Che Ivo Pogorelich sia un problema per il mondo della interpretazione musicale è certo.
Impostosi da giovane come ragazzo modernissimo e, a suo modo, ricco di fascino esotico – occhio lungo e sguardo leggermente perverso, gesto icastico e presenza fisica – si era reso famoso al Premio Chopin per le scelte interpretative fuori linea ma convincenti, per la personalità magnetica e per la singolare polemica che lo vide protagonista: Martha Argerich si era opposta alla sua eliminazione dalla Competizione, e dimessa per protesta dalla nobilissima giuria, che comunque lo estromise prima della Finale [1].
Ivo Pogorelich però era dotato e interessante, e faceva pubblico: e fu notato e cooptato immediatamente da impresari, produttori, case discografiche, teatri.
Altissimo, capelli ribelli e fare provocatorio, si muove sin dai primi anni di carriera in veste di contestatore, deciso, sembra, a far notare la sua personalità: al culto impegnato delle sperimentazioni avanzate risponde che per lui “la musica moderna per lui finisce con Bartòk“, e si spinge solo sin lì; sposa – dando scandalo e innescando ipotesi fantasiose sul movente profondo della scelta – la sua insegnante, Aliza Kedzeradze, che lascia marito e figlio per amore del giovane serbo; soprattutto, interpretando al pianoforte, gestisce i tempi – e la qualità del suono, che ne è funzione – in maniera tale da deviare a ogni piè sospinto dal solco della tradizione. E deve essere stato questo il profondo motivo della sua eliminazione dallo Chopin nel 1980 – quella stessa eliminazione che fece scalpore e decretò il suo successo internazionale quasi immediato.
Ecco il Rudolph Nureyev del pianoforte in una memorabile, e contestatissima, performance della Sonata di Chopin op. 35:
Pogorelich colpisce anche in forza della gestione del suo aspetto, dell’abbigliamento, della postura (“Come osa venire avanti con mano in tasca?!” – dice un membro della giuria – e il pubblico, diviso tra gli affascinati e i piccati, concorda).
Zimerman, che aveva vinto lo Chopin cinque anni prima – edizione 1975, a soli diciotto anni – e che incarnava una certa solida tradizione mitteleuropea, e polacca in particolare, faceva così la parte del “reduce dalla prima Comunione”, e lui, invece, dell’incommensurabile di cui si attende, ogni volta, il trionfo (entrambe le espressioni, argutissime, sono di Piero Rattalino). Si capirà dopo pochi anni quale sia il potenziale e la personalità di entrambi, e Pogorelich è certo, dei due, il meno fecondo, il più discutibile, il più divo, forse il meno colto.
A guardare da vicino, però, la parabola della sua evoluzione, Pogorelich pare artista e uomo degno del massimo interesse: soffre autenticamente quando la sua eccellente insegnante, e amata moglie, muore prematuramente. Una crisi musicale ed esistenziale lo avvolge e lo trascina in una secca dalla quale fatica a riprendersi. Vi riesce dopo tempo, e assenza dalle scene, in vero lutto: ma si approfondisce – una volta stabilitosi tra Londra e la Scozia – nelle scelte musicali che Alice deve avere ispirato o autorizzato.
Georgiana, allieva di Siloti, grande pedagoga, la vediamo insegnare al giovane Ivo qui, senza suonare quasi una nota, ma con intenti chiari e gesti ieratici, impegnata a evocare la nobiltà della scuola georgiana, ungherese e russa, di cui è erede insieme a Pogorelich: ne ricorda qualche deficit di impostazione, nei primi tempi della conoscenza. La loro storia d’amore è presente sullo sfondo, e vive accanto all’autorevolezza di lei, che lui ascolta e segue senza riserve, con assoluto rispetto, bevendone la linfa con una certa devozione grata [2].
I tempi, dicevamo: sono una inquietante caratteristica di Pogorelich. Perché trattare così il Primo dei Due Poemi op. 32 dii Skrjabin, dilatato oltre ogni dire (sette minuti contro i tre-quattro di quasi tutti i pianisti), e così la Sonata di Liszt, dalla durata improponibile pari quasi al doppio delle comuni esecuzioni? [3].
Quale il rapporto di Pogorelich con la volontà e il lascito del Compositore?
Quale il rapporto con lo stile, con la scia di interpreti che lo precede, anche: questioni difficili, che il pianista affronta nelle interviste con la sicurezza selvaggia e sprezzante dell’aristocratico venuto dall’Est, ultimo testimone di una propria, cavalleresca oikeiosis:
E’ l’ultimo testimone di un mondo che fu e si perse: mondo fatto di vita memorabile, di nobiltà di modi assolutamente non legata a denaro né politica – cui l’arte è infinitamente superiore, e solo segno di aristocrazia? Pare di sì: è esigente nei confronti del pubblico, e pretende attenzione, credito, tempo: notevole questa breve intervista da seguire per intero.
Interpretativamente parlando egli sembra mosso da una doppia esigenza: assicurare a se stesso un approccio strutturalista alla musica, dunque astorico e assoluto; e nel contempo, e in forza di ciò, vivere la musica in modo sorgivo e originario. Viola dunque rapporti e senso, e rovescia consuetudini espressive che, prima di lui, si davano per imprescindibili. Quali le sue fonti, i suoi modelli? Glenn Gould, Maria Yudina e i Russi più originali e problematici; e infine, certamente, la scrittura infinitamente razionale e dionisiaca di Skrjabin. Come loro, sia pure a suo proprio modo, Pogorelich rifiuta movenze di sentimento e di maniera nella interpretazione.
Distrugge così anche la storia, che si condensa nell’atto, senza domani ma incredibilmente intenso e tutt’altro che innocuo, del concerto, per lui fatto serissimo e sacro.
E’ depositario di un raggio – l’ispirazione – che talvolta lo visita, cui egli si prepara talvolta per anni, riempiendo la partitura di segni di segni, accumulati a strati di vari colori, testimonianza della sua stessa storia di interprete, come lui stesso dice a proposito della inesausta ricerca sulla Seconda Sonata di Rachmaninoff:
“Nel momento della registrazione il mio scopo era unire il pezzo, liberarlo dal cattivo gusto, rimuovere le incomprensioni sulla musica di Rachmaninoff, specialmente nella cultura tedesca. Perché i tedeschi lo considerano un talentuoso compositore, la cui musica è sull’orlo del kitsch, e non è vero, a essere kitsch è il modo in cui viene suonato. In America si è fatto spesso uno showbusiness della sua figura di compositore, in Russia si è cercato di ‘russificarlo’, pur non essendo russo, etnicamente. ‘Rach’ non è una radice russa del nome, è molto antica, come in Rachel… Gli ultimi giorni prima della partenza da Lugano per l’Austria ho scoperto qualcosa che avevo cercato per molto tempo e all’improvviso è arrivata come un raggio di luce… Picasso, quando gli chiesero se credesse nell’ispirazione, rispose: ‘Sì, devi invitarla, normalmente viene da otto o nove ore di duro lavoro’. E questo è quanto è successo a me! Il giorno prima della registrazione, ho eseguito una porzione del primo movimento e all’improvviso ho sentito un raggio di luce, che in qualche modo è venuto verso l’alto, ed è qualcosa che in tanti anni non ho mai sentito, una piena soddisfazione… Mi considero molto fortunato…”
(il riferimento alla intervista integrale è: https://www.quinteparallele.net/2018/10/ivo-pogorelich-pianoforte-cristofori/)
E il concerto è il momento in cui – a ora incerta, come ovvio – può ad-venire la Visitazione dell’Angelo. Dice:
“Durante un concerto a volte sperimento, in parole comuni, il tocco di un angelo… ma accade spesso durante le prove e quando avviene è molto interessante. Quando sei solo nella sala da concerto c’è una certa magia, avrai notato che sto con il pianoforte fino all’ultimo momento… perché? Perché voglio scaldarlo. Fai un paragone: le ballerine usano il loro corpo quindi lo riscaldano prima di salire sul palco, un violinista ha il violino con sé, un pianista lascia lo strumento sul palco e se ne va per mezz’ora mentre entra il pubblico, il piano si raffredda, le mani si raffreddano, e lui deve esibirsi… Questo è sbagliato perché il contatto deve essere mantenuto con il pianoforte. Quello che intendo è che per esempio quando entri in un grande teatro d’opera e hai il piano e l’acustica… è un momento prezioso durante la prova perché all’improvviso senti qualcosa, o ti convinci di sentire qualcosa, in modo diverso. E poi succede. È molto naturale, sai…”.
Eccolo ora in una recente intervista in Nara, stranamente assimilato al paesaggio giapponese:
In nome di una lettura che non conosce padroni, Pogorelich pare insomma praticare un approccio fenomenologico radicale al suono e alle durate (durate non bergsoniane, in cui un gomitolo di vissuto rafforza e addensa se stesso, in cui l’istante condensa e rappresenta un infinito passato esistenziale e storico: ma durate matematiche, strutturali; estensioni d’arti e di sguardi oltre ogni capacità fisica e, talvolta, oltre ogni tollerabilità): approccio che forza i confini fisici del pianoforte (in tutti i sensi: anche il suono è antistorico, con durezze spaventose e disequilibri), e imperiosamente si rivolge ai limiti della sua e della nostra immaginazione, che è invitata a seguire dilatazioni, estensioni e condensazioni di tempi.
Matematica interpretativa, paesaggio fisico e culto della personalità irripetibile fanno da sfondo alla sua estetica interpretativa. Che, appunto, privilegia l’aisthesis al sentimento.
Ecco la “sua” Polacca di Chopin in do minore, con bassi barbarici e gesti magniloquenti; nella sua versione più recente (2022, qui non allegata, ma reperibile), assenza totale di melodia all’acuto – trattata, questa, alla stessa stregua del suo sostegno armonico:
Culto dell’eccesso? Desiderio di farsi notare? Narcisismo interpretativo?
Non proprio, certamente non solo: Pogorelich resta un grande pianista.
Certo, il rifiuto della storia si traduce in ricusa di qualsiasi impegno storico-interpretativo, politico, d’appartenenza: è lontanissimo da scelte avanguardistiche (marca così il tratto apolitico del suo agire): Pogorelich non si sente certo il gadameriano esito di una catena di interpretazioni. Egli è – casomai – l’ennesimo testimone di una genia di ribelli irriducibili che solo nell’arte trovano collocazione piena. E’ un Rimbaud diciannovenne ancora oggi: è un nobile cavaliere (a chi vuoi assimilarne la natura?), il cui atteggiamento provocatorio e anticonvenzionale muta di segno. Si getta su un repertorio tradizionale e romantico, ma stravolgendone il significato. e vivendo dentro la musica “come se tutto fosse contemporaneo“.
C’è una sola occasione in cui pare inclinare, assai stranamente, verso un sentimento nostalgico: la sua esecuzione di Per Elisa, in Italia, in televisione, in diretta, di cui ho un chiaro e personale ricordo; eccone qui una versione ufficiale, incisa poi per la Deutsche Grammophon, ma fondamentalmente aderente alle stesse intenzioni e capace di evocare lo stesso mondo. Quale mondo? Quello scapigliato che vive già di nostalgie, e di sogni legati a odori e sapori e carte da parati sbiadite, e suoni emessi da strumenti poco accordati e dai tasti d’avorio traballanti e ingialliti, toccati tutti i pomeriggi da gentili signorine, con accentuazioni leggermente improprie: si direbbe che Ivo ne sia stato lo spettatore, e ne abbia bevuto – e qui evocato – l’atmosfera. L’eccesso di pedale che la avvolge – certamente voluto – disegna i contorni sfumati di quel contesto, alla Guido Gozzano, alla Vincenzo Cardarelli, e lo fa presente.
Mistero dell’interpretazione: è la sua discesa in Italia che gli consente di intercettare…?
[1] Concorso pianistico internazionale Fryderyk Chopin – Wikipedia
La voce dedica un intero paragrafo al Caso Pogorelich: alla posizione della Argerich si allinearono presto Nikita Magaloff, Paul Badura-Skoda e poi Louis Kentner.
[2] Strano pudore e persistente desiderio di ricordo convergono, tra l’altro, in queste parole virgolettate, probabilmente autentiche, rivolte agli anni trascorsi con Aliza e poi al lutto: “I had to reinvent myself. She was so demanding. She clothed herself in art, she absorbed it, devoured it. She was so universal. She had everything, class, education, beauty, talent and affection. She outshone everything like a comet. You could never stand still with her, that’s true, she was always on the go. Even in death she was still the princess she was born as. She had cancer of the liver. When she died her liver exploded, and in her last kiss she showered me with black blood. I looked like the Phantom of the Opera. My hair was completely clotted. I didn’t want to wash it off. (…) I was happy so early in my life, I knew now I would have to stand on my own two feet. It just took a long time. I couldn’t touch the piano because my memories flooded out like Niagara Falls. It took time before I could be creative again. Before, proposals and solutions had been offered to me like jewels on a silver tray. Aliza knew I could do that myself too. But I needed time, because she had shaped me the way you sharpen a knife every day. When Aliza came into my life I was 17 and at a dead end with my piano studies. I wasn’t getting anywhere, I wanted to dance but wasn’t even able to walk.”
The Croatian pianist with an unusual love story
[3] Ivo Pogorelich plays Liszt Sonata – live 2012
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