Filosofia dell’interpretazione musicale in quindici puntate
Nona puntata

Declinazioni parallele e tangenze reciproche in ambito filosofico e musicale

Novitates

Se l’iterazione della formula concertistica di matrice ottocentesca sia da considerarsi insostituibile, e dunque l’unica adatta, è domanda che lasciamo aperta, ma che rientra tra gli oggetti di una riflessione seria e il più possibile libera da giudizi preconfezionati.

Notiamo che negli ultimi mesi la condivisione di performance alternative al concerto tradizionale o capaci di vivere accanto a questo si è moltiplicata esponenzialmente, complice l’enorme diffusione di mezzi tecnologici atti a consentire autoregistrazioni qualitativamente ottime. La fama non appare più necessariamente legata all’apparizione pubblica dell’artista in presenza; e il materiale condiviso, a volte di livello altissimo, mischia spesso i più diversi generi. Oppure e meglio: il singolo musico dà prova di muoversi a proprio agio entro vari tipi di musica. Riporto qui un solo fulgido, raffinatissimo esempio – che è ai massimi livelli in ogni campo: Hayato Sumino. Noto anche come Cateen, ha un fortunatissimo canale da lui creato in time of pandemic

Ecco un delizioso (virtuoso!) Cat Walse composto (ed edito) sulla falsariga di Strauss-Lhevinne, senza dubbio, e arricchito di qualche tenero innesto:

Volete per cortesia sigillare un tema, così da mostrarmelo solo nel momento in cui potrò improvvisarvi sopra?” – disse Liszt a Beethoven nel 1822: ecco, con qualche differenza, anche Sumino fa lo stesso: conduce, live, improvvisazioni di ore (nuova forma di intrattenimento, senza dubbio, ma colto e popolare al contempo, e stupefacente) su temi richiesti in diretta da un pubblico di appassionati e fan, in maggioranza giovanissimi.

Ancora:

Cosa succede, qui?

Si tratta del sintomo di una rivoluzione epocale (che forse non soppianterà il concerto pubblico tradizionale ma certo può affiancarlo) o di un fenomeno destinato a spegnersi o metamorfizzarsi una volta terminata l’emergenza pandemica? Accorderei importanza a ciò che sta accadendo: poiché l’autodafé veicola nuovo e antico gusto, dice che il re è nudo, stimola pratiche nuove e antiche; stupisce; cattura inedite fasce di età chiamando a raccolta, con una potenza non prevedibile sino a pochi mesi fa, un pubblico assolutamente trasversale, in ogni senso. È questa pure una forma di con-certo.

A esser modificato è – non sempre, certo, ma in più occasioni – è l’assetto ieratico del concerto solistico. Le procedure di ripresa – da vicino, in modo tale da osservare il concertista come se ci trovassimo accanto a lui o lei: procedure adottate anche nei grandi concorsi classici – annullano la distanza che favoriva il mito; il nuovo assetto attiva altri miti.

Domande aperte

Cosa accade se l’interprete musicale si affranca dalla condizione di apolide e paria inassimilabile*, così prossima alle profonde ragioni del suo fascino? O meglio: può ella, egli, conservare il fondo zingaresco e straniero – matrice della sua ispirazione – agendo tuttavia nel mondo come fautore del Nuovo? 

C’è un senso politico in tutto questo?

Cosa accade, per esempio, se l’interprete parla, se approfitta del palcoscenico per dichiarare proprie posizioni, se accetta e interpreta in più sensi – gadamerianamente, dunque politicamente – il suo appartenere alla storia?
Può l’interprete – come il filosofo – entrare nella polis e contribuire potentemente a mutarne i codici senza essere funzione espressiva di un apparato politico?** 

Qui si tocca con mano che il suo destino, e il suo alto margine di rischio, è simile – e a prima vista non lo si direbbe – a quello del filosofo: anche l’interprete può conoscere la sua Siracusa. È simile l’intuizione dell’essere e dell’incarnazione della Bellezza***; simile la crudeltà**** e la condizione di migrante, simile la natura vicina a quella di Hermes; simile, paradossalmente, l’inassimilabilità. Quali i modi, dunque, quali i rischi di un ritorno – o forse di un suo primo vero consapevole ingresso – nella polis? 

Se l’interprete musicale abbia o no, o possa avere, oggi, un ruolo politico – ispirativo, educativo, storico – è domanda tutt’altro che banale. Certo, da un lato – ce lo insegna e lo sottolinea Rattalino, più volte – è la scelta stessa, la composizione interna dei programmi da concerto a denunciare, dichiarare, abbracciare un certo senso dell’esegesi e della storia: anche questa è politica, sia pure in un senso assai filosofico ed etimologico, forse originario. D’altro canto però è poco tematizzata la questione, e ancora tabù: l’interprete permane fondamentalmente in un ruolo intrattenitivo che non è percepito come pericoloso. Eppure, se ogni atto dello spirito è atto creativo e autocreativo – e l’interpretazione musicale certo è atto dello spirito – allora intriganti si fanno i suoi legami con la prassi atta a creare contesti, arricchiti peraltro di quella forza subliminale che è il quid della musica. Il concerto può dunque veicolare sovversione, utopia, nuove istanze? Senso della giustizia, della pietà, dell’uomo? L’atto interpretativo pubblico può aprire conflitti e sanarne? Far baluginare l’idea di un’alba radiosa? 

*Devo spiegarmi: era stata Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo a marcare la posizione di un certo tipo d’uomo, ebreo, quasi sempre artista, contemporaneamente fuori e dentro l’alta società. Egli è percepito, in più sensi, come paria e apolide. Non ne fa parte – perché è il Grande Straniero che visita e incanta, e solo a questo patto vi è accolto come l’ospite più gradito e conteso. Vi ricopre una funzione ricca di fascino: ma questa è misurata sul profumo esotico e strano che emana dalla sua persona tutta, dai suoi talenti, da quel segreto che lo rende alieno. Interessata da risvolti tragici, tale figura è rapportabile – anche se non identica – alla situazione dell’artista sino a tempi a noi molto vicini: soprattutto quando si tratti di interpreti musicali. Bisogna inoltre considerare il ruolo di questo grande metalinguaggio che è la musica: l’interprete è spesso amato in ragione della sua scontrosità, della sua profonda riottosità a parlare, a essere e a muoversi secondo codici condivisi. La sua figura non è priva di quei tratti bohémien da cui, a fine Ottocento, ci si attende rivelazione dell’ultimo senso delle cose: è una bohème vista dall’esterno, che accende l’immaginazione e dispone alla ricezione del concerto come evento mondano e contemporaneamente – perlomeno a volte – semidivino, terribilmente serio.

** Commovente, a questo proposito, Luigi Pareyson nella sua sublime distinzione tra pensiero espressivo e pensiero rivelativo: “Giova approfondire la differenza fra il pensiero [espressivo] che è mero prodotto storico […] e nega alla filosofia quel valore di verità cui essa sembra ambire per la natura stessa del suo pensiero, e non le riconosce altro valore che d’essere espressione del proprio tempo –  e il pensiero [rivelativo] che manifesta la verità; senza dimenticare che questa distinzione non riguarda solo al filosofia, ma costituisce un dilemma di fronte al quale l’uomo […] deve scegliere: se essere storia o avere storia: se identificarsi con la propria situazione o farne un tramite per attingerne l’origine; se rinunciare alla verità o darne una rivelazione irripetibile.” 

Qui sfioriamo un nodo focale delicatissimo: il problema del vero, anch’esso connesso al tema dell’eredità e della sua negazione – legato cioè non solo dell’autenticità dell’esperienza ma anche al senso di rivelazione con il suo carico di novità. Ma se il vero è autoevidente, non esclude esso le interpretazioni? Verità e interpretazione non sembrano forse abitare regioni che si negano reciprocamente? Pareyson ritiene che il lemma “verità” non si dia senza “interpretazione”, e che questa passi sempre attraverso la persona. Ritiene che la pluralità delle interpretazioni non contrasti affatto con l’idea di verità, ma che la rinforzi, la confermi e la invochi: più precisamente le interpretazioni sono risposte a un primum clamans che è giusto la Verità stessa. (L’insieme dei riferimenti e delle citazioni è tratto da L. Pareyson, Verità e interpretazione).

***Stupenda questa evocazione di Roberta De Monticelli intorno alla Bellezza alla luce della redenzione; essa in qualche modo ci parla e ci riguarda, anche se diretta al commento del saggio di Dietrich von Hildebrand:

In questa sua componente più “‘ottile’ di significato, la bellezza può non avere nulla di estetico, cioè di dato ai sensi, benché ci appaia – come dice la versione tedesca del saggio – come il ‘viso’, o dantescamente la ‘continenza’ di una data qualità positiva, l’aureola del santo, lo splendore che ne è come irraggiato: per esempio dall’ordine cosmico o dalla città giusta, o dall’anima gentile, l’aspetto che innamora. […] La ricchezza gestaltica – ‘la proporzione, la composizione, l’armonia, il ritmo’ – non rappresenta che la base della bellezza, nel suo ‘aderire’ pienamente al mondo sensibile e abitabile della vita. Poi c’è l’eccedenza, l’annuncio di altri mondi o di ‘regioni più elevate’ – con una meravigliosa espressione dantesca: ‘la speranza dell’altezza’. Oppure il loro pieno e felice godimento: la festa, il risvegliarsi, il ricrearsi, il rinnovarsi, il respiro che si allarga, la luce che dilaga. Ecco la potenza ‘felicitante’. Non c’è dubbio, ha tutte le caratteristiche del ‘salvifico’. Ha il potere ‘amplificante e liberante’ di un dono di vita nuova, e nuova intelligenza. Somiglia come due gocce d’acqua alla ‘grazia’ di ciò che i millenni cristiani (e non) hanno chiamato ‘divino’. Ma cosa sia, ma come sia – è dato a chiunque esperire. Ciascuno almeno una volta e anche molte volte questa gratitudine l’ha provata. Che fosse alla Filarmonica di Berlino o in vetta al Gran Zebrù o nei giardini pubblici della sua città“.

****Devo a una lettera privata di Roberta De Monticelli anche questa forte allusione alla crudeltà della vita d’artista: crudeltà che spesso l’artista infligge a se stesso e ai vicini; crudeltà nel senso di Artaud: crudezza dura della sua vocazione.