Conferenza tenuta dal filosofo
al Festival A due voci 2023 dedicato al tema “Natura e Artificio” nell’ambito delle celebrazioni per il Bimillenario della nascita di Plinio il VecchioLa “natura” è uno di quei termini il cui significato sembra chiaro. Abbiamo tutti, come pare, un’idea di ciò che si intende per natura. Tuttavia, in epoche e culture diverse, troviamo significati molto diversi. Quindi, quando Plinio ipotizza che l’uomo, con le sue azioni e soprattutto con la tecnica, falsifichi la natura, per prima cosa ci si chiede cosa intenda con il termine natura perché parlare di falsificazione implica l’esistenza di una natura “corretta” o “vera”. In questa conferenza vorrei provare a mettere in discussione il concetto di natura come istanza normativa e teorica dell’azione, basandomi non tanto su Plinio ma, tra gli altri, su Nietzsche e Spinoza.
Spinoza. Un concetto paradossale di natura
Inizierò le mie riflessioni con Baruch de Spinoza e la sua opera principale intitolata Etica. Spinoza è stato un successore di Cartesio, ma non ha adottato i suoi dualismi, sostituendoli con un monismo. Per Spinoza, ad esempio, res cogitans (pensieri) e res extensa (corpi) non sono più due sostanze diverse, ma due attributi o aspetti di una stessa sostanza. Di conseguenza, la mente umana e il corpo umano non sono più due cose diverse, ma due aspetti di uno stesso individuo, proprio come testa e croce sono semplicemente due facce di una stessa moneta. Spinoza chiama questa unica sostanza Dio o natura (deus sive natura). Poiché non può esistere altra sostanza oltre a questa, Dio o natura è unico. C’è quindi una sola natura o, in altre parole, non c’è nient’altro che la natura: né una seconda natura, né un regno di libertà, come in Kant, né un regno di tecnologia che falsifichi qualcosa.
Tuttavia, l’affermazione che esista una sola natura è, a ben vedere, un paradosso. Perché per poter considerare qualcosa come un’unità e quindi assegnare un numero, deve essere possibile, in principio, paragonarlo con qualcos’altro della stessa specie o genere. Questa è la premessa implicita dell’affermazione “c’è una sola natura”. Tuttavia, questa premessa è contraddetta proprio nella sua affermazione. Se qualcosa risulta da una contraddizione applicata a se stessa, si parla di paradosso. Un esempio analogo potrebbe essere quello di una persona che dice di sé di mentire. Questa osservazione logica o epistemologica è notevole nella misura in cui riguarda la fondazione dell’Etica con i concetti di Dio o natura. Sebbene l’Etica non poggi su un fundamentum inconcussum, si basa comunque su un paradosso. Questa situazione rende problematico il tentativo di ridurre dei concetti etici a quelli naturali, come sembra farlo Spinoza.
Un’etica naturalistica dal conatus
Vediamo più da vicino questo aspetto. L’Etica di Spinoza è composta da cinque parti: una prima parte che tratta di Dio o della natura, una seconda parte sulla mente umana, una terza parte sugli affetti, una quarta parte sulla schiavitù umana e sul bene e il malvagio, e infine una quinta parte sul potere dell’intelletto di superare la schiavitù attraverso la conoscenza. La direzione di questo movimento è decisiva. Prima di discutere concetti etici come il bene e il male (nella quarta parte), dobbiamo prima analizzare i nostri affetti (terza parte), sapere quali capacità cognitive abbiamo (seconda parte) e capire prima di tutto di cosa facciamo parte noi esseri umani, cioè la natura (prima parte). Una delle frasi più importanti dell’Etica di Spinoza, in un certo senso l’interfaccia tra metafisica e morale, è un’affermazione sull’autoconservazione dell’uomo e di tutte le cose: “ogni cosa tende verso la conservazione del suo essere secondo la propria natura” (3p6). Tendere in latino è conari e come sostantivo conatus. Spinoza costruisce così la sua etica in senso stretto su questo sforzo. All’inizio della quarta parte dice: “Per bene intendo ciò di cui sappiamo con certezza che ci è utile”. (4def1) Utile nel senso che serve alla nostra autoconservazione. “Per male, invece, intendo ciò che sappiamo con certezza essere di ostacolo al possesso di qualcosa di buono” (4def2). Più avanti nella quarta parte dice “La ragione non esige nulla contro natura; esige quindi che ciascuno ami se stesso, cerchi il proprio vantaggio, cioè ciò che gli è veramente utile, e desideri tutto ciò che realmente conduce l’uomo a una maggiore perfezione; in generale, che ciascuno tende di conservare il proprio essere secondo la propria natura” (4p18s).
Questa sembra una etica naturalista e individualista, ma viene poi sviluppata in un’idea di comunità, secondo la quale più un individuo è integrato in una comunità, più può conservarsi, e più la comunità è forte, più gli individui possono perseguire i loro rispettivi interessi naturali. Secondo Spinoza, non possiamo mai fare nulla di diverso da ciò che fa la natura. Tutti i nostri successi e fallimenti non sono altro che naturali, semplicemente perché ontologicamente l’uomo non è altro che una parte o un modo della natura.
Sembra quindi che ci troviamo di fronte a un’etica naturalistica che riduce i concetti fondamentali dell’etica, il bene e i valori, a concetti naturali. E in effetti, per Spinoza, come ho detto, non c’è che la natura. Nessun regno della libertà come in Kant, nessun’altra sostanza come in Cartesio che possa costituire la base del libero arbitrio.
Ma questa etica naturalistica è messa in discussione proprio perché il concetto di natura contiene un paradosso. Un termine paradossale che non può essere definito chiaramente e univocamente.
Ciò che è già contenuto nel concetto di natura
Oltre a ciò, la presunta etica naturalistica è messa in discussione da un altro aspetto. L’Etica di Spinoza inizia con definizioni e assiomi. Da questi si deducono tutti i teoremi. Ovviamente, altre definizioni porterebbero ad altri teoremi. La questione è quindi come queste definizioni siano giustificate. In matematica, la risposta sarebbe semplice: sono giustificate dal loro successo esplicativo. È così che la vedrebbe un certo Felix Hausdorff, di cui ho parlato qui, al Festival A due voci di Como quattro anni fa. In etica, tuttavia, la questione è più delicata. Dopo tutto, l’etica è già implicita nelle definizioni. Quando, ad esempio, la terza definizione (1def3) afferma: “Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito attraverso sé, cioè ciò il cui concetto non richiede il concetto di un’altra cosa da cui dovrebbe essere formato”, allora questo porta logicamente alla conclusione che ci può essere solo una singola sostanza. Se, inoltre, questa sostanza è uguale a Dio e Dio è uguale alla natura, allora è chiaro che l’uomo non può mettersi al di fuori della natura e delle sue necessità causali. Per questo motivo Kant, ad esempio, afferma che c’è anche un regno della libertà indipendente dove possiamo avviare spontaneamente una catena causale. Ci si chiede quindi se le definizioni iniziali non siano semplici descrizioni neutre, ma contengano già una componente normativa.
Questo sospetto può essere avvalorato se consideriamo altre caratteristiche della natura in Spinoza. Ad esempio, questa natura è essenzialmente potenza (in latino potentia). Ciò significa che ovunque troviamo gli effetti delle cose su altre cose. Anche l’autoconservazione precedentemente introdotta, il conatus, è una forma di potenza: è la potenza divina o naturale in un individuo. È come una particella d’acqua in un fiume che mantiene il suo movimento attraverso l’intero fiume. Se la potenza e la conservazione della potenza sono la caratteristica fondamentale di tutte le cose, allora non ne può derivare un’etica in cui la debolezza, l’impotenza, l’umiltà e la sottomissione siano valori positivi. Viene subito in mente la Genealogia della morale di Nietzsche, dove il filosofo tedesco rivela il segreto di come vengono fabbricati gli ideali (GM, I, 14): La debolezza viene presentata come merito, l’impotenza, che non viene ripagata, come bontà, la timorosa bassezza come umiltà, la sottomissione come obbedienza, il dover aspettare come pazienza, la miseria come prova. Un’etica di questo tipo è esclusa secondo Spinoza, anche se egli aderisce al comandamento di amare il prossimo.
Quello che è sorprendente adesso è che il termine potenza (potentia) non sia definito nell’Etica né ricorra necessariamente. Viene introdotto quasi clandestinamente in relazione alla prova dell’esistenza di Dio (1p11dem3): “posse existere potentia est (ut per se notum)” e poi trascinato fino a comparire in 1p34 come essenza di Dio. In questo modo, l’etica di Spinoza non viene letta dal libro della natura, ma piuttosto messa dentro. È una visione etica della natura.
Nietzsche
La situazione sembra essere molto simile con Friedrich Nietzsche, che ha enfaticamente descritto Spinoza come suo predecessore. Ci sono molti passaggi nell’opera di Nietzsche in cui il concetto di natura viene utilizzato per giustificare un certo modo di giudicare. Anche in Nietzsche si potrebbe inizialmente supporre che ipotizzi una “natura in sé” e ne deduca delle conseguenze etiche.
Valori naturali
Un passaggio rilevante si trova nel Anticristo (AC 24): “[…] Gli Ebrei sono il popolo più notevole della storia mondiale poiché, posti dinanzi al problema dell’essere o non essere, hanno preferito, con una consapevolezza assolutamente inquietante, l’essere a qualsiasi prezzo: questo prezzo fu la radicale falsificazione di ogni natura, di ogni naturalità, di ogni realtà, dell’intero mondo interiore come di quello esteriore. Delimitarono se stessi contro tutti i condizionamenti, secondo i quali, fino ad allora, a un popolo era possibile ed era permesso vivere: crearono, traendolo da se stessi, un concetto antitetico alle condizioni naturali. In maniera irrimediabile hanno successivamente rovesciato nella contraddizione coi loro valori naturali la religione, il culto, la morale, la storia, la psicologia. […] Nella mia
Genealogia della morale ho messo psicologicamente per la prima volta in evidenza i concetti antitetici di una morale aristocratica e di una morale del ressentiment, scaturita, quest’ultima, dal no contro la prima: ma tale è in tutto e per tutto la morale ebraico-cristiana. Per poter dire no a tutto quanto rappresenta il movimento ascendente della vita, la natura ben riuscita, la potenza, la bellezza, l’autoaffermazione terrena, da parte dell’istinto del ressentiment divenuto genio si dovette, a questo punto, inventare un altro mondo, secondo cui quella affermazione della vita appariva come il male, come il riprovevole in sé. Considerato psicologicamente, il popolo ebreo è un popolo dalla tenacissima forza vitale, il quale, una volta posto a vivere in condizioni impossibili, deliberatamente, spinto dalla più profonda saggezza dell’autoconservazione, prende le parti di tutti gli istinti della décadence, – non in quanto è dominato da essi, ma poiché intuisce in loro una potenza con cui si può avere la meglio contro ‘il mondo’. Gli Ebrei sono l’opposto di tutti i décadents: hanno dovuto rappresentarli fino a dare l’illusione di esserlo, con un non plus ultra del loro genio d’attori hanno saputo porsi al vertice di tutti i movimenti della décadence ( – come il cristianesimo di Paolo – ), per fare di essi qualcosa che è più forte di ogni partito della vita che dica il suo sì. Per quella specie di uomini che nell’ebraismo e nel cristianesimo desiderano la potenza, una specie sacerdotale, la décadence è soltanto un mezzo: questo genere di uomini trova un interesse vitale nel rendere malata l’umanità e nel rovesciare, in un senso pericoloso per la vita e denigratorio per il mondo, i concetti di ‘buono’ e ‘malvagio’, ‘vero’ e ‘falso’”.
In questo paragrafo dell’Anticristo, anche Nietzsche sembra introdurre la natura come uno standard o una norma. La deviazione da questa norma è una “falsificazione di ogni natura, di ogni naturalità, di ogni realtà”. Continua scrivendo che la religione, il culto, la morale, ecc. sono trasformati nella contraddizione dei loro valori naturali. Due cose sono interessanti qui: in primo luogo, l’ossimoro “valori naturali”, perché generalmente la natura è considerata come un luogo privo di valori. Ma per Nietzsche sembrano esserci valori naturali persino per la religione, il culto e la morale, come suggerisce la frase “in contraddizione coi loro valori naturali”. Tuttavia, questo aggrava il problema dell’etica naturalistica: ora non si tratta solo di un’affermazione sulla natura e di una deduzione delle possibili conseguenze etiche, ma i valori sono attribuiti direttamente alla natura. Per inciso, il termine “valore” non era ancora in uso ai tempi di Spinoza, ma è entrato nella filosofia nel corso del neokantisimo con Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert. Un concetto centrale nella filosofia di Nietzsche e, se si vuole dare una formula alla sua filosofia, è la famigerata trasvalutazione di tutti i valori. La troviamo dappertutto nella sua opera in varie forme. Già nei suoi primi libri di aforismi, Umano, troppo umano, Aurora e La gaia scienza, i concetti morali tradizionali vengono vivisezionati e vengono sviluppate le loro contro opposizioni. Così i fenomeni morali sono ridotti a cause psicologiche. Tutto questo culmina nella sua presunta opera principale, la Volontà di potenza, che porta il sottotitolo Trasvalutazione di tutti i valori. Tuttavia, come sappiamo, quest’opera principale non si è mai concretizzata e si è frammentata in singole opere come Il crepuscolo degli idoli e L’Anticristo. Una delle ragioni di questa frammentazione potrebbe essere l’impraticabilità dell’impresa. Abbiamo già visto con Spinoza che una coerente riduzione delle preoccupazioni etiche alla natura è associata a paradossi e circolarità, e anche Nietzsche non poteva sfuggire da tali problemi.
Ciò che si può immaginare dai valori naturali sopra citati si trova nel seguente paragrafo AC 25: “La storia d’Israele è inestimabile come storia tipica di ogni snaturalizzazione dei valori naturali: accennerò a cinque fatti di essa. In origine, soprattutto all’epoca del potere regio, anche Israele si trovava nel giusto, vale a dire nel naturale rapporto con tutte le cose. Il suo Javeh era l’espressione della coscienza del potere, del piacere di sé, della speranza riposta in sé: ci si attendeva da lui vittoria e salvezza, con lui si confidava nella natura, che essa desse ciò di cui il popolo ha bisogno – soprattutto la pioggia … Javeh era il Dio d’Israele e di conseguenza Dio della giustizia: è questa la logica di ogni popolo che ha la potenza e una buona coscienza di essa. […]” Il valore naturale di un dio consiste quindi nel fatto che ha, o meglio, esprime la coscienza del potere. Anche se Nietzsche non usa qui la parola “espressione” in modo terminologico, c’è un’involontaria affinità con Spinoza. Per Spinoza, l’espressione è la relazione fondamentale che comprende altre relazioni come la causalità, l’inerenza o la comprensibilità. Questa relazione dice: un’essenza si esprime nella forma di una certa esistenza. Un individuo concreto è l’espressione dell’essenza di questo individuo e, in ultima analisi, dell’essenza di Dio. Ma questa essenza è potenza. Quindi in modo spinozista Nietzsche disse che Javeh è l’espressione della potenza di un popolo.
I valori sono sempre legati alle prospettive
La prospettiva spinozista illumina il problema dei valori naturali. Si potrebbe infatti dire che Nietzsche utilizza la natura come giustificazione per i valori da lui considerati, supponendo una natura che produce i valori desiderati. Ha in mente una natura in cui il processo fondamentale è l’esercizio di potere. Nella Genealogia della morale scrive: ” Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso; in sé offendere, far violenza, sfruttare, annientare non può naturalmente essere nulla di «illegittimo», in quanto la vita si adempie essenzialmente, cioè nelle sue funzioni fondamentali, offendendo, facendo violenza, sfruttando, annientando e non può essere affatto pensata senza questo carattere.”. (GM, II, 11). (Qui si parla di vita invece che di natura). Dovremmo quindi dire che con Spinoza, come con Nietzsche, il concetto di natura non è semplicemente descrittivo, ma già normativo, in modo tale che da esso derivano certe norme o certi valori.
Ma vediamo come Nietzsche argomenta più avanti ne L’Anticristo: “nella mia Genealogia della morale ho messo psicologicamente per la prima volta in evidenza i concetti antitetici di una morale aristocratica e di una morale del ressentiment, scaturita, quest’ultima, dal no contro la prima: ma tale è in tutto e per tutto la morale ebraico-cristiana” (AC 24). Nietzsche fa spesso riferimento a pensieri precedenti. Sono i nobili, presi come tipo, a concepire spontaneamente il concetto fondamentale di “bene”. Il bene, in senso aristotelico, è quello che fa una persona buona. Non si valutano principalmente le azioni (come nel caso di Kant, ad esempio), ma i caratteri. I tipi del risentimento chiamano “male” il bene dei nobili e questo per sfogare la propria inferiorità e invidia. E infine, chiamano “bene” ciò che è l’opposto del loro “male”. I due significati di bene non sono uguali, ma nascono da prospettive opposte. Alla fine, quello che importa per Nietzsche non sono i valori, ma le prospettive che definiscono i valori.
Vita ascendente e vita discendente
Sebbene queste prospettive siano tipi, non sono semplicemente soggettive, ma sono incise nella vita intera. Esprimono un movimento ascendente della vita o un movimento discendente. “Per poter dire no a tutto quanto rappresenta il movimento ascendente della vita, la natura ben riuscita, la potenza, la bellezza, l’autoaffermazione terrena, da parte dell’istinto del ressentiment divenuto genio si dovette, a questo punto, inventare un altro mondo, secondo cui quella affermazione della vita appariva come il male, come il riprovevole in sé” (AC 24). Questa idea dell’ascesa contrapposta alla discesa, al declino, alla décadence la ritroviamo anche in altri passaggi di Nietzsche, ad esempio nell’aforisma 33 del Crepuscolo degli idoli, Scorribande di un inattuale: “Valore naturale dell’egoismo. – L’egoismo ha tanto valore quanto ne ha, fisiologicamente, colui che lo possiede: esso può avere un valore molto grande, può essere di nessun valore e spregevole. Ogni individuo può essere considerato in maniera diversa secondo che rappresenti la linea ascendente o quella discendente della vita. Con una decisione su questo punto si ha anche un canone per giudicare che valore ha il suo egoismo. Se l’individuo rappresenta l’ascendere della linea, il suo valore è in realtà eccezionale – e per amore della vita nella sua totalità, la quale compie con lui un passo avanti, è lecito che l’attendere alla conservazione, alla creazione del suo optimum di condizioni, giunga persino a un punto estremo. Il singolo, l’individuo, come lo ha inteso sino a oggi il popolo e il filosofo, è per l’appunto un errore: costui non è nulla per sé, non è un atomo, un ‘anello della catena’, qualcosa di semplicemente ereditato da altri tempi – egli è l’intera unica linea uomo prolungata fino a lui … Se invece egli rappresenta lo sviluppo discendente, la decadenza, la degenerazione cronica, la malattia ( – le malattie sono già, grosso modo, fenomeni successivi della decadenza, non cause di questa), scarso allora è il valore che gli compete, e la prima regola di giustizia vuole che sottragga il meno possibile ai ben riusciti. È ormai soltanto il loro parassita … “.
Anche qui c’è un parallelo rivelatore con Spinoza, ovvero il suo concetto di perfezione (perfectio). Dio o la natura è l’essere perfetto e le sue parti, compresa la mente umana, possono mostrare più o meno perfezione. Aumentando questa perfezione, una persona forma un movimento ascendente o una linea nella natura.
Esistono varianti di questo naturalismo in cui, ad esempio, si rimugina sugli istinti naturali degli esseri umani, come in Crepuscolo degli idoli, Morale come contraddizione della natura, 4: “- Riduco in formula un principio. Ogni naturalismo nella morale, vale a dire ogni morale sana è dominata da un istinto della vita – un certo imperativo della vita viene adempiuto con una determinata regola del «tu devi» e del «tu non devi», un certo intralcio e una certa ostilità sul cammino della vita vengono in tal modo tolti di mezzo. La morale avversa alla natura, vale a dire quasi ogni morale che sia stata insegnata, venerata e predicata fino a oggi, si volge viceversa proprio contro gli istinti della vita – è una condanna ora segreta, ora aperta e sfrontata, di questi istinti”.
Tuttavia, questo non cambia il problema. D’altra parte, nel paragrafo 5 immediatamente successivo troviamo un altro concetto rivelatore, quello di sintomo: “Posto che si sia compreso quel che v’è di delittuoso in una tale rivolta contro la vita, quale è diventata quasi sacrosanta nella morale cristiana, si è con tutto ciò, fortunatamente, compreso anche qualche altra cosa: l’inutilità, l’inconsistenza, l’assurdità, la mendacia di una tale rivolta. Una condanna della vita da parte di un vivente finisce per restare, insomma, nient’altro che il
sintomo di una determinata specie di vita: con ciò non si solleva affatto la questione se tale condanna sia giusta o no. Si dovrebbe avere una posizione al di fuori della vita e d’altro canto conoscerla tanto bene come l’ha conosciuta quel tale o quei molti o tutti coloro che l’hanno vissuta, per potere toccare in generale il problema del valore della vita: motivi sufficienti, questi, per comprendere che il problema è un problema per noi inaccessibile. Quando parliamo di valori, parliamo sotto l’ispirazione, sotto l’ottica della vita: la vita stessa
ci costringe a stabilire dei valori, la vita stessa valuta per nostro tramite, quando noi stabiliamo valori … Ne consegue che anche quella contronatura, una morale la quale concepisce Dio come concetto antitetico e condanna della vita, è soltanto un giudizio di valore espresso dalla vita – da quale vita? da quale sorta di vita? Ma ho già dato la risposta: dalla vita declinante, infiacchita, stanca, condannata” (GD, La morale come contraddizione della natura, 5).
Sintomi e semiologia
Il termine espressione in Spinoza corrisponde quasi al termine sintomo in Nietzsche. Un sintomo, come sappiamo dalla medicina, è un segno di qualcos’altro, della causa reale che ci è nascosta e che deve essere prima rintracciata. La diagnosi è la sintesi dei sintomi. Nel Crepuscolo degli idoli, Quelli che «migliorano» l’umanità, si legge: “È noto quel che esigo dai filosofi, porsi, cioè, al di là del bene e del male – avere sotto di sé l’illusione del giudizio morale. Questa esigenza consegue a una idea che è stata da me formulata per la prima volta: che non esistono per nulla fatti morali. Il giudizio morale ha in comune con quello religioso la credenza in realtà che non sono. La morale è soltanto una interpretazione di determinati fenomeni, o per parlare con maggior precisione, una falsa interpretazione. Al pari di quello
religioso, il giudizio morale è relativo a un grado di ignoranza, al quale manca perfino il concetto del reale, la distinzione del reale e dell’immaginario: cosicché, a un tal grado, «verità» designa semplicemente cose che noi oggi chiamiamo «chimere». In questo senso, il giudizio morale non è mai da prendersi alla lettera: sempre, in quanto tale, esso non racchiude che un controsenso. Come semiotica, tuttavia, resta inestimabile: esso rivela, almeno per il sapiente, le più preziose realtà delle civiltà e delle interiorità, che non sapevano abbastanza per «comprendere» se stesse. La morale è un mero discorso per segni, una mera sintomatologia: si deve già sapere di che si tratta per trarre da essa un vantaggio”.
La questione di cosa sia la natura stessa non si pone più per Nietzsche. È una domanda metafisica che Spinoza poteva ancora porre, ma la cui impossibilità si manifestava già nei suoi paradossi e nella circolarità. In fondo, questa domanda era già diventata obsoleta con Cartesio, che non praticava più la metafisica, ma solo l’epistemologia attraverso le regole. Dopo Spinoza, la questione è stata nuovamente respinta da Kant. L’approccio di Nietzsche si basa sulla semiologia, non sull’ontologia o sull’epistemologia. Per lui abbiamo solo segni e sintomi di ogni cosa e dobbiamo interrogarci sulle loro possibili cause.
In questo senso, la filosofia di Nietzsche può essere descritta come sintomatologica e come diagnostica. La domanda su come sia la natura stessa, con cui abbiamo iniziato questi pensieri, non si pone più. Non possiamo sapere nulla delle cose in sé, come ha già mostrato Kant. La natura o piuttosto il mondo, ha una funzione diversa nel nostro uso del linguaggio. Il mondo non è un oggetto, ma una cosiddetta idea regolativa, la cui assunzione è necessaria per poter pensare alla connessione delle cose. Nella Critica della ragion pura, Kant mostra che sorgono antinomie (come i paradossi in Spinoza) se si assume il mondo come un oggetto a cui si vogliono attribuire predicati, come ad esempio che il mondo ha un inizio nello spazio e nel tempo. Quindi dobbiamo essere prudenti quando parliamo di natura e chiederci sempre: in che senso, in quale funzione?
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