni di quel genio perfino nella corporatura: testa grande, collo corto, statura media, tratti energici scolpiti su un volto tormentato. Una maschera, aggiungiamo noi con Édouard Schuré, di una forza diabolica, con la fronte di Faust, il profilo di Mefistofele, i tratti di Lucifero ribelle caduto dal cielo, che porta incise tracce di passioni e sofferenze capaci di logorare molte vite umane e, insieme, un’aria di eterna verginità per dominare la visione dell’Ideale, il sogno divino del Genio.