Seconda parte della conferenza tenuta da Santiago Espinosa al Festival A due voci 2023 dedicato al tema “Natura e Artificio” nell’ambito delle celebrazione per il Bimillenario della nascita di Plinio il Vecchio
Ora, appunto, la nozione di natura assicura il duplice ruolo che consiste nell’affermare che la felicità è reale ma, nello stesso tempo, a svalutare la realtà stessa, che si ostina a tenere da parte la prima, avendo preso il posto della natura. Se la natura non è ciò che è ma “ciò che si perde”, come mostra Rosset ne L’Anti-natura, allora ciò che è, il reale, non è ciò che “doveva essere”: il posto è stato usurpato. Il mondo come avrebbe dovuto essere, in cui ci si aspettava che l’uomo fosse felice, alla fine risulta essere solo questa tragica realtà, in cui non lo è. Questo non è normale, c’è stata una malversazione; ma soprattutto ci deve essere qualcuno responsabile dell’usurpazione e della disgrazia che ha causato.
Si vede così il carattere allo stesso tempo metafisico e morale dello pseudo-concetto di natura. Metafisico: il reale non è dunque unico ma duplice: quello che è e quello che era e non è più, che coincide del resto con quello che doveva essere e non è. Non c’è un tutto (tutto quello che c’è) ma due, c’è qualcos’altro oltre a quello che c’è. Ma questa duplicazione metafisica, a cui Platone ci ha abituati, è sempre accompagnata da un correlato morale: qualcuno è colpevole del saccheggio. Se il reale, o l’artificio, il «tutto» ciò che è, ha preso il posto della natura, o ciò che doveva essere, questo non è senza spiegazione; bisogna allora trovare il responsabile. Ancora una volta, ciò che non può essere, dal punto di vista morale, è che la sofferenza sia gratuita. Non è «naturale».
Questo colpevole ha naturalmente molte facce. Per i Cinici, Plinio il Vecchio e Rousseau, per esempio, è la società. La bontà naturale dell’uomo fu pervertita, paradossalmente, dal contatto con altri uomini naturalmente buoni ma diventati proprietari. Così divenne triste. La sessualità senza ostacoli che permetteva a tutti di godere a proprio piacimento, e di trovare così la propria felicità, fu limitata dalla società che impose delle norme, pensò Diogene molto prima dell’avvento della morale giudaica-cristiana, alla quale si imputò in seguito il ruolo di castratrice. Eliminiamo il monoteismo, e ritroveremo il godimento generale di cui ci priva, proclamano ancora alcuni atei convinti che lo scopo delle religioni è di trasformare gli uomini in frustrati sessuali.
Per altri, non è la società in sé che si sostituisce alla natura, ma solo la società «civilizzata», per cui bisogna intendere certamente l’Occidente, in opposizione alle società «selvagge», non ancora contaminate dalla tecnofilia e dall’economia liberale. Il «buono selvaggio» è l’uomo vicino alla natura, è felice; l’uomo bianco è colui che distrugge la natura, la sua (snaturandosi, perdendo se stesso) e quella che lo circonda (perturbando l’ordine delle cose), è l’artefice della sua sventura. La ricerca di colpevoli si accompagna qui a un desiderio profondo e senza dubbio inconscio di autoflagellazione: il mea culpa. Perché solo l’uomo bianco è capace di produrre un tale discorso: non si è mai sentito o letto di «selvaggi» che si considerassero «cattivi» a confronto del «buono civilizzato» i cui modi raffinati mostrerebbero chiaramente la propria barbarie. Mai uno dei “cannibali” si prenderebbe la briga di scrivere un capitolo sui “civilizzati” per denunciare la relatività della morale, e soprattutto per accusare i propri come troppo limitati!
Evidentemente, questo ruolo del colpevole è giocato da molti personaggi: alla lista che contiene concetti più o meno astratti, come la società, la cultura, il mondo occidentale, il patriarcato, l’economia liberale (a cui Bourdieu oppone una “economia della felicità”), ma anche l’automobile con motore a scoppio o l’energia nucleare, e persino, se dobbiamo credere all’ideologia “antispecista”, l’essere umano tout court, si aggiungono più in generale – in particolare con l’avvento di quella che alcuni hanno recentemente chiamato la « religione woke[1] » – tipi di individui come l’uomo bianco, il maschio (specificamente bianco), l’eterosessuale, l’adulto, tra altri personaggi la cui caratteristica comune è di non essere quello che è colui che giudica a partire dalla sua sofferenza, cioè la presunta vittima.
Il sogno di una vita in armonia con la natura si accompagna ai nostri giorni – e questo dimostra chiaramente quale sia stato da sempre il delirio che implica – la volontà di rinunciare non solo alla cultura, di cui l’umanità è indissociabile, ma addirittura a quest’ultima, l’umanità stessa: una teoria del genere aspira ora a fondersi in un «maelstrom [vortice] di natureculture» e ad unirsi alle forme più semplici della natura vivente, «il riso, le api, i tulipani, la flora intestinale e ogni altro tipo di organismo al quale l’esistenza umana deve essere quella che è, e viceversa[2] ».
In una parola, il termine di natura non viene mai invocato se non nel quadro di un giudizio morale, sia per accusare la realtà (che ci priva della felicità) sia per far conoscere i colpevoli. Ci sono state date lucciole per lanterne, del reale al posto del naturale, del tragico al posto della felicità – qualcuno deve rispondere. E una volta trovato il cattivo, sopprimerlo, così l’ordine sarà ristabilito, e la felicità tornerà. In breve, «vivere in accordo o in armonia con la natura» non ha mai voluto dire, nella bocca dei filosofi della Grecia tardiva, o in quella degli hippy, nient’altro che «vivere finalmente felici».
Per questo ci è sembrato importante sottolineare che il termine natura si è confuso, non segnalando una realtà ma piuttosto un’illusione della mente, nella tarda filosofia greca. Perché, come ho detto sopra, prima della filosofia di ispirazione platonica, oggetto della filosofia è la φύσις, l’oggetto della filosofia, cioè di “tutto ciò che esiste”, essendo nella sua interezza, e ciò che esiste è tutto ciò che c’è: il reale non è venuto a sostituirsi a un possibile (migliore), e nemmeno al nulla, concetti perfettamente inintelligibili, se analizzati attentamente; ancor meno è una copia difettosa di un altro reale razionale e vero. Questa duplicazione del reale in essere-minore e essere-pieno, di cui Platone è l’artefice, che ha come ragione confessata di «fare una scienza», si raddoppia essa stessa di una ragione inconfessata che consiste nel disprezzare la realtà immediata, che lo stesso Platone chiama «apparente» intendendo con ciò, non il fatto che il reale appare immediatamente ai sensi e con ciò alla coscienza, ma che sembra essere vero senza esserlo. Le apparenze sono ormai fuorvianti, conviene allontanarcene. Leggete: conviene allontanarsi dal reale. E se il reale è ingannevole, è perché non è quello giusto, il buon reale è proprio quello che non appare. Da qui la politica utopistica, o piuttosto irrealistica di Platone: alla città reale (Atene), Platone contrappone nella Repubblica la «città vera» (libro II), poi la «bella città» (libro VII), governata dal filosofo-re (o piuttosto il moralista che solo dovrebbe conoscere l’idea del bene); sempre all’Atene reale, Platone contrappone nel Timeo un’immaginaria Atene primitiva, di cui il Crizia afferma fosse una «città giusta e virtuosa». Infine, le Leggi espongono il progetto legislativo di una città felice, tutto contrario della città reale, infelice. Si vede, lo sdoppiamento del reale avviene con un fondo morale che consiste non tanto nel dire che c’è un altro reale più vero, quanto nel pretendere che il reale in cui ci si trova è falso – perché immorale, perché tragico. Da qui l’idea socratica per eccellenza, che Nietzsche fu il primo a criticare chiaramente, secondo la quale la conoscenza del «vero» si accompagna a «virtù» e conduce alla felicità – il vero non coincide affatto con il reale, e la virtù consiste nell’evadere da esso («Torniamo nella nostra cara patria!»).
Niente di simile, dicevo, nella filosofia prima di Socrate, che assimila la φύσις alla realtà così come appare, come fa anche, nel XII secolo della nostra era, il filosofo buddista Dōgen cercando di far comprendere la «natura» del Buddha, o «natura-buddha » «Si può parlare in questi termini di ciò che c’è, di esseri sensibili, di vite in numero, di molteplici specie, ma dire senza eccezioni c’è questo, è [convocare] la totalità di ciò che c’è e c’è in tutte le sue forme.» Realtà è il nome che si dà alla totalità delle cose che appaiono senza intermediari, non appena si aprono gli occhi, questa apparizione non nasconde nulla, non sostituendosi a nulla, non essendo altro che se stessa. Ed è proprio questo il problema dell’uomo: perché c’è solo quello che c’è, nient’altro dove trovare un oggetto di desiderio capace di colmarlo, nient’altro che la realtà passeggera che si presenta solo per un istante, prima di diventare altro, cioè l’esistenza nel tempo che distrugge tutto, noi compresi, e prima di tutto. Il termine apparenza qui non ha nulla di un falso, di un’apparenza che si opporrebbe all’essere, al contrario, apparire vuol dire essere nel tempo, o anche essere-tempo – ciò che il giapponese designa in una sola parola, sotto la penna dello stesso Dōgen: Uji – come questa « éloise » [un lampo] di cui parla Montaigne: «perché prendiamo a giustificazione del nostro esistere quell’istante che non è che éloise nel corso infinito d’una notte eterna, e un’interruzione così breve della nostra perpetua e naturale condizione, mentre la morte occupa tutto il prima e il dopo di questo momento, e anche una buona parte di questo momento?» (Saggi, II, 12).
Niente è, tutto appare e scompare. Il reale è questo solo apparire, ed è proprio in questo che è tragico, poiché «tutto agita», come scrive ancora Montaigne, tutto invecchia, tutto muore: «ogni contentezza dei mortali è mortale». Anche in Parmenide, che passa erroneamente, dopo il «parricidio» platonico, per il pensatore di un essere astratto, immobile e immutabile, l’essere non è in nulla diverso dalle cose che sono, che appaiono, che passano, in tutto diverso dal non essere che, appunto, non appare né può farlo, in cui Parmenide si avvicina al suo presunto antagonista, Eraclito.
Questa vena «tragica» della filosofia, che si trova di fatto, almeno in parte, nella sua origine, e che la metafisica si è sforzata di soffocare, senza successo, da venticinque secoli, si ritrova in molte filosofie posteriori a Platone. Ad esempio, in Lucrezio, che compone un poema intitolato De Rerum natura per ricusare proprio l’idea di una «natura» come l’intendono le scuole menzionate sopra: pensiero del caso, il materialismo di Lucrezio mostra che la mescolanza degli atomi che produce le forme visibili non obbedisce ad alcun ordine prestabilito, non risponde ad alcun piano razionale, è quindi casuale e contingente, ogni cosa al mondo non è allora una «natura» ma un aggregato casuale di atomi che mantiene una forma per una certa durata, un fœdus naturai, un «contratto» provvisorio della natura – e non, come in Aristotele, una «forma» eterna, immutabile e razionale che viene a determinare la materia
Insomma, come ha dimostrato Rosset, «natura», in Lucrezio non designa un sistema, caratterizzato da un principio, che rende ragione della produzione naturale, dell’«origine» delle cose, ma solo la somma delle cose di cui nessuna ragione può rendere conto[3].
Nessuna trascendenza, nessuna provvidenza presiede alla nascita delle cose – «natura» qui non è altro che nascor, il solo principio che regna alla nascita delle cose essendo sponte sua forte: spontanea (facoltà immanente di organizzazione) e rischiosa: «Pensa soprattutto che il mondo che noi conosciamo lo ha fatto la grande natura le cui parti primarie, unite in mille maniere nel movimento incessante per il solo caso [sponte sua forte] alla fine riuscirono a combinarsi tra loro per questa grande creazione della terra, dei mari, del cielo e delle specie viventi. » (De Rerum natura, II, v. 1055-1061).
Si convocherà anche la filosofia di Spinoza, che identifica, come è noto, Dio e la Natura (Deus sive natura), e più precisamente la realtà. Questa associazione, che ha guadagnato a Spinoza la reputazione di ateo, equivale a privare l’insieme di ciò che esiste di ogni idea di finalità e anche di necessità: nessuna ragione spiega che esiste un mondo, nessuna trascendenza può rendere conto del reale, poiché proprio il reale, la natura e Dio sono la stessa cosa, oltre a ciò non c’è nulla.
Si potrebbe ancora ampliare la lista dei filosofi che Rosset ha chiamato «artificialisti», dall’antichità ai giorni nostri, a cominciare dai Sophisti, dagli Atomisti, poi Montaigne, Machiavelli, Gracian, Pascal, Hobbes, per arrivare infine a Nietzsche, Ortega y Gasset e Rosset stesso. E si potrebbe fare la lista dei filosofi naturalisti, che bisogna quasi sistematicamente associare ai moralisti, le cui opere sono talvolta solo risposte più o meno indignate a quelle degli artificialisti (Rousseau per esempio), che si tratti di condannare o addirittura di tacere (si ricordi Platone che voleva bruciare in piazza i libri di Democrito, e arrestato in extremis da un amico che lo convinse che era «troppo tardi»). Ma sarebbe una seccatura. Basti notare che quello che si può dunque chiamare «artificialismo» è la considerazione della realtà in quanto non antropomorfica, e viceversa, che il «naturalismo» non è altro che il punto di vista antropomorfico della realtà.
Questo è infatti il nocciolo duro della nozione di natura, l’idea che la realtà deve rispondere alle aspettative umane di razionalità, di finalità, di significato, di giustizia. Ciò che è deve dunque rispondere al desiderio umano – ecco l’origine che Freud attribuiva alle nostre idee religiose: delle «illusioni» (e non necessariamente degli «errori») che trovano la loro forza e la loro fonte nei desideri più primitivi e da sempre insoddisfatti e irrealizzabili dall’uomo. Da qui il loro carattere inestirpabile: la credenza religiosa passa senza problemi da ogni informazione sensibile o razionale, accettando senza preoccupazioni il carattere assurdo dei dogmi, purché sia mantenuta la promessa dell’avvento della felicità. Per questo gli dèi creatori – e gli dèi pagani non lo sono – perché sono delle proiezioni antropomorfiche: è stato necessario che l’essere, la realtà, fosse opera di una sorta di uomo, chiamato «demiurgo» da Platone; creazione intelligente e volontaria che non lascia nulla al caso, che pianifica prima di mettersi all’opera, che «vede» il risultato prima di realizzarlo. L’abbiamo visto, per il pensiero naturalistico, non c’è solo quello che c’è, quello che c’è è l’effetto, o il riflesso, di un’altra realtà che non è, e che si confonde con la natura. Questa nozione di natura non differisce in nulla, si vede, dall’idea, molto più chiara e distinta, di dio. E il fatto che oggi si cerchi di «dargli dei diritti», come se la natura fosse una persona giuridica, anzi, una «persona morale» – nei due sensi del termine -, come affermano alcuni giuristi raccomandandosi ad uno strano «animismo giuridico» che difende gli «interessi non umani», mostra bene la confusione mentale. Perché di due cose l’una, o la natura non è proprio nulla di umano, nel qual caso non è una persona giuridica capace di avere diritti e doveri, né ha «interessi» come se ella riflettesse su ciò che è bene per lei prima di mettersi in atto e far nascere cose, o è una persona giuridica come le altre, cioè gli uomini, una «Madre natura», una «Madre Terra» o Pachamama, e in quel momento non si tratta, come pretendono questi giuristi, di una «vera rivoluzione copernicana che scuote la visione antropocentrica del mondo», bensì tutto il contrario. Il fiume Whanganui della Nuova Zelanda è stato riconosciuto nel 2017 come personalità giuridica, cioè come essere umano, e questo secondo gli stessi Maori che lottarono per più di un secolo per ottenere questo status:: «Siamo intimamente collegati all’acqua del fiume che attraversa il nostro corpo, noi siamo il fiume[4]. »
Il cosiddetto pensiero naturalista non è che un ritorno, sempre confuso e allucinatorio, all’antropocentrismo più ingenuo, come quello di Teilhard de Chardin, il cui finalismo voleva che i meloni fossero striati in modo che gli uomini potessero mangiarli con le loro famiglie. Con questa differenza che l’antropomorfismo religioso non è necessariamente accompagnato, come l’antropomorfismo naturalistico, dall’idea di colpa dell’uomo. Dal pensiero cristiano, ad esempio, è possibile trarre una concezione anti-moralizzante del mondo, come quella di Agostino, che condanna tra i primi l’idea che Dio possa creare qualche male, in cui sarà seguito da Montaigne e Leibniz, tra gli altri. Ma il pensiero naturalistico è, all’opposto, un pensiero risolutamente morale: il concetto di natura, che abbiamo visto che è negativo, appare come una parola passe-partout, o anche un tappabuchi, che non ha altro scopo che spiegare l’origine del male, e di indicare l’uomo come responsabile. Così scrive Rosset: “L’idea di natura non è mai pensata, ma solo contrapposta ad un certo numero di fatti, di atteggiamenti, di eventi, che la sensibilità di certi uomini rifiuta: espressione quindi di un disagio più che di un’idea, che autorizza lo spostamento intellettuale attraverso il quale arriviamo a dire che trasgredisce la natura tutto ciò che, di fatto, si oppone al desiderio.
La funzione ideologica dell’idea di natura si raddoppia e si rafforza qui di un’eminente funzione di ordine morale: permettendo di pensare, non solo una metafisica, ma anche, e forse soprattutto, la colpevolezza. La natura è considerata gioco di forze spontanee e innocenti, preliminare ad ogni degrado a causa dell’artificio. La duplicità dell’idea di natura si precisa e si completa: la natura è un nulla (cosiddetto “forza”) da cui si pensa l’autonomia umana, ma anche un nulla (ritenuto “innocente”) da cui si può pensare la colpevolezza degli uomini» (L’anti-natura). Al contrario, basti pensare alla morale kantiana che, nella Critica della ragion pratica, attribuisce l’origine del male al fatto che l’uomo lascia libero corso alle sue inclinazioni naturali (la «facoltà inferiore di desiderare») piuttosto che alla sua ragione, che «umilia», pur sostenendo, nella Critica del Giudizio, che la «natura» è teleologica e permette quindi di sperare che Dio esista. O, più vicino a noi, Luc Ferry che, molto vicino all’universo mentale di Kant, non esita a contraddirsi affermando, nello stesso libro (Imparare a vivere), che il bene è la «lotta della libertà contro la naturalezza in noi», insieme a «la scelta del male sembra appartenere ad un ordine diverso da quello della natura». In altre parole, la natura è sia il male in noi («forza»), contro il quale dobbiamo lottare, sia il bene in noi che non scegliamo (« colpevolezza[5] »). Quindi era naturale che l’uomo fosse buono, ma non lo è; ma se non lo è, è perché non combatte abbastanza contro la sua natura. Capisca chi può.
Insomma, il termine di natura non significa nulla, non designa nulla, nient’altro che uno stato affettivo dell’uomo che, deplorando la propria esistenza perché tragica, rifiutando il fatto che sia l’unica che gli viene offerta, si illude di credere che da qualche parte c’è un ordine secondo il quale tutto dovrebbe essere giusto e gioisce nel pensare se stesso come artefice della sua sofferenza, opportunità per il moralista – l’unico a pensare così – di accusare alcuni uomini o tipi di uomini di questo stato infelice delle cose. Agli antipodi di questa logica sia vittimistica che deleteria si troverebbe, ad esempio, il pensiero di Machiavelli che parte non solo dal principio, da buon filosofo della politica, che non c’è al mondo né bene né giusto, e che spetta al principe determinare, per legge, queste nozioni, fonti di molti conflitti, ma soprattutto che non c’è nemmeno «natura», né umana – l’uomo non è «naturalmente» né violento né docile, né ribelle né sottomesso: è variabile, «ingrato, mutevole, nascosto, timido», e in definitiva imprevedibile – né della realtà, essendo quest’ultima solo un intreccio di circostanze uniche e anch’esse imprevedibili che spetta al buon principe di saper apprezzare e cogliere (ciò che i Sofisti chiamavano καιρός).
Questa è la vera «virtù», non solo del principe ma dell’uomo forte, che, invece di agire per principio – per «moralità» -, sa che, «in questo bordello dove teniamo il nostro posto», come dice il poeta François Villon, è inconcepibile determinare a priori quale sia la giusta azione da intraprendere; chi sa far fronte ad una realtà in contraddizione con i suoi desideri; chi vi trova persino il proprio tornaconto, rifiutandosi ogni evasione del mondo nel paese delle chimere, e soprattutto a considerare se stesso una vittima, in altre parole, troppo debole per accettare il tragico. Rinunciare allo pseudo-concetto di natura, significa dunque riconciliarsi con il reale, accettare che non c’è che lui, e temprarsi a sufficienza per infine approvarlo. La felicità non si trova alla fine del cammino, ma la vera gioia si trova solo percorrendo questo cammino.
[1] Jean-François Braunstein, La Religion woke, Grasset.
[2] Donna Haraway, Manifeste des espèces compagnes, cit. par Braunstein, op. cit., p. 83.
[3] Rosset, Logique du pire, PUF.
[4] Ibid.
[5] Va notato che la nozione di “libertà”, o “libero arbitrio”, pietra di paragone di tutte le forme di moralità, soffre della stessa indeterminatezza, se non della contraddizione fondamentale. Perché o la libertà è lotta contro la natura che è in noi “cattiva”, oppure la libera scelta del male non è naturale – ma non entrambe le cose insieme!