Voce
L’assetto a più voci della Rivista esige e stimola, ogni volta, la tematizzazione contemporanea di diversi aspetti, infiniti e complementari, dell’interpretazione. Ecco allora tre mondi filosofici piuttosto distanti, che l’interpretazione musicale intercetta e invoca, con i quali indirettamente solidarizza: l’uno, quello di Adriana Cavarero, acutissima e critica testimone della impervia storia del pensiero femminista, a lungo impegnato nella tematizzazione concreta del corpo, dell’unicità, della contingenza, della relazione, della voce; l’altro, quello di Luigi Pareyson, fulgido e chiarissimo filosofo dell’interpretazione, della forma e della persona. Tra i due mondi, a mo’ di altalena rituale che apre linee impossibili, Maria Zambrano, filosofa andalusa notissima e oggi sempre più al centro di speculazioni mature.
Con un breve viaggio a volo d’uccello, dunque, si prenderà in esame, polifonicamente,
– qualche aspetto della speculazione filosofica di Adriana Cavarero, con particolare attenzione al geniale A più voci. Filosofia dell’espressione vocale;
– la Antigone e la Diotima di Maria Zambrano – una Zambrano stranamente presocratica, qui testimone di un mondo femminile pregreco e degno della massima attenzione, abitato da profetisse e per natura aperto, anzi consacrato alla musica,
e
– Verità e Interpretazione di Luigi Pareyson, capolavoro ermeneutico di uno dei massimi filosofi del secolo appena tramontato.
Quale incomponibile diversità! E quale grandezza, in tutti e in ognuno!
Voce, Profezia, Interpretazione – ogni lemma connota ciascuna delle tre tappe del viaggio – vuol proporsi come un trittico da intendersi non solo in senso diacronico, ma anche polifonico. Un contrappunto ideale unisce e insieme distingue le tre vie di ricerca; e l’impalcatura invisibile che sostiene questo tentativo è l’Interpretazione, intesa in senso lato e multidisciplinare nonché aperto al futuro.*
Adriana Cavarero: Voce e Voci.
Si sa: la storia è scritta da autori che, tradizionalmente e quasi di regola, non sono donne, e maneggiata attraverso un lessico che ne ribadisce, spesso, l’esclusivismo androcratico, i luoghi comuni, i dispositivi di potere. Eppure – scoprono alcune pensatrici, tra cui certamente Adriana Cavarero – a ben guardare tutta la Storia è percorsa da voci, parallele a quelle ufficiali, disorganiche e mai unitarie, ma rinvenibili chiaramente come interferenze disturbanti, come tentativi vitalissimi e disperati e polemici: presenze spesso negate, o ridicolizzate, o ridotte a fantasmi, ma che dicono di altro codice, che usano (per istinto e per scelta ragionata) armi concettuali, dialettiche e spirituali decisamente altre.
Cavarero ha compiuto molti gesti contrari alla filosofia tradizionale di stampo platonico. Femminista, docente di Filosofia politica e di Storia della filosofia antica presso l’Università di Verona sino a pochi anni fa*, è tra le fondatrici dello storico gruppo Diotima* da cui è poi uscita nel…, mantenendo vistosa indipendenza speculativa. Dotatissima grecista, studiosa di Hannah Arendt, conferenziera affascinante, torna spesso ad avvolgere di luce sempre nuova molte linee del pensiero femminile, colto in una angolatura contestatoria e dialogica insieme.
Quattro, in questa chiave, le sue pubblicazioni più importanti: Nonostante Platone, Tu che mi guardi tu che mi racconti, Corpi in figure e infine A più voci – filosofia dell’espressione vocale, opera sulla quale, a volo d’uccello concentrerò speciale attenzione
Impossibile comprendere il pensiero di Adriana Cavarero se non lo si inquadra all’interno di quella profondissima critica al vocabolario, ai fini, agli argumenta della filosofia che il mondo femminista opera a partire dagli anni Sessanta; parimenti importante è l’esperienza, interna al movimento femminista, dei gruppi di autocoscienza*, che Cavarero esamina da fuori, senza parteciparvi, ma con occhio attento. E’ qui il debito profondissimo nei confronti delle madri a farsi strada in tutta la sua problematicità: chi sono le madri?* E’ proprio vero: parlarne crea imbarazzo. Soprattutto: abbiamo una genealogia femminile in campo filosofico? Mille volte sì, rispondono le pensatrici femministe! Esistono madri e sorelle: la duplice movenza relazionale disegna una croce* i cui bracci esprimono nuove e arcaiche architetture dello spirito e del corpo*. Sì: è il corpo a imporsi come scabroso oggetto di pensiero: ma un corpo femminile incarnato e mai astrattizzato; percorso da emozioni e brividi e voci, e inscritto di dolori ancestrali e memorie prestigiose, occultate sotto strati e strati di limiti. C’è, in quella Italia che guarda se stessa dopo il ’68, una rivoluzione in atto*: rivoluzione lunga e difficilissima a dipanarsi, che travolge vite a valanga, senza trovar subito logica risistemazione, né modo per entrare armonicamente nella Storia. Altre voci e altre ragioni si fanno strada: differenti da quelle dettate dalle magnifiche sorti e progressive e verticalizzanti* della civiltà androcratica.
Con una sintesi che inevitabilmente ù comprime e semplifica, senza tuttavia voler cedere all’incuria delle parole, proviamo a dirne, in qualche riga, alcuni nuclei portanti.
In questione è qui il pensiero greco, soprattutto nel suo assetto platonico e poi aristotelico. La metafisica porta con sé, sin dalla sua fondazione, l’immenso problema del corpo: la tendenza ad aborrire la nascita da corpo di donna, intendendo la nascita quale scena primaria, oscena e tremenda, sembra andare di pari passo con la ipostatizzazione di una seconda e più vera nascita: la nascita alla città, oppure – più compiutamente – alla filosofia. A più voci e Corpo in figure evocano in molti luoghi le condizioni e le conseguenze di questa seconda nascita: è qui la definizione platonica di pratica di pensiero come esercizio di morte (melete thanatou) e come lysis kai khorismos (scioglimento e separazione) dell’anima dal corpo. Quale anima? Quella logistikè, razionale, cui si deve la possibilità umana di far filosofia e intuire, contemplare, e infine essere-stati la verità stessa, senza residui. Solo lo stato defisicizzato dell’anima razionale consente il volo, e la contemplazione della Piana della Verità. Ed è in virtù di questo essere-stata che l’anima razionale, incarnata e ora gravata di oblio, riconosce il Vero, e lo contempla e lo pensa e lo dice, e si fa filosofa. E’ sempre Platone a statuire la composizione dell’anima divisa in tre parti degradanti riguardo a purezza, e in ragione dell’invischiamento nelle ragioni e regioni del corpo. Corpo – si chiedono le filosofe femministe lettrici e critiche di Platone – è dunque orkhos, ovvero tetra e caduca prigione, nido d’inganni e zavorra, oppure è scrigno vivente, intriso di memorie gravi e splendide, e di sapienza perduta e non riconosciuta? L’uomo, insomma, esiste in quanto figlio della Città e della Filosofia oppure in quanto figlio di carne, concepito, fabbricato e nato da madre? E la sua sostanza è tanta più pura quanto più affrancata dal corpo, oppure è sostanza sessuata, e in quanto tale intrisa d’essere? E la differenza sessuale quale ruolo gioca? Schematizzando: due i registri di risposta. Il primo, destruens: il riso quale innesco ironico; il secondo, construens: l’edificazione e la ricostruzione di un altro filone, femminile, di pensiero.* Era stata Luce Irigaray a consacrare al riso di Diotima una importante pagina dell’opera Etica della differenza sessuale (citare). E Nonostante Platone, rincara Cavarero nell’omonoma sua opera, sentiamo ancora il riso trillante della servetta tracia (straniera, e doppiamente – in quanto donna – al mondo della filosofia greca) che commenta con uno scoppio di ilarità, pieno di gusto del vivere, la rovinosa caduta del grande Talete nel fosso, anzi nelle viscere stesse della Terra, in seguito a una passeggiata notturna con mente e occhio immersi nella contemplazione del suo cielo. Si fa però strada, proprio sulla scorta della figura di Diotima di Mantinea, maestra di Socrate, l’idea construens della relazione come problematica categoria sempre perseguita dalla Donna pensante nella storia, anche se male accetta e incompresa: relazione variamente declinata (talvolta interpretata come agente e presentissima in Dio stesso) ma che Cavarero sintetizza così: per la Donna è il due, non l’uno, la più decisiva categoria d’azione e di pensiero. Categoria incarnata, che si dice in molti modi [cit.]. Esperienza concreta e vitale, più precisamente, che modifica l’uno e l’altro polo della relazione, senza affidarsi ad alcun solipsismo ma anzi accettando l’autoesposizione radicale all’altra\altro, e riversando a pioggia, sul mondo intero e su altre relazioni, la qualità incircoscrivibile e imprevedibile del contatto, della parola che apre.
Così ecco delinearsi una nuova ontologia, e una nuova (e arcaica?*) maniera di stare al mondo. Così la donna dice e canta le storie del mondo, come Sheherazade: che così, con parola intrisa di fantasia e di fiaba, salva se stessa e assicura continuità e vittoria al concetto stesso di femminilità e di vita perenne. Racconto è vita, dal ricordo della Shoà sino alla pedagogia della fiaba, dalla filastrocca lallante alla preghiera cantillata e ritmica. La Donna dice e racconta l’altra Donna, e l’altra se ne commuove*[Oh, sì: prima ancora della circostanza citata nel libro di Cavarero, posso evocarne almeno una di cui sono stata testimone, e di recente: un magnifico dispositivo di nuovo sapere e di musica ideato e curato da Donne al Conservatorio di Trento e Riva del Garda – il suo titolo è Presenze\Assenze, risonante di significativi echi e di vissuti, caro al lessico femminista – ha evocato, nell’edizione 2023, il fantasma di Camille Claudel: come e quanto abbiamo solidarizzato con il triste destino di questa meravigliosa e scomoda Donna, internata, umiliata, resa impotente a praticare la sua arte – la scultura: sono suoi magnifici capolavori (e non tutti a suo nome) – sentendone dolore e assurdità in sala, lì presenti, per merito e voce e sensibilità di Gabriella Medetti! Ebbene, Cavarero narra nel suo libro qualche cosa di analogo: una Donna è restituita alla vita e alla dignità stessa della sua storia da parole di verità dette da altra Donna, la quale racconta la storia della prima: e le due donne, chiamate (per convenzione) Amalia ed Emilia, stringono un legame e una assonanza resa possibile dalla parola che apre e fa essere. Questa, commenta Cavarero, è capacità di rivoluzione*.
Contro l’universale disincarnato, Tu che mi parli tu che mi racconti ripercorre una delle mosse simboliche più decisive della civiltà androcratica: l’elevazione del sostantivo Uomo a universale, atto a significare l’intero genere umano. Dove? Quando? Il luogo e il tempo sono mitici; il contesto è letterario, anzi tragico. E riguarda Edipo e l’enigma della Sfinge: e la sua soluzione, fatale nella sostanza linguistica e simbolica, rappresentata in famose pitture vascolari. Come è noto il Tebano rispose “l’uomo”, additando se stesso, all’indovinello che solo lui seppe dipanare. La risposta e l’atto del giovane eroe sanciscono e solennizzano una identità nefasta. L’universale-uomo compie il peggior peccato: è questa, forse, si chiede Cavarero, la vera colpa di Edipo? Ciò che provoca la sua cecità e contemporaneamente ne è sintomo? Risposta e atto difatti cancellano non solo l’altra metà del mondo, sussunta nell’universale-uomo, ma anche il sé particolare di Edipo: tale fatale rimozione sarà la radice della tragica vicenda del povero Re di Tebe, inconsapevole parricida e marito incestuoso, fratello e padre dei propri stessi figli. Nella critica che Cavarero e molte filosofe femministe muovono alla vicenda di Edipo quale mito fondante di una grecità classica marcatamente misogina, si fa strada, per contrasto, l’idea di corpo sessuato che parte da sé*, e così mette al mondo il mondo*, e fa della storica assenza una presenza plurima, da fare emergere, come da un mare di oblìo affiorano, con le loro chiome squamate e ibride, ancora memori di un passato mitico in forma di sapientissimi uccelli, mille scarmigliate sirene.
Con le Sirene torniamo ad A più voci.
Condannate dall’uomo a una vita marina caratterizzata da richiamo informe e però fatale per la ragione e il discernimento maschile, ridotte a strumento di seduzione e a fumetto, le Sirene sono ottimo spunto per illustrare rapidissimamente la demonizzazione progressiva e inesorabile e crudele del femminile e della sapienza sommersa che questo porta con sé. La sinuosità del corpo della Sirena nei suoi esiti più moderni – la sua parte inferiore è, sintomaticamente, pesce, animale degli abissi – contrasta con l’originario prestigio intellettuale e con la bruttezza fisica che caratterizzava l’augusto animale-donna nella sua origine pregreca: creatura dell’aria, la Sirena era dotata di vistosi artigli, e apriva le ali, e guardava, sapeva e diceva il vero [“Noi tutto sappiamo (idmen: dalla radice id di orao, “vedo”)” – dicono le Sirene di Omero]. * Curiosamente, e sintomaticamente, la Sirena sempre si accompagnata ad altre Sirene, e parla al plurale. La città delle sirene è dunque deposito della storia; esse – le antiche Sirene-uccello che viaggiano in stormo, dalla vista acutissima – attingono a una visione panottica che le avvicina alle Muse; e la Storia quelle Sirene costituiscono, e la mimano e la dicono, e la predicono, con chiare parole sapientissime e intonate. Avviene però la trasformazione: dapprima gli Uccelli sapienti si mutano in pericolose evocatrici di morte, e mangiatrici di uomini (letteralmente: se ne trovano crani abbandonati tra i sassi delle spiagge avvistate da Odisseo, che con il noto stratagemma sfugge al richiamo, già mortifero al tempo di Omero); poi in donne bellissime le cui essenza è una Voce inarticolata, un canto seduttivo, forse in attesa di redenzione (tramite lo sposalizio con l’uomo-parola-concetto?). E tuttavia l’appartenenza della moderna Sirena al regno delle mute acque e dell’inconscio ha storicamente la meglio. La abbiamo affondata – dicono.
Ora, togliere sapienza intrecciata a sguardo acutissimo, e capacità predittiva, e voce, è denuncia che si trova in molti luoghi: citiamo Carla Lonzi – Taci, anzi parla – e, oggi, la magnifica Michela Murgia – Stai zitta.
Per Cavarero si tratta di agro frutto di una eredità greca che grava su tutto il nostro pensiero occidentale. Non è così per l’altro versante, che pure informa di sé la nostra cultura, quello più radicale e disconosciuto, più femminile e asistematico, più vocale e paradossale: il versante ebraico. E’ vero: mentre per l’uomo greco la voce umana, sempre incarnata e cioè vibrante di una contingenza situazionale che non può mentire, è un resto, per l’ebreo, anche religioso ma non solo, è un’originaria eccedenza.
Nella tradizione ebraica, e più ancora nella mistica, Dio stesso è automanifestazione vocalica: Egli è ruah e qol originari: rumore, rombo di tuono, suono inarticolato, fiato e soffio intesi quali autocomunicazioni vocaliche della divinità. In questa prospettiva anzi è troppo umana la divisione chiara in concetti, destinata a essere superata e redenta in prospettiva messianica, con il guadagno di quella unità continua e superlucente in cui il lascito vocale di Dio consiste, e che, ora, non siamo in grado di sostenere. Per il pensiero filosofico greco la voce è – a rigore – veicolo di significati: questi precedono la fonazione e ne regolano e ne legittimano l’articolazione. Il pensiero greco esige – e tende disperatamente a – un affrancamento dal grido animale e dal mondo femminile, sempre pericolosamente prossimo all’urlo ferino (eppure, forse, come nell’Antigone-Uccello, quell’urlo è il solo a presentificare il dolore e dire l’indicibile; e la fanciulla-uccello è forse la più vicina a quelle creature mitiche che la sensibilità romantica di Robert Schumann saprà resuscitare: l’Uccello-Profeta abita i boschi e indica strade, e predice con battito sonoro d’ali, e sa, e redime la valle maledetta da incantesimi malvagi:….). Il pensiero greco sancisce la nascita al linguaggio in quanto taglio e cesura e castrazione, ed esorcismo del magico e dell’ipnotico. Così esso disegna una nuova pedagogia, e preferisce concentrarsi sul Detto piuttosto che sul Dire, e sull’oggetto ben fermo e presente, anziché sulla vitalità inafferrabile di ciò che muta e ci tramuta. A pioggia conseguenze su conseguenze.
Ora, si dà il caso che, secondo Cavarero, sia proprio la donna ad aprire i sentieri di una filosofia alternativa a quella greca tradizionale, legandosi per vocazione a certe pieghe della letteratura e dell’arte e del pensiero religioso, campi decisamente più disposti, rispetto alla filosofia tradizionale, ad accogliere il corpo, il materno, la categoria di relazione. E la voce: * Voce che è in sé verità, e non solo, né fondamentalmente, mezzo d’espressione di un vero in sé silente e autosufficiente; verità che è emozione e relazione, trasmissione concreta, narrazione, insegnamento e movenza indimenticabile, inflessione unica.
Il libro naviga quindi attraverso molti luoghi della filosofia: con l’intento non già di staccarsene, ma di completarla e arricchirla. Cavarero non teme il confronto con culture altre da quella occidentale, né rinuncia a uno sguardo critico nei confronti delle nostre rimanenze platoniche. Qualche esempio.
L’irresistibile eresia femminile.
La via di ricerca di Julia Kristeva è profondamente originale; bulgara, poliglotta, spinta da un padre anticomunista a studiare ogni sorta di linguaggio, e dalla madre (incredibilmente dotata) a legare i percorsi linguistici nientemeno che con l’astrofisica, da ragazza si trasferisce in Francia dove vive tuttora. Cavarero considera qui l’amplissima riflessione di Kristeva sulla lingua cinese e sulla strutturazione della mente e della categoria di relazione (pensata nell’accezione più ampia possibile: relazione all’essere, all’altro, alla propria e alla altrui lingua) a partire dal cinese pedagogico. Si tratta, come è noto, di una lingua caratterizzata da immensa proliferazione di immagini, finemente scolpite e simili a dipinti, che illustrano situazioni (ideogrammi) e insieme prescrivono toni di voce. Qui l’intonazione vocalica è amplissima: così è pure l’istinto mimetico, imitativo, che presiede a ogni apprendimento. L’orecchio si affina, ma è la lingua cinese a venire incontro al raggio immenso che la vocalità del bambino sempre istintivamente esprime. Ogni bambino, non solo cinese – ogni infante, potremmo dire – prima di parlare conosce uno stadio sommamente espressivo di una prelingua slegata dai significati, che mobilita potenze di tutto l’essere, essendo connessa alla gestualità e al corpo, e a quel motore che si chiama nominazione del mondo connessa a desiderio. La castrazione, a quello stadio, non è ancora avvenuta*. L’io è amplissimo, e così il suo raggio d’azione, che non ha incontrato limite: vi urta presto, soprattutto in occidente, però. E si assiste a una progressiva riduzione del raggio, costretto a forza entro corridoi sempre più stretti e dalla direzione obbligata, assicurati da pareti bianche altissime. possiamo guarire da un linguaggio comunicante e castrante insieme? O è questa castrazione a garantire civiltà e desiderio?
Il libro si immerge entro un quadro di profonde contaminazioni. La prima scena del quadro è il creole english dei deportati caraibici in Inghilterra: un inglese profondamente mosso da ritmi propri dell’uragano che “non urla in pentametri” e resiste a una lingua che “non ha l’intelligenza sillabica – né ritmica – per descrivere l’uragano“. Vibrare in sintonia con l’ambiente: così, nelle fantasiose inflessioni caraibiche, si forma la voce, unica e relazionale. “Gioco onomatopeico della parola attorno a cui si organizza il vocalico, madre dei significati, la lingua inglese ibridata, è costretta a vibrare in un metro che non prevede – piegata la vocalità persa la quale il senso è perduto, originariamente legato a quell’incantamento, al griot che vaticina a e canta. Chiasso, espressione totale, danza che connette, e respiro, risultano fattori più fondanti rispetto a una memoria storica affidata ai libri”.
Tra i capitoli che colpiscono: Quando si pensava con i polmoni. La fisicità del pensiero: donde viene? Pensamenti agili di slancio? Corrugar di fronte, come dice Oscar Wilde (e l’immensa Annette Von Droste-Huelshoff)? Oppure corpo, e bellezza (nella pregrecità:….)? Una cosa è certa, dice Cavarero: Walter Ong denuncia e propone una paraetimologia di noos-nous che avvicina mente a naso; e tale vicinanza renderebbe ragione sia della duplice declinazione semantica del verbo sapere (scio, sapio – rispettivamente: so dopo avere scorto; il cibo sa di sale), nominando ereticamente anche ciò che di sensoriale, sensuale e sensitivo cogliamo nel sapere (Cixous commenta: “Sono cresciuta a latte e parole”); sia della arcaica collocazione dell’organo legato alla comprensione al centro dell’organismo e non già nel cervello: il cuore\fegato – etor, epar – oltre a rappresentare il centro d’irradiazione di un fumo (thymòs) che con il respiro aziona pensieri e li fa circolare, conduce verso una profondità anche corporea del sapere, connessa alle emozioni e provocata e regolata da fatti eminentemente fisici.
Altro momento alto di A più voci riguarda la fenomenologia di un Platone di cui cogliamo contraddizioni interne e fecondissime: il Platone innamorato di Socrate e della sua voce – così l’Ateniese fa dire ad Alcibiade nel Simposio, ma è anche di sé che parla – e non già solo dei contenuti di verità da questi espressi. (Si fa strada qui un’erotica dell’insegnamento tutta da considerare, e attentamente, anche da parte di noi musicisti. Massimo Recalcati vi si è soffermato a lungo: ecco il maestro, la maestra: e cioè l’affetto, l’imitazione, l’eros, il tono, il timbro, lo stile indimenticabile che avvince e convince e salva). Il Platone, ancora, della Lettera Settima, convinto, a contrario rispetto a quanto da lui stesso asserito in altri e più numerosi luoghi, del fatto che verità si palesi non già in solitudine, ma tra phyloi e compagni di percorso: e la sua apparizione – dopo molte discussioni senza invidia, è fuoco improvviso e imprevedibile, e bagliore irripetibile; ed è esperienza collettiva, legata ad emozione e momento – e questi ultimi, l’emozione e il momento, non la sua solidità atemporale, sono i caratteri costitutivi della sua forza.