Erroneamente si ritiene che il massimo fulgore dell’immaginario sia toccato tardi, quando siamo adulti. E’ falso: a diciannove anni si è già uomini e donne compiuti, capaci di sintesi originalissime tra passato e futuro, e di non inibita creatività; e bisognerebbe restituire credito a questa prima Vollendung  – che sovente poi si incrina. Sì: nel giovane musico dotato di pensiero è ben viva una particolare lettura, introiettata e proiettata, delle crisi, delle guerre, delle grandi speranze, di cui sempre l’artista è recettore e specchio. Vi alberga anche il più nobile sentore della magia e dell’arte.
Ebbene, chi è oggi il musico? E’ solo (solo!) interprete dei capolavori del passato, o agente (addirittura e anche) di una ipermodernità abitata da visioni ambigue e grandiose, a noi ancora sconosciute?
Insomma si sottomette egli (ella) a necessità immanenti oppure fa appello alla libertà creatrice e all’unicità del suo animo, e si dispone così a cambiare il mondo?
 
Non conosco personalmente Valentin Malinin (Nizhniy Novgorod, Russia, 2001) ma ne seguo ciò che posso da anni: credo che si tratti di uno degli artisti emergenti più interessanti, capace di contemperare l’uno e l’altro versante: quello destinico, legato all’esser russo, dato che egli incarna con convinzione e onore, e l’altro, connesso alle sorgenti di un’arte panica che si spande oltre ogni confine.
Compositore e pianista, uomo colto con forti inclinazioni filosofiche e fisico-matematiche, è certo anche ragazzo dei nostri giorni: sportivo, nuotatore d’inverno, coraggioso sostenitore di sue proprie posizioni complesse, contempera – anche musicalmente parlando – l’infinito della tradizione russa, l’abisso del qui e ora e il sole del futuro. E’ così anche il suo aspetto fisico, apollineo e dionisiaco insieme: è dorato, raggiante comunicativa e giovanile baldanza, e insieme notturno e capace di esasperate espressività. In lui la lucidità di analisi vive intrecciata alla resa efficacissima e calda. 
Educatissimo e composto, non appena siede al suo strumento Malinin si trasforma in mago ed evocatore di mondi, a un passo dal volo; preda e signore di ciò che suona, pare proiettato verso una fiamma a noi invisibile, che si accende nella matematica dei rapporti aperta paradossalmente alla più libera danza, e nel gesto che da quelle linee necessitanti nasce – assoluto, autorevole, eloquentissimo, sciamanico.  E nella risoluzione dell’Artista in ciò che diventa – soprattutto in pubblico. Skrjabiniano per vocazione (vi ho accennato in altri articoli), Malinin è sacerdote di un rito orfico dai tratti panici e profetici. Solennità, severità e gioia, ed elitarismo e insieme magnetismo che raggiunge tutti; e ancora tenerezza, bisogno vitale e intimo di comunicare: queste le componenti vive e operanti in Valentin Malinin, uomo già complesso, musicista che non semplifica ed è disposto a percorrere e proporre strade ardue.
 
E’ fondamentalmente pianista: atleta del concertismo, è vincitore di grandi concorsi (è secondo al Ciaikovskij, ove ha performato in modo praticamente perfetto;
 
ma ha pure una attività compositiva notevole: spazia volentieri, si direbbe per necessità esistenziale, tra generi e destinazioni assai differenti. Estemporaneità e ispirazione lo visitano di notte, e a questa consegna le sue improvvisazioni, simili a intimi colloqui dell’anima.  Ascoltiamo questa, per esempio, aperta dalle sue stesse parole: Shadow of Dance è nata nel cuore di uno dei riti di passaggio più ricchi e misteriosi, di cui Malinin vive la pregnanza iniziatica; solo i bimbi ne colgono il tratto inquieto e insieme felice:  “I miracoli accadono a Capodanno! Qualcosa di simile a Hoffmann: ascoltate bene, bambini! Improvvisamente, in ogni angolo inizia un silenzioso bisbiglio…e qui un fruscio: sì, dietro sedie e armadietti!…E ora un orologio a muro parla, tic-toc, tic-toc…! Dolcetti, doni…scoppi, piste di trenino, ricordi“. 
 
Così, il caro ragazzo è anche un sognatore, e un cultore di fiabe romantiche tedesche! Eppure i suoi fantasmi qui ricordano Goya, e le calde atmosfere del Sud.
 
Ecco l’annuncio di un suo concerto (la fonte è per me la sua pagina facebook cui attingo come posso), accompagnato da profonde, critiche considerazioni, e da una “confessione”: “Recentemente nella vita concertistica russa i recital solistici stanno diventando sempre più rari. Per motivi puramente commerciali si preferisce abbinare il solista a una orchestra, dando luogo a serate sempre più fragorose e spettacolari“. A parte la corruzione stilistica che ciò implica, e che Malinin sottolinea in vari altri luoghi, ciò che si perde è altro: “…E stare soli con se stessi, parlare intimamente di complesse questioni di cuore, condividere il momento con persone care e amate? A volte lo si desidera così tanto che salire sul palco per una confessione-monologo con il tuo pubblico diventa un momento davvero prezioso (…). La musica di questo concerto esprime tutto ciò che ho vissuto ultimamente: l’intera tavolozza di pensieri, esperienze, speranze… Non vedo l’ora che arrivi mercoledì sera per condividere ogni cosa con voi, cari ascoltatori. Vieni, ne sarò molto felice!“. 
Ecco, questa idea di concerto come reciproca offerta, e di rischiosa, nuda condivisione intima, è densa di toni affettivi e, forse, tipicamente sua. Naturalmente essa presuppone, anzi esige, un destinatario preparato, concentrato, all’altezza del dono.
 
Porta effettivamente il suo pubblico verso lidi non facili, e consapevolmente, allontanandosi da sentieri scontati: Lokshin (Variazioni 1953), eseguite in occasione di un festival alla memoria, organizzato da Malinin stesso: 
 
Prokofieff, (la marmorea e implacabile Sesta Sonata, a titolo di esempio);
 
molto Beethoven, lo Skrjabin più arduo (qui i Tre Studi op. 65); 
 
ma c’è molto altro – bisogna davvero vedere e sentire le Sonate Terza e Quarta, Poème TragiqueValse op. 38, il Concerto); e ancora Germaine Tailleferre, Ravel, Bartòk; e un Rachmaninoff, un Ciaikovskij poco inclini al puro sentimento, ma letti in senso strutturale, spesso parossistico o apocalittico:
 
In ciò estremamente lontano dalla bonarietà di Gigashvili, Malinin è esigente, e per certi aspetti conservatore, legato alla sostanza dell’evento musicale colto, cui pretende si attinga senza fronzoli, con la sacralità del caso. Ha un senso antiamericano, credo proprio, della scuola e della prassi concertistica. Soffre di inesplicabile nostalgia per una utopica Città degli Artisti: aveva salutato con grande favore, qualche tempo fa, la fondazione di una “nuova Peredelkino” – un luogo ove non solo le sperimentazioni, ma anche i dialoghi senza altra barriera che il rispetto reciproco siano il pane delle giornate, ove la natura stessa, artisticamente visitata e assimilata, sia fonte viva di ispirazione. Sogna un mondo che a tratti cerca di costruire, attingendo alle sue radici, e stringendo interessanti rapporti con musicisti e intellettuali anziani e aperti, con il più grande rispetto, con il massimo entusiasmo.
Non rifiuta i generi musicali altri dal classico; si guardi qui, per esempio: https://www.youtube.com/shorts/PWFOBEYcVFM.
Una straordinaria performance jazzistica che non ci saremmo aspettati, sempre declinata in senso alto e grande.

Lamenta un degrado della qualità della didattica: i professori migliori sono mortificati da una ripartizione ingiusta dei talenti nelle classi; ciò lo “offende”, in nome della dignità delle sue stesse docenti: le amate Mira Marchenko e Katarina Baras. Ricorda i tempi in cui – lui era poco più che fanciullo – presso il Conservatorio di Mosca si soleva improvvisare concerti spontanei e quotidiani, e le sperimentazioni in risonanza con altre forme d’arte mettevano capo a discussioni appassionate: rimpiange quella vita semplice e altissima, recentemente sacrificata a favore di una solitudine competitiva, con un uso troppo parco delle sale – magnificamente restaurate, con marmi lussuosi, certo, ma vuote, lontane, riservate a poche occasioni ufficiali. E’ indiscutibilmente colto, e, se il caso, difende proprie idee anche impopolari.Si spinge sino a invocare la censura a proposito di certi luoghi del cinema contemporaneo, a suo parere lesi da gratuita e oscena volgarità; e resta da solo, tra i molti discussant suoi pari, a sostenere il radicalissimo punto di vista: è disposto in verità a legittimare qualsiasi cosa, se artisticamente motivata[1].

L’uomo è dunque complesso, e abita un mondo per molti aspetti lontanissimo dal nostro, di cui intravediamo chiare componenti politiche, non semplici né univoche. C’è, come in Gigashvili ma declinata in senso spiccatamente russo, una correlazione stretta tra visioni del mondo e del futuro, ispirazione, interiorizzazione di eventi crudi e sublimi: ciò converge in una multiforme e impegnata creatività – e lo vedremo esaminando alcune delle sue composizioni. (Qui una buona antologia pubblicata da Malinin stesso in forma di playlist – My Works 

 cui manca tuttavia la trascrizione per pianoforte da Bizet, I pescatori di perle, pure molto ben riuscita, con reminiscenze di Liszt e Rachmaninoff, qui eseguita come bis.

In bono veritas (2022), per Coro misto, non manca di sublimità: eseguito qui per la prima volta pare celebrare la geniale intuizione linguistica che riconduce il Ver-bo a una crasi in interiore homine tra Verum e Bonum. 

 

L’aria è già satura del profondissimo trauma della guerra, che i versi dello stesso Malinin, composti un anno prima, anticipano profeticamente. Come in Qohelet, come in Giobbe, un grido si leva dall’umanità sofferente (Oh, annus horribilis!… Lux in tenebris!); e la semantica “figurativa e sonora“, davvero tragica,  in cui la musica è avviluppata, è riscattata solo alla fine, con un’apertura alla speranza di tipo socratico, ove ragione e pietà si fondono. Prende corpo la necessità di nuovi e più luminosi orizzonti: “Un sole alberga in fondo al cuore di ogni essere umano – lasciamolo semplicemente risplendere“.

«Памяти неизвестного солдата» (In memoria del Milite ignoto) per Coro e Soprano solista, è per certi versi più scabroso. Concepito quando Malinin ha diciannove anni, nel 2020, in occasione di due anniversari, il duecentocinquantenario della nascita di Beethoven (1770 – 2020) e il settantacinquesimo della sconfitta dei fascismi (1945 – 2020), è stato eseguito presso il Conservatorio di Mosca pochi mesi fa.

 

L’alchimia emotiva e circostanziale è qui delicata, mista, allusiva e insieme chiara. Il testo dell’opera è una lirica del poeta e grande medico sovietico-israeliano Ion Lazarevic Degen[2]: vi si celebra con enorme pena la caduta in guerra di un giovane grandissimo musicista, le cui partiture scritte al fronte risentono di tutto ciò che qui converge: “abbiamo seppellito oggi il novello Beethoven!”

Ambizioso, il pezzo è grande sintesi di spazi e tempi. Da un lato la musica stessa – come nei madrigali di Gesualdo – segue la lacerazione del testo e ne amplifica le fratture, dicendo altro: dicotomie, micropolifonie, “strati politonali”  evocano stridore di denti e dissonanza cosmica (“…dolore e lacrime nel grido di una donna…risuonano in versi sparsi della poesia…a simboleggiare distruzione, destini spezzati – ciò che rimane dopo la guerra“). Dall’altro lato qualcosa in noi si ostina (nonostante la morte, nonostante la vita, nonostante la finale destinazione al silenzio) a intravedere il senso redentivo di quel che avviene, in sé nero vuoto: il senso è in quell’arte sovrasemantica che trasfigura, denuncia, avvicina mondi. In forza di ciò il soprano intona una melodia acutissima sull’Allegretto della Settima Sinfonia di Beethoven, con effetto di contrappunto particolarmente tragico; allora i fantasmi di quelle partiture – irrecuperabili, disperse, troncate come il finale del pezzo, come le nostre vite – mutano il linguaggio in suoni onomatopeici, e così cantano i brandelli di umanità rimasti. 

L’opera si conclude con un inesorabile battito di metronomo – claves – che simboleggia il minuto di silenzio in memoria degli eroi caduti“.

Chi è il poeta? E chi il sublime Musico di cui non viene fatto il nome? Sorge un fulgido sospetto: che l’allusione sia ai nostri giorni, e che la débacle abbia inizio proprio nel 2020, quando, forse, la morte di un secondo nuovo Beethoven preconizzò l’incredibile mattanza di talenti che da ambo le parti ora devasta e fa soffrire. Si pensa subito alle Lamentazioni e Consolazioni di Sergei Bortkiewicz eseguite nel 2022 da Mira Marchenko, insegnante nel nostro, nei primi mesi di guerra: evento commovente e probabilmente sottaciuto, che dice e mostra, e invoca e spera: Marchenko, il cui nome suona ucraino. 

Ma è davvero così impossibile salvare ambo le parti? La domanda vibra come sottotesto dell’intero concerto[3]

La musica, si direbbe, svuota la guerra della sua hybris, e si carica di lacrime e costernazione anche per il nemico, come vuole Simone Weil. 

 Four Apocrypha in the Spirit of Mass, dedicati “agli oppressi, ai sofferenti, ai coloro che sono morti prematuramente” rivelano un animo inquieto, un anelito religioso pieno di strani spunti: gli interessa forse il pensiero gnostico? Cosa cerca? 

 

Le quattro sezioni che compongono l’opera, concepita nel 2019 e qui eseguita nel settembre 2022, sono fortemente eterogenee eppure segnano, ognuna, la segreta geografia di un’opera unica, ove – raccomanda l’autore – “la fine di ciascun brano sia spaccatura, strappo nel tessuto del tempo e insieme continuum, conservando drammaticità e senso d’attesa“. Permane in ogni caso una “forma di non-accordo tra le parti“: che significa? E’ forse qui celata una quaestio ontologica arcaica e di vera sostanza, che Malinin sente e intuisce, legata al rapporto tra i mere e il tutto, significativamente riflessa nella musica – o generata da questa? Il passaggio attraverso la linea fotonica che separa e unisce è così pericoloso, così decisivo, così impossibile! E la successione logica delle parti (De profundis, Dies Irae, Crucifixus, Et incarnatus) disegna una figura geometrica a contrario: l’incarnazione dovrebbe precedere la crocifissione, e questa il giorno del giudizio, cui segua il lamento del condannato. Quale il senso inedito della suite, allora?

De profundis – spiega Malinin – “costruito sul Salmo 129, è confessione, è grido levato dal sofferente sino al Creatore“. Molto bello. Efficacissimo. L’inizio è roco lamento, fiato già bifido (violoncello e viola), rantolo indicibile che alberga nel corpo profondo, e che forse è pura sofferenza, non facendosi nemmeno voce, ma permanendo come ritmico pulsare di un respiro intermittente che brama emergere dal pozzo con suppliche dall’arco sempre più alto. L’introduzione del violino e poi – ultimo – del pianoforte segna i due estremi assoluti di una espressività rivelatrice di grandi travagli. Di nuovo il pianoforte (Malinin stesso[4] 4)) dice il profondo, l’imo, l’abisso. Che animo complesso, dostoevskijano, intriso di consapevolezza panica e antica, e di ineluttabilità, di strano senso dell’invocazione magica!   

Dopo il Dies Irae, un Ostinato che ribadisce se stesso nel “giorno di dolore e di angoscia, e distruzione e rovina, e tenebre e oscurità, e nube e nebbia … e grida forti contro città fortificate e torri alte ”,  ecco il dittico forse più problematico, aperto da Crucifixus (min. 9.34).

Malinin sceglie la forma della Passacaglia, e ricorre all’inizio – lo dichiara – a una figura retorica legata alle quattro estremità della croce  – che gli strumenti ad arco gestualmente mimano e melodicamente disegnano; e poi ad altro simbolo numerico rappresentato dal trentatré. Con le sue parole: “Ecco un appello al sacro numero 33: 33 accordi diversi sulla nota re, 3 sezioni di 11 battute (33 battute). 33 è considerato un simbolo dell’età sacra, in cui una persona in via di sviluppo rivela pienamente tutti i poteri e le abilità spirituali. 33 erano i gradi di prova da affrontare per una piena realizzazione e illuminazione. E trentatré anni ha Gesù Cristo al tempo della sua crocifissione e resurrezione“. Notevole il fatto che l’autore approcci l’apocrifo come “conoscenza segreta, messa a disposizione del Prescelto“. Il nostro ha forse conoscenze esoteriche serie?

Il più misterioso è in ogni caso Et incarnatus, dalla forma aperta e inclassificabile. Legato al più terribile momento (la crocifissione e la morte di Lui) e generato dall’ultimo cluster che sancisce la fine di ogni speranza, sorge nell’attimo che risucchia il Corpo e ne determina l’ascesa repentina (min. 13.30 circa): la resurrezione nel vortice assoluto implica ipso facto una ricaduta a pioggia di vita inedita sull’intero creato; e – stranissimo dato – una nuova incarnazione. La situazione pare disegnare un’idea mitica di tipo gnostico, ma sconosciuta e di segno opposto a qualsiasi esito smaterializzante: l’incarnazione è l’esito finale della storia, dopotutto, e non l’assunzione in un iperuranio; vita ri-concepita, pura e redenta, in grembo materno; vita che chiama la vita: ecco la vera forza motrice della rinascita. Il mondo è attraversato da vibrazioni e spasimi, tutto piove elettricità, rugiada novissima, e serpeggiare di forza inaudita, molteplice, vorticosa, ricchissima. Poiché l’artista ha visioni, e conosce certo Rimbaud – si fa veggente – è lecito chiedersi a cosa alluda questa piega della sua opera. Certamente, a un sentore di vita inarrestabile – dopo il terremoto della morte, dopo la tenebra dell’abisso e della violenza; dopo che nulla pare più restare in vita – dopo i quattro cluster bassissimi, informi, perentori, apparentemente definitivi. Come Messiaen egli pare affacciarsi sul poggiolo dell’oltre. Ma qui non è solo il remotissimo captare qualche superno flebile suono, acutissimo sino alla dissoluzione, in cui si sarà immersi con la fin du temps: è, al contrario, un terrestre assistere, e compartecipare, assieme al pubblico, al rinnovamento del colore dell’aria, e a nuove nascite a pioggia, imprevedibili, incontrollate, variopinte. 

Nella mia fine è il mio principio, pare dire questa musica, e immergersi in una strana forma di skrjabiniana circolarità, che fa sempre seguire il ricominciamento ad ogni catastrofe, e l’impercettibile zoé ad ogni dissoluzione. Così è Et incarnatus, che cela più di un enigma, compresa l’analogia con il Mysterium di Skrjabin, unico luogo ove l’incarnazione della figura cristica in grembo di donna segue una sua precedente vita di ferro crudeltà e sangue: è solo l’incarnazione a redimere – proprio con la purificazione nel grembo – ogni peccato. Tornato bambino, il Cristo può svolgere la missione di salvatore del mondo. Strana, e inindagata, questa doppia direzione di vita della Figura skrjabiniana: mai musicata, incompleta, non finita. Che ha in comune con gli Apokrypha di Malinin giusto il dato dell’Incarnazione come ultimo atto: unico tono, forse, che si frange nella moltitudine invasiva della vita colorata.

AUSPICIO.

Come avevamo cominciato? Giorgi Gigashvili aveva annunciato l’uscita del suo album, Meeting my Shadow; e Valentin Malinin condivide qui il suo Shadow of Dance. In entrambi i casi l’artista chiede di essere accolto non solo come performante, ma come uomo totale. Disposti in cerchio, dunque, ci avviciniamo. Tocchiamo con mano l’estrema serietà della missione: ascoltare significa comprendere, e vedere i mondi che l’artista significa, trasformandone i confini di ora in ora, e indicando albe.

Shadow è parola chiave che unisce. Se è vero, come sostiene Jung, che occorre farsi amici della propria Ombra, poiché essa è il nostro doppio inquietante, e racchiude l’Altro, inteso come evento che irrompe e spezza l’ordo amoris cui siamo abituati, costringendoci a un ineludibile rinvio reciproco, allora c’è da sperare che nell’arte – sola fucina di salvezza del mondo che la Russia e l’intero mondo slavo da tempo immemorabile affida ai musici e ai poeti – le ombre dei due si sfiorino, creando ponti impossibili, e ponendo la prima pietra di una Nuova Era.

[1] Qui l’intervista completa, di grande interesse. https://vk.com/@maliesceni-portret-pianista-i-kompozitora-valentin-malinin

[2] Il significativo aggancio a Degen (Mohyliv-Podil’s’kyi, 1925 – Giv’atayim, 2017) meriterebbe qualche approfondimento. Tragica figura di combattente per l’Armata Rossa, è ebreo nato in Ucraina e fervente comunista. Artista e scienziato, fu poeta e ortopedico di prim’ordine giungendo a tentare in Israele, con successo, un trapianto d’avambraccio. A Degen stesso, più volte decorato, venne amputata una gamba nel 1945 a seguito di ripetute ferite di guerra.

[3] Qui il sublime momento: avete la stessa impressione? 

 

[4] Il quartetto: pianoforte, violino, viola, violoncello: Valentin Malinin, Polina Senatulova, Veronika Subbotina, Danila Vladiko.

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