Sempre, il mio mal di testa, era stato preceduto da una strana euforia. Una gioia lieve e incantata che mi faceva amare tutto ciò su cui cadesse il mio sguardo; era una felicità senza ragione, contingente e perciò assoluta. La luce, le ombre, le case, gli intonaci, l’erbetta in ogni sasso, gli animali e persino le persone, tutto mi sembrava bellissimo e mi inebriava per la sola ragione di esistere. Uscivo di casa entusiasta per incontrare più da vicino questa felicità immensa e sparsa ovunque. Cantavo anche, musiche che non erano mai esistite e in una lingua inventata, una musica che scaturiva senza intenzione, quasi accompagnasse l’aria dei miei pensieri. Era il pensiero stesso che si faceva sensibile attraverso la musica e attraverso la musica la mia anima si scioglieva cantando. Questa musica era così inerente a me che nel canto piangevo di commozione, quasi che da una repressa scaturigine si liberasse finalmente la vita cantata. O meglio, non la vita, ma la voce della vita, o di quello che è il più misterioso dei nostri umani attributi, e cioè il sentimento, non un particolare sentimento, ma il sentimento.

PATRIZIA CAVALLI, Con passi giapponesi