Prima parte della conferenza tenuta dal filosofo Santiago Espinosa al Festival A due voci 2023 dedicato al tema “Natura e Artificio” nell’ambito delle celebrazione per il Bimillenario della nascita di Plinio il Vecchio 

Volete voi vivere «secondo natura»?
[…] Con tutto il vostro amore per la verità,
vi costringete così a lungo,
con tale ostinazione, con tale ipnotica fissità di sguardo,
a vedere la natura per quello che non è.

F. Nietzsche, Al di là del bene e del male.

 

La parola “natura” fatica ad essere propriamente un concetto, intendo con ciò un termine la cui definizione sia chiara e designi rigorosamente un oggetto o un insieme di oggetti precisi, se non per opposizione ad altri (gli oggetti che chiamiamo “artificiali”). A ben vedere, il concetto di artificio, che si ha la tendenza ad opporre a quello di natura – ma non sempre -, proprio in ragione dell’ambiguità di quest’ultimo termine, sembra meglio determinato: è artificiale ciò che è fabbricato dall’uomo attraverso l’arte, l’industria, l’abilità (dal latino ars, artis). Quanto a natura, derivata da nascor, designa, già in latino, secondo il dizionario francese Gaffiot, sia “nascita”, “carattere”, “ordine stabilito delle cose”, sia “insieme dei fenomeni”. In altri termini, questo vocabolo rinvia simultaneamente a ciò che esiste indipendentemente dall’uomo, a una certa maniera d’essere dell’uomo, alla realtà tutta intera, e all’ordine che regna sovrano su quest’ultima. Insolita polisemia che permette di cogliere chiaramente uno slittamento grammaticale che fa passare sottilmente, non fosse che per riguardo agli ultimi due significati, dalla concezione di un mondo non-umano (insieme dei fenomeni) a una concezione perfettamente antropomorfica del mondo (insieme ordinato dei fenomeni).

Questa concezione confusa della realtà, a mezza strada tra natura e artificio, cioè tra una continua nascita indipendente da qualsiasi volontà – umana o divina – e una produzione volontaria e intelligente che imprime alle cose che vengono alla luce del mondo non soltanto un ordine ma soprattutto un senso, uno scopo, non è dovuta a una imprecisione della lingua latina di cui tutte le lingue che ne sono derivate sarebbero vittime; è una confusione che si trova, già a monte, in una buona parte della letteratura filosofica greca, – vedremo più avanti che cosa questo comporti – della filosofia greca post-socratica, il termine di φύσις per la filosofia prima di Socrate, rinviando specificamente all’insieme della realtà, a tutto ciò che esiste in maniera indeterminata, – così in Parmenide, Eraclito, Democrito, ecc.. Realtà della quale non si tratta di rendere conto in termini di ordine o di ragione, ma solo in quanto esistente, o essere, in opposizione, non all’artificio, ma a ciò che non esiste, al non-essere.

È la filosofia post-socratica che regnerà da allora per i millenni a venire, con le sue contaminazioni ebraico-cristiane, e in particolare quella aristotelica, che semina la confusione. Poiché la filosofia è passata, con Socrate e Platone, dalla questione che concerne l’essere, il reale (“che cosa esiste?”), a un’altra, molto differente, che ha a che fare con la verità (“che cosa esiste veramente?”), da lì introducendo nel pensiero per la prima volta il sospetto sull’apparenza della realtà – tragico -, che si presentava immediatamente davanti agli occhi dell’uomo che si interrogava – e si sa che Platone, per primo, afferma senza esitazioni che ciò che esiste non è ciò che appare, ma ciò che si nasconde dietro, nel “retromondo” dell’assoluto.

Questa duplicazione della realtà in mondo apparente e mondo vero è all’opera nella filosofia “naturalista” di Aristotele il quale, senza definire chiaramente la natura – o la “fisica” – le attribuisce alcune determinazioni che non la abbandoneranno più – anche in campo scientifico per come lo conosciamo oggi, e che pretendono che esistano delle “leggi fisiche” o “naturali”, o che “Dio non giochi a dadi”. A cominciare precisamente dal suo carattere provvidenziale: “la natura non fa niente invano”. La natura è dunque un insieme ordinato e razionale – o è piuttosto l’agente ordinatore e dispensatore della razionalità? – all’interno del quale ogni essere trova il suo posto e il suo significato, e anche ciascuna delle sue parti, essendo queste comprese solo nel quadro di una finalità che ne rende conto, gli esseri “naturali” assomigliano così punto per punto agli artefatti umani. Possiamo allora affermare che la visione teleologica della natura che Aristotele propone non è in fondo che un artificialismo ignaro di sé, poiché è sempre possibile rispondere alla domanda “perché?” con un “è per questo”, esattamente nel modo in cui risponderebbe un ingegnere a cui si domandasse perché ha messo questo o quell’ingranaggio nel suo meccanismo: “per questo”.

Ma la confusione si aggraverà, o piuttosto si confermerà, con il proliferare delle scuole filosofiche greche successive ad Aristotele, cioè, a voler credere a Nietzsche, dalla “decadenza” – quelle che saltano fuori poco dopo la scomparsa della tragedia attica, dopo l’invasione macedone, e che guardano con una certa nostalgia a un passato glorioso che non ritornerà più, in particolare l’epicureismo, lo stoicismo, il cinismo. Esse sostengono infatti tutte un “ritorno alla natura”, una vita “in armonia” con essa, come faranno da parte loro Plinio il Vecchio, Rousseau e buona parte del XVIII secolo, così come il “naturismo” del XX e l’ecologismo solastalgico del XXI secolo. È questa caratterizzazione della natura in quanto “armonia”, ma soprattutto in quanto armonia perduta – Plinio parla già della natura in termini di “eredità perduta” (perditus nepotatus) -, che è rivelatrice del vero ruolo, anzitutto morale, che gioca questo pseudo-concetto nello spirito umano. È da qui che è possibile trarre qualche conseguenza filosofica.

Poiché, infatti, cosa può ben voler dire “vivere in armonia con la natura”? Cos’hanno in comune queste scuole antiche che, a dispetto delle differenze dottrinarie che le rendevano uniche, raccomandavano ciascuna il “ritorno” alla natura perduta? E cos’hanno ancora in comune con questo stesso ideale romantico e postromantico, evidente ancora in Thoreau e in tanti altri autori contemporanei che ad esso si ispirano?

L’epicureismo raccomanda, come ognuno sa, di non desiderare che ciò che è naturale per l’uomo, di rinunciare ad ogni desiderio “artificiale”, rifiutando in questo modo ciò che si potrebbe chiamare, non la “natura umana”, questa fonte inesauribile di confusioni e di dibattiti sterili, ma piuttosto la specificità del desiderio umano, che è precisamente di nutrirsi del superfluo. Poiché il desiderio, qualsiasi cosa ne pensi Epicuro, non è una fonte di sofferenza che si tratterebbe di placare – concezione a cui giunge l’aspetto decadente, nel senso nietzscheano, della sua filosofia: in quanto tentativo di fuga sfrenata dal dolore -, ma si trova al contrario all’origine di tutte le vere gioie, come affermano da parte loro Spinoza o Hobbes, nello stesso momento in cui esso determina l’umanità in opposizione all’animalità. Poiché l’animale si accontenta di esistere, di provvedere ai propri bisogni, mentre l’uomo desidera: egli non vuole semplicemente essere, ma essere bene, egli vuole ben-essere. Così scrive Ortega y Gasset: “L’uomo non ha alcun desiderio di stare al mondo. Ciò che invece si sforza di ottenere è lo stare bene. Solo questo gli sembra necessario e tutto il resto è un bisogno solo nella misura in cui rende possibile lo stare bene. Pertanto, per l’uomo è necessario solo ciò che è oggettivamente superfluo.” (Meditazione sulla tecnica).

Perché? Perché l’uomo non sta bene “nella natura”, intesa qui semplicemente come ambiente, come “circostanza”. L’uomo non è “a casa sua” nel mondo; al contrario, la “natura” non è un mondo, un cosmos, ma un semplice ambiente che si rifiuta di rispondere al suo desiderio (a cominciare da quello di vivere all’infinito). L’uomo non viene dunque ad “abitare il mondo”, come pretende Heidegger, ma prima di tutto a creare un mondo, a creare un certo ordine nel quale il conforto che egli non trova nella natura nasce in modo artificiale. Criticando la nozione heideggeriana di abitare come “modo d’essere dell’uomo”, Ortega scrive altrove: « A mio giudizio, né l’uomo costruisce perché già abita, né il modo di stare ed essere dell’uomo nel mondo è un abitare. Mi sembra piuttosto il contrario – il suo stare al mondo è mal-essere e, allo stesso modo, un radicale desiderio di ben-essere. L’essere di base dell’uomo è una sussistente infelicità. È l’unico essere costitutivamente infelice ed è così perché sta in un ambito di esistenza – il mondo – che gli è estraneo e, ultimamente, ostile».

La filosofia di Epicuro è bene illustrata dal cartone animato Il libro della giungla e dalla canzone che tutti i bambini conoscono: La felicità costa poco, basta lo stretto indispensabile per vivere con serenità.” Certamente. Ma chi crederebbe a un simile proponimento? Chi risponderebbe a qualche infelice, poiché la sua amata l’ha lasciato, che basta mangiare una banana e bere un po’ d’acqua per stare meglio? Chi troverebbe che una vita, senza cinema, senza auto, senza riscaldamento, sia una “vita buona”? Comunque sia, si vede bene qual è l’orizzonte emozionale del ritorno alla natura: l’atarassia, l’assenza di dolore. La natura guarisce l’uomo dai suoi mali.

Stessa ingiunzione per gli Stoici, la cui parola d’ordine è ancora: «vivere in armonia con la natura», l’apostrofo indica tutto sommato che esiste al mondo una «armonia» in senso musicale: una simultaneità di suoni che producono un effetto d’insieme, e non solo oggetti singolari; un ordine quindi – lo stoicismo è un rampollo dell’aristotelismo – che governa l’universo, o il cosmos. Notiamo, ancora una volta, l’ambiguità: la natura è l’ordine che regna, o l’universo ordinato stesso? In fondo, poco importa qui, l’essenziale è comprendere che “vivere in accordo con la natura” significa sottomettersi al suo ordine, e più ancora al “destino” che essa pre-vede (poiché essa agisce in vista di un fine: l’insieme ordinato è in fin dei conti piacevole). Poiché la natura non fa nulla invano, le sofferenze dell’uomo non saprebbero essere gratuite; esse stesse hanno un senso, quale che sia quello che potrebbe apparirci a un primo approccio impenetrabile – idea che si ritroverà più tardi beninteso, nella dottrina cristiana. Il grande motto stoico “Imparare a vivere” non significa allora che ci si debba opporre a un mondo nel quale l’uomo viene a “nascere” senza scopo – il “cieco caso” -, ma al contrario pretendere che tutto sia stato previsto in questo mondo da una intelligenza che vede in anticipo il senso complessivo, e che non punisce senza ragione. Tale è la natura: non l’ambiente che si offre immediatamente ai sensi, dintorni insensati e imprevedibili, intessuti di circostanze particolari, ma un mondo obbediente a regole razionali, ricorrenti e inoltre premurose. Bisogna sì, dunque, sopportare i mali, ma perché in ultima analisi essi non sono che apparenze ingannevoli del bene, non essendo il mondo umano del disordine altro che una manifestazione dell’ordine divino, non essendo il mondo tragico che si offre immediatamente ai sensi altro che un’espressione del mondo non tragico che l’intelligenza arriva a comprendere, e soltanto, in conseguenza di questa comprensione, ad approvare.

Quanto ai Cinici, che aspirano a “ritrovare” la natura corrotta dall’artificio – la società -, essi consegnano certamente l’ultima chiave dell’enigma. Tutti conoscono le pratiche di un Diogene, che ebbe l’audacia di esigere da Alessandro Magno che si facesse da parte dal “suo sole”, che si masturbava sulla pubblica piazza, che, andando su e giù per le vie affollate di Atene, “cercava un uomo”, intendendo con ciò che non scorgeva, come Artaud o Thoreau venticinque secoli più tardi, se non automi, uomini artificiali, formattati dalla società, avendo giustamente perso la loro «natura».  Ventitré secoli prima di Rousseau, ben prima del mito del “buon selvaggio” che continua a perseguitare l’uomo che si pretende “civilizzato”, ma per lamentarsene, i Cinici condannavano la società umana in quanto corruttrice della natura, come fonte di decadenza di un’umanità migliore, come origine della sua debolezza e dei suoi vizi. Si suppone che la natura abbia fornito all’uomo la forza per resistere, la società l’abbia portata via; questa gli ha dato la capacità di godere, questa gliel’ha tolta Ritornare alla natura significherebbe allora rompere con l’artificio della convenzione, con la codificazione delle usanze, con la cultura insomma. Sarebbe ritrovarsi infine se stessi, dietro le maschere che la società ci obbliga a indossare.

Si riconosceranno senza dubbio, nelle dottrine qui esposte sommariamente, parole angosciate che non cessano di ritornare ai giorni nostri, in particolare a partire dagli Anni Sessanta. Il “naturismo”, l’assimilazione del potere all’oppressione, la ricerca frenetica dei mezzi per “liberare” la sessualità, sembrano altrettante espressioni di questa idea che la natura umana è inibita, controllata, repressa dalla civiltà, o piuttosto dalla cultura, alla quale ormai bisogna naturalmente opporsi. Oggigiorno, filosofi che si dicono edonisti (epicurei) si rifanno apertamente alla filosofia cinica – cioè alla parentela delle due scuole -, immaginando così che il loro godimento sessuale possa essere finalmente liberato dalle tare della morale cristiana che, secondo loro, li soffoca crudelmente, come già sostenevano i filosofi della French theory che sostenevano che accusando la «repressione» nelle scuole, negli asili, negli ospedali, sarebbero riusciti a rendere l’uomo veramente «libero» dal potere, e così, infine – ed ecco il termine che spiega tutto, ma anche nulla – felice.

Ecco, quindi la parola fine in questa storia, o in questa confusione: le bonheur, la felicità. Felicità che, per la precisione, brilla per la sua assenza nella vita degli uomini sulla terra, quantomeno nella sua accezione ordinaria (come assenza duratura di preoccupazione, di dolore, di sofferenza). Ma allora perché, ci si domanderà? Perché l’uomo non è decisamente felice, quando è l’unico animale a volerlo essere? È esattamente qui che interviene lo pseudo-concetto di natura, così come esso compare dopo l’avvento della filosofia socratico-platonica, che è la prima a far risaltare la felicità e allo stesso tempo a promettere il suo raggiungimento, attraverso la via della “virtù” e della “conoscenza”, pseudo-concetto il cui unico ruolo è di rendere conto dell’assenza, considerata come temporanea (non essendo del resto il tempo niente affatto reale), di quest’ultima. 

Perché se la felicità non è qui, non è, si pensa, perché è una chimera, i desideri umani non possono per definizione trovare soddisfazione reale e duratura; no, è piuttosto perché la natura è stata pervertita, corrotta, perduta. Per questo la natura non può essere che un concetto negativo, cioè un non-concept: se la natura fosse lì, saremmo felici; ma ecco, è andata, e la nostra felicità con essa. In modo che il termine di natura, invece di designare qualcosa, lo ripeto: un oggetto, un insieme di oggetti, anche uno stato delle cose, indica al contrario dei non-oggetti, dei non-stati-delle-cose. La natura è, insomma, ciò che non è, o piuttosto non è più. Ma ancora? Che cosa è esattamente ciò che non è? Qual è questo «stato delle cose» che fu e non è più?

A queste domande, come ad ogni domanda sul non-essere, il possibile, l’altro mondo-, non c’è, non ci può essere una risposta precisa, perché questo «altro» del reale in cui si trova, per una sfortuna straordinaria, la felicità dell’uomo non è proprio nulla, nient’altro che una fantasma, o piuttosto una pura illusione, e la caratteristica stessa dell’illusione è di non essere pensata né pensabile.

Altra cosa è pensare che la felicità non è di questo mondo, non avendo il desiderio dell’uomo una presa in seno ad una realtà tragica – dove la morte, la malattia, il fallimento, ecc., regnano da padroni, come tutti ben sanno, ma soprattutto dove, come dice Sofocle, il «Tempo governa tutto», abolendo con il suo passaggio ogni cosa per sempre -, altra cosa è fantasticare che la felicità è reale «comunque» – anche se si trova malauguratamente altrove, come lo spirito romantico ama ripetere. Perché questo altrove non designa un luogo in cui basterebbe andare, ma, anche qui, un non-posto, un non-luogo, tutto il resto evapora a favore del qui a partire dal momento in cui ci si trova. Non esistono realtà altrove, esistono solo qui dove la felicità non risponde mai alla chiamata.