Il ritorno al “canto” di Zarathustra

Ma se non vuoi piangere, se non vuoi sfogare
nelle lacrime la tua melanconia purpurea,
allora dovrai cantare anima mia!”

Così parlò Zarathustra, Del grande anelito

Attorno alla scelta nietzscheana dell’antico Zarathustra si è per molto tempo giocata una vera e propria lotta per le interpretazioni di quello che il filosofo concepiva come l’acme, il sommo sunto, della propria visione della vita. Significativamente accostava la sua opera alla tradizione biblica definendola un «“Quinto” Evangelo» e presentava a Resa von Schirnhofer ed a Franz Overbeck le due opere precedenti come introduzioni e commenti alla stessa. D’altro canto Paul Valadier (1991) nota come le opere successive, in realtà, svolgano le medesime funzioni esplicative.

In Ecce homo, sulla scorta dei suoi studi sulla storia delle civiltà e delle religioni, esplicava la scelta di Zarathustra in ragione del fatale errore da questi commesso: l’aver voluto trasporre l’istanza morale legata alla relazione tra buone azioni, buone opere e buone parole ed i loro opposti in un quadro metafisico decisivo ed assoluto. Non sarà così per mero caso che il novello oracolo di Nietzsche nella terza parte dell’opera si addentrerà in una profonda e pungente disquisizione sulle tre cose malvagie attualizzando e chiarendo al contempo il modo in cui i valori da “egli” stesso stabiliti siano stati travisati fino a far apparire come buono ciò che è malvagio e degenere e, viceversa, malvagio ciò che deriva da un sano istinto naturale e si esplica a partire da una autentica bontà d’animo.

Padre della metafisica teologica – poi travisata nell’accumularsi di semplificazioni e falsificazioni apportate dal senso comune e da una concezione ancora rudimentale del religioso quale quella da Nietzsche descritta nel Crepuscolo degli idoli – Zarathustra tuttavia è l’unico in grado, grazie al proprio coraggio ed alla propria naturale “predisposizione” alla verità ed all’onestà, a poter rimediare all’errore della proiezione del mondo etico e morale in una visione metafisica assoluta. Un ritorno del Persiano, sotto le cui spoglie si possono chiaramente cogliere anche i tratti della tensione “tragica” ed erotica espressa dal dionisiaco nietzscheano, si rende dunque necessario affinché la realtà del concreto possa essere riaffermata a discapito di ogni insensata evasione in una trascendenza contrapposta all’umano. Se questa direzione di indagine, da un lato, può guidarci nel fare il nostro ingresso all’interno dell’opera per sciogliere il significato di simboli, narrazioni ed immagini, per l’altro, riguardo al nostro tema, può risultare illuminante anche in relazione alla tensione verso il musicale che l’opera esprime con costanza. Per rendere l’idea della rilevanza di questo elemento all’interno della tradizione delle Gāthā dell’antico Zoroastro basti ricordare come questo stesso termine significhi “Canti” e come il paradiso Parsi sia, per l’appunto, la “Dimora dei Canti” (Garo Demana) ove le anime giungono dopo avere attraversato, purificandosi, un grande ponte (Cinvat). Le stesse immagini che ritroviamo evocate da Nietzsche sin dal Prologo dell’opera fino all’esito rappresentato dal suo nuovo ritornare al canto. L’immagine del grande ponte su cui il filosofo di Sils-Maria si sofferma nello specifico nel capitolo Della redenzione, ed il suo attraversamento, alludono allora chiaramente al successivo evento catartico suscitato dall’armonia del canto come rimedio e guarigione dall’afflizione che la visione dell’eterno ritorno può anche suscitare in uno Zarathustra ormai “convalescente”. L’eminente studioso iraniano Khosro Khazai Pardis (2019), difatti, sottolinea come nella tradizione dell’antico Zoroastro il “canto” “evoca la creatività ma anche l’emozione, nel suo poter essere gioiosa o triste. La ‘Dimora dei Canti’ evoca dunque lo stato di coscienza più gioioso, il più sublime, il più creativo. In esso il tempo è abolito e la coscienza si situa al di là del bene e del male […]”. La valenza universale dell’immagine nietzscheana del profondersi in nuove canzoni, intesa come attività creativa risanatrice, conduce a far pensare al filosofo come un anticipatore di una terapeutica esistenziale dell’espressività musicale:

Smetti di parlare tu che sei convalescente! – gli risposero i suoi animali, e va’ fuori, invece, dove come un giardino, ti attende il mondo.
Va’ fuori dalle rose, dalle api e dagli sciami di colombe!
E soprattutto dagli uccelli canori: per imparare da loro a cantare!
Cantare infatti va bene per i convalescenti ; colui che è sano può parlare. E anche se vuole canzoni, il sano, ne vorrà diverse da quelle che vuole il convalescente […]”.

“[…] Canta, effondendoti nel tuo canto, Zarathustra; risana con canzoni nuove l’anima tua: affinché tu possa portare il tuo grande destino, che non fu ancora il destino di alcun altro tra gli uomini! […]”.

I piani su cui giace questa corrispondenza tra lo spirito del Così parlò Zarathustra e quello delle Gāthā zoroastriane, sono tuttavia molteplici e si dispiegano dal livello strutturale fino a quello evenemenziale, transitando da quello tematico-simbologico relativo ai significati di volta in volta espressi. Dal punto di vista strutturale vale la pena ricordare come lo Zarathustra di Nietzsche si componga di Canti e Discorsi, così come le Gāthā sono per l’appunto i canti di Zarathustra mentre la tradizione tramanda anche i suoi discorsi al popolo (Pardis 2019).

Elke Angelika Wachendorff (2017) ha recentemente posto l’accento su un importante passaggio nietzscheano contenuto nella retrospettiva seconda Prefazione a La nascita della tragedia, l’opera che, almeno nelle intenzioni iniziali, doveva legare stabilmente il progetto filosofico nietzscheano alla rivoluzione culturale propugnata da Richard Wagner: “Avrebbe dovuto cantare, quest’“anima nuova” – e non parlare! Che peccato che ciò che allora avevo da dire non osai dirlo da poeta: forse l’avrei potuto!”. Così Wachendorff, infine, conclude:

Solo nel suo Zarathustra ha potuto realizzare questo sogno e dare finalmente compimen­to a questo intento ed esigenza. Solo adesso difatti era in grado di farlo, ben sapendo che altro non sarebbe ormai stato né possibile né legittimo, perché se mai per gli umani ci fosse un’opzione per una eterna ed ineludibile “ve­rità” ricercata, questa sarebbe sì celata, e tuttavia tangibilmente presente solo nella musica. Questa già era la chiara convinzione del giovane Nietzsche ed anche la prima base del comune intendimento intellettuale che dava lin­fa ai suoi primi incontri con Richard Wagner, alle loro dispute sull’assoluta ed irrinunciabile antecedenza della musica sulla parola e sul verbo.

La capacità di cogliere “l’ardore dei suoni” non a caso nello Zarathustra fa la differenza tra forme di vita che si distinguono in base all’approfondimento interiore nella propria relazione alla sfera spirituale. L’opera, alla luce di questa predilezione del musicale, connotata anche in senso storico-filologico, oltre che pedagogico e culturale, si può concepire come volutamente strutturata a partire dall’accentuazione del sottile limite che si dispiega tra l’evocazione di una nuova sovrumana trascendenza e il richiamo alle emozioni (vd. Bertinetto 2021) che solo la musica può risvegliare e alimentare. Facendo sintesi dei piani strutturale e contenutistico le emozioni sgorgano direttamente dal proliferare di “sinestesie” (vd. Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi 2020) suscitate tanto in virtù della pertinenza attanziale della visione del “Canto” come dimora suprema, quanto grazie alle singole forme sintattico-espressive e metaforiche che di volta in volta vengono proposte. I Discorsi del nuovo “Profeta”, in tal modo, anelano costantemente al canto anche laddove questo non narra più della melanconia, cui è dedicata una densissima e struggente lirica, ma di un apocalittico “Sì e Amen” (Ap. 1, 8) rivolto all’esistenza voluta e vissuta come destino profetico. Canto, espressione dell’ardore risanatore del suono, recettività psicologica e sensibilità rivolte verso intense vibrazioni concettuali specchio di un’esperienza, poi ritradotti in chiare immagini musicali, sono gli elementi che guidano verso l’accordo dell’anima con il proprio Sé (Leib) e fanno il paio con una ricerca costante o, talvolta, con l’imposizione necessaria del silenzio. La tensione oltrepassante che costituisce il nucleo tematico del sovrumano viene allo stesso modo raffigurata liricamente come in una crescente sospensione acustica che attende al proprio poderoso scioglimento: momento catartico e vittorioso che Nietzsche non può che richiamare mediante l’immagine trionfale del “grande Hazar” di Zarathustra e, quindi, in consonanza con gli esisti sincretistici che accomunano diverse visioni millenaristiche apocalittiche, tra tutte, quella persiana, ebraico-cristiana e islamica. Il silenzio fa da controparte relativa e, in modo alternato, si intreccia ed interpone a questi sviluppi ed al fraseggio degli svolgimenti, evocando la dinamica primigenia del sorgere dell’universo sonoro (parola/musica/danza); un mondo che Nietzsche, a più riprese, specifica essere precluso a coloro che vivono nell’immediatezza della vita gregaria e non coltivano un retto dire, tacere e sentire. “In principio, è lecito supporre, era il silenzio”, scrive Ottó Károlyi (2000), quel silenzio che fa da costante sfondo e contrappunto alla tensione profetica del protagonista di Nietzsche. Esso è sia il luogo preparatorio dello sgorgare delle vibrazioni acustiche – queste caratterizzano prepotentemente persino l’incedere del protagonista – sia il non-luogo dell’anticipazione di una parola che è già canto nella sua più profonda essenza. Tentazione estrema dell’abbandono e dell’afflizione che l’accompagna, il silenzio è anche il segno puntuale di una suprema realizzazione cosmica.

Trattando dello spirito di gravità, difatti, il nuovo Zarathustra, ancor prima di rivivere il pieno pathos del proprio cantare, accostava la pro­pria natura a quella lieve, tendente ad elevarsi, degli uccelli, contrappo­nendola, ancora una volta con una doppia metafora dal sapore fortemente armonico, a tutto ciò che essendo grave e pesante costringe alla rinuncia e attrae verso il basso. Così rimarcava la sua volontà/desiderio di cantare una canzone, anche se in solitudine e senza bisogno di alcun plauso. Solamente nell’o­ra del Mezzogiorno il canto può infine estinguersi: finanche bi­sbigliare sarebbe di troppo. Rimasto ancora una volta da solo, leggeva dentro la propria anima e la sua stanchezza, e così parlava al suo cuore:

[…] Come una simile stanca nave nella più immota delle baie: così anche io ri­poso, ormai vicino, fedele, familiare alla terra, ad essa legato dal più tenue dei fili.
Felicità, felicità! Vuoi forse cantare, anima mia? Tu giaci nell’erba. Ma que­sta è l’ora segreta solenne, in cui nessun pastore soffia nel flauto.
Guardatene! L’ardente meriggio dorme sui campi. Non cantare! Zitta! Il mondo è perfetto.
Non cantare, capinera, anima mia! Non bisbigliare neppure! Guarda! – Zit­ta! Il vecchio meriggio dorme, muove la bocca: non sta appunto bevendo una goccia di felicità -una vecchia bruna goccia di felicità aurea, di aureo vino? […].

L’elemento canoro, a più riprese richiamato, non contrassegna unicamen­te l’intenzione di riprendere una o più tradizioni in più modi correlate alla storia del sapere filosofico, del mito e delle religioni ma pare segnare il percorso di una nuova esperienza del musicale finora sconosciuta, nonché preclusa, alla teoresi filosofica. Nel musicale la ratio esperisce il proprio scacco più deciso ma vive la propria sconfitta, paradossalmente, come una nuova possibilità: quella di potersi da qui librare verso le più elevate mete dello spirito. Non sarà un caso che l’opera nietzscheana si sia prestata a molteplici interpretazioni di carattere musicale e che la scelta stilistica di Nietzsche si ispiri alla poesia intesa anch’essa come canto e come lirica.

Il ritorno di Zarathustra narra la storia di un’anima costretta a riconoscere dolorosamente il proprio fraintendimento e, senza mai chiudersi di fronte alla realtà farisaica del mondo, si conclude in un possente e gioioso risorgere alla vita grazie a quella potenza sprigionata dalla musica che già Schopenhauer intravedeva. Una rinascita ardente e solare che con ogni probabilità finisce per suscitare ancora nuove domande, da tentare forse, magari per comprendere fin dove si estenda il senso del “tragico” affermato ed elaborato da Nietzsche.  

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Oltre alle citate opere di Friedrich Nietzsche riprese dall’edizione critica stabilita da G. Colli e M. Montinari (Adelphi, Milano), si è fatto riferimento ai seguenti testi: 

  1. Dal Bon (2020), La gioia sovrana. Nietzsche e la musica come filosofia, Mimesis, Milano-Udine.
  2. Deleuze (1997), Nietzsche, trad. it. di F. Rella, a cura di G. Frank, SE, Milano.
  3. Károlyi (2020), La grammatica della musica. La teoria, le forme e gli strumenti musicali, a cura di G. Pestelli, Einaudi, Torino.
  4. Kivy (2007), Filosofia della musica, trad. it. di A. Bertinetto, Einaudi, Torino.
  5. K. Pardis (2019), Le Gatha. Il libro sublime di Zarathustra, tr. it. di E. E. Mariani, Mimesis, Milano-Udine.
  6. Perrakis (2011), Nietzsches Musikästhetik der Affekte, Verlag Karl Alber, Freiburg.
  7. Schön, L. Akiva-Kabiri, T. Vecchi (2020), Psicologia della musica, Carocci, Roma, Nuova Ed.
  8. Schopenhauer (1818-1859), Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Roma-Bari 2006.
  9. Valadier (1991), Nietzsche e la critica radicale del cristianesimo, a cura di S. Decloux, Edizioni Augustinus, Palermo.
  10. E. Wachendorff (2017), Prefazione in E. E. Mariani, Come un sole al mattino. Etica, psicologia e trasfigurazione del sacro nel Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche, Mimesis, Milano-Udine.
  11. Wagner (1849), L’arte e la rivolu­zione e Sul principio del comunismo, trad. it. di N. Pennacchietti, Fahren­heit, Roma 2003.