Qui la prima parte dell’articolo
TERZA COMPONENTE: SCHOPEHAUER E LEIBNIZ IN SKRJABIN
Schopenhauer in Skrjabin
Skrjabin fu intenso lettore di Schopenhauer: autore che conserva il raro dono di poter esser letto e capito anche da menti non troppo addestrate alla filosofia*.
Il Mondo come Volontà e Rappresentazione parte dal presupposto già kantiano, esaminato più sopra, del mondo a noi dato, considerato, in quanto tale, cioè in quanto dato, come phainomenon; più precisamente:
a) il mondo fenomenicamente inteso è rappresentazione, ovvero oggetto per un soggetto: tolto di mezzo “il soggetto” (Schopenhauer pensa piuttosto ad una sorta di soggetto-tipo) non esisterebbe il mondo: è il soggetto ad essere sostegno del mondo in quanto oggetto;
b) benché Schopenhauer mutui da Kant la terminologia (fenomeno – noumeno) sottoscrivendone il significato, questo suo mondo fenomenico è meno stabile di quello kantiano: esso si riduce ad un “esser percepito”: non esiste sole né terra, ma “occhio che vede il sole, mano che stringe una manciata di terra”: il presupposto di tale affascinante incertezza, comparsa già sullo sfondo della speculazione filosofica con Berkeley (l’empirista che nei primi del ‘700 aveva già posto la modernissima domanda, ripresa poi da Einstein: sono certo del fatto che la luna continui ad esistere quando io non la guardo?), è in origine vedico. Schopenhauer aveva conosciuto e letto le Upanishad, compendio della sapienza indiana, attraverso Goethe, e ne aveva tratto la convinzione che il mondo avesse, nel suo assetto di rappresentazione, una sostanza illusoria.
Diversamente da Kant Schopenhauer è però convinto del fatto che sia possibile, per la pura ragione, penetrare nella fortezza del noumeno, ovvero scoprire dal di dentro il vero assetto, la vera sostanza del mondo: che Schopenhauer esperisce e trova con una atto di autoosservazione esteso poi a tutto quanto il cosmo: il mondo è, nella sua essenza, volontà pura. Per volontà (Wille) si intenda: impersonale e cieca forza, brama di vivere, impulso a esistere.
Dunque il mondo ha un doppio assetto: come rappresentazione esso è pensabile platonicamente, come piramide di esseri-tipo ordinati secondo gradi di complessità e coscienza crescente; ma nella vera essenza tale insieme di rappresentazioni è forza orientata ad essere, figura ritmica di elevazione. Anzi: Schopenhauer pratica un esercizio di contemplazione anch’esso di matrice orientale, che consiste dapprima in una sorta di sospensione della volontà in sé e poi nel trasferimento dentro un altro essere, sino a sentirne la foggia, l’impulso, la particolare figura ritmica, il tempo interno, l’essenza quasi sonora.
Egli è anche convinto del fatto che la musica sia l’incarnazione perfetta della volontà; essa è cosmo e contemporaneamente impulso ritmico ad esistere; è organizzata anch’essa secondo tipi, ovvero secondo tempi compresenti e polifonicamente differenti.
Pagine bellissime sono dedicate alla descrizione del cosmo come grande partitura musicale: è una partitura naturale, già sonora, dove il suono è impulso e figura ritmica interna ad ogni ente, e dove l’intero cosmo è sinfonia di Volontà. Ogni ente ha il suo ritmo: vi sono i tempi lunghissimi e statici dei “bassi”: i pianeti; vi sono le piante, sottobosco armonico del cosmo ancora al di qua dell’autocoscienza; gli animali che costituiscono la mobile melodia…: una concezione ingenua e un po’ di maniera, ma che unita alla considerazione che “il Genio musicale creatore compie ciò che la natura non ha la forza di compiere” dipinge un quadro assolutamente skrjabiniano: musica è movimento e compimento di una Volontà di esistere; è ingresso nella materia, storia esemplare del mondo fisico e vicenda che conduce al fuoco della smaterializzazione. Potremmo anzi dire meglio che Skrjabin compie nella realtà dell’arte ciò che Schopenhauer teorizzò.
Leibniz in Skrjabin
Non ci sono prove di una conoscenza diretta della filosofia di Leibniz da parte di Skrjabin.
Eppure le affinità tra i due pensatori sono notevolissime, probabilmente mediate da approcci ad antologie (se non direttamente connesse ad una lettura della Monadologia o del Discorso di Metafisica.
Centro della filosofia di Leibniz è il concetto di monade: uno dei più interessanti e ricchi di risonanze.
Anticipiamo che Skrjabin tratta il materiale sonoro (che è per lui materiale cosmico originario) proprio alla maniera della monade leibniziana: perciò è bene ricordarne la funzione, le prerogative.
a) Monade è mattone dell’universo; è un atomo, potremmo dire, ovvero sostanza indivisibile: ma non un atomo di materia, bensì un atomo di sostanza: è forza orientata (Ne Lo spirituale nell’Arte Kandinskij racconta del senso di giubilo che invase parecchi artisti suoi colleghi e lui stesso quando, agli inizi del Novecento, la scienza scoprì che la struttura dell’atomo implica grosse porzioni di vuoto al suo interno: ciò parve agli spiritualisti una conferma di ciò che essi stessi intuivano e speravano: la natura mobile, spirituale e non materiale della materia stessa e quindi del cosmo intero: che è ora suono, ora forza, ora vibrazione, ora tensione verso la definizione e la vita. Lo sfondo concettuale di questa scoperta filosofica si deve proprio a Leibniz che opera in pieno Seicento).
b) Le monadi, di numero infinito e indistruttibili: esse possono essere distrutte solo con un atto di annichilazione da parte di Dio: donde l’idea, già cara ai Romantici e a Skrjabin, e molto prima a Democrito di Abdera, ad Anassagora di Clazomene, a Spinoza: l’idea cioè di un universo compartecipato, ove tutti gli esseri sono fatti della stessa sostanza viva: un universo in cui nulla muore, perché non ne periscono gli elementi costitutivi, già sempre vivi.
Le monadi sono in un certo senso tutte uguali in quanto monadi, senza porte né finestre (monàs, greco, allude a qualche cosa di conchiuso e uno), cui però pertiene la doppia prerogativa di appetire (ovvero di tendere, desiderare) e percepire; contemporaneamente le monadi sono anche tutte assolutamente diverse tra loro (il principio ontologico che regola questa diversità è detto principio dell’identità degli indiscernibili: esso dice che semmai si dessero due monadi o sostanze uguali, queste collasserebbero l’una nell’altra); ne segue che viviamo nel più ricco e vario dei mondi possibili.
Bisogna aggiungere un altro dato: Leibniz considera “monade” l’unità vivente: ovvero non solo il mattone dell’universo in senso strettamente atomistico, ma l’individualità compiuta, anche: il singolo uomo è monade, e così Dio stesso*.
Ma in quale senso preciso, ontologicamente parlando, si esplica tale diversità?
c) Ogni monade percepisce, ovvero riflette a proprio modo l’intero universo (si potrebbe dire, come Leibniz dice, che ognuna ne incarna un sehepunkto punto di vista particolare); la diversità tra le monadi consiste nel diverso grado di autocoscienza che interviene in questa capacità riflettente (le monadi sono ordinate difatti in una sorta di piramide platonica di perfezioni connesse proprio a questo principio). Ogni monade ha difatti una parte inconscia e una conscia. Famoso e particolarmente eloquente l’esperimento delle pétites perceptions: un rumore complesso – come quello prodotto da un mulino ad acqua in aperta campagna – portato completamente alla coscienza sarebbe tutt’altro che confuso, ma precisissimo: noi però non disponiamo di tale precisione; le nostre percezioni sono in larga parte confuse ovvero inconsce e sovrapposte; c’è in Leibniz l’idea che la Monade tutta cosciente, assolutamente sapiente, che dispiega il tempo in tutte le sue dimensioni (ontologiche e matematiche) è Dio.
L’idea di Dio è qui stretta tra l’esigenza imprescindibile di trascendenza e l’implicazione di Dio nel cosmo.
Dio è anche matematica e tempo infiniti.
d) Qui la stretta e audace analogia con Skrjabin. Compare sia in Leibniz che in Skrjabin infatti, con una radicalità filosofica molto stringente e come necessità cosmica, un’idea di divinità che si compie attraverso un atto di autocoscienza, attraverso un dispiegamento nel tempo; tale dispiegamento Skrjabin compie nell’arte ove le scintille tematiche-monadi sono dapprima fatte nascere e poi messe in movimento e, insieme, atte a formare un’unica danza, un’unica vicenda: si ha spesso l’impressione che le opere di Skrjabin raccontino la storia di questa autocoscienza divina: una divinità che ha bisogno dell’uomo per compiersi, anche se è in sé vertice di coscienza (c’è sia in Leibniz che in Skrjabin un’idea di movimento e salvezza del cosmo in Dio); e l’arte è prototipo della creazione e della sua storia, orientata verso la salvezza e verso la coscienza, ripetuta in atti sempre nuovi.*
TUTTO IL QUADERNO TERZO (ma non solo: anche considerevoli parti del Secondo) è pieno di rimandi di matrice leibniziana e schopehaueriana.
QUARTA COMPONENTE: LITURGIA E RITO
Schematizzo un materiale per la verità immenso, passibile di approfondimenti quasi ad ogni voce.
1) Skrjabin mutua dalla liturgia bizantino-ortodossa (di cui è erede: ricordiamo che vive ed opera prima della Rivoluzione d’Ottobre) un certo concetto di arte connessa sia al rito religioso, da agire in luogo sacro, sia una concezione palingenetica, ovvero rigenerativa e salvifica, dell’arte come evento. Come già detto dunque, il concerto pubblico è per Skrjabin ben più che intrattenimento, e ben più che dotto atto conoscitivo: è un riportarsi, nell’opera, alle radici stesse dell’essere e del divenire, un esperire in prima persona (e un mimare nel senso forte del termine, ovvero un descrivere e insieme un diventare) le leggi stesse della produzione dell’universo.
Ogni volta, ogni opera, è un cominciamento, un inizio del mondo: ascoltiamo soprattutto l’incipit della Quinta Sonata: ricordate l’esecuzione davvero splendida del Maestro Bresciani? E’ registrata, come tutti i nostri interventi; c’è anche l’esecuzione di Horowitz: comincia in modo scioccante: una sorta di materiale ribollente si agita nelle profondità dell’essere, e poi, una volta tratto fuori, si organizza e comincia a danzare, a conoscersi, a esprimere potenza e gioia, eros e sempre rinnovata seduzione del fare e del creare. Ed è necessaria all’interprete una incredibile lucidità per mantenere perfezione e sprezzo del pericolo, precisione e danza dionisiaca, coinvolgimento massimo e distanza.
Oppure la Sesta (di questa Sonata Skrjabin dichiarava di aver paura: e non si tratta di una bizzarria: come dice Sartre ogni volta che la nostra creazione si è staccata da noi essa vive di vita propria e ci colpisce come una cosa, come un ente con sue leggi e suoi effetti. E’ una Sonata che l’autore giudicava satanica nel suo impianto e nelle sue ardite armonie. E si ricordi che Lucifero è, nella teologia gnostica ma anche nell’etimo del nome, portatore di luce e fuoco, eterno Prometeo dalle ambigue caratteristiche, la cui vita è intrecciata a quella della Divinità; e si ricordi ancora che Skrjabin è autore di un Poema Satanico il cui ascolto è una vera esperienza estetica e direi storico-religiosa: si sente proprio, nella esecuzione di Sofronitzskij che consiglio, la risata satanica di un essere immensamente potente ma irredento, simia Dei, imitatore, grottesco, dissacratore; e anche, problematicamente, principio di luce, di proterva superbia, di istinto creativo, di sfida): la Sesta, dicevo, comincia con un accordo “concentré” che pare descrivere l’essere di una divinità personale, femminile, che si conosce e si guarda, e si scopre sinistramente potente.
Meravigliosa è anche l’Ottava, puro palleggio di universi senza alcun rumore; poi il compatto si scioglie e comincia la danza
La Nona, Messa Nera, è completamente analizzabile: nulla rimane fuori: è uno sfero perfetto in cui, come Skrjabin amava dire, “una mosca non potrebbe penetrare e pungere”. Il suo secondo tema pare davvero rappresentare una modalità d’apparizione della Volontà schopenhaueriana, all’inizio del mondo. E l’incipit della Sonata, fatto di vuote quarte aumentate e puri semitoni discendenti, ricorda il quadro di pensiero di una divinità che prima del fiat passeggia negli orti dell’essere, e che aleggia sulle acque ancora come spirito silente: uno spirito che anela a conoscersi e perciò crea, ingaggiando se stesso nella opera della Creazione.
La Decima, “bacio del raggio e degli insetti”: questi ultimi, immaginati soprattutto come api, sono caratterizzati da trilli infiniti, ad esprimere l’ultima natura vibratoria dell’essere (e ape in greco si dice, tra l’altro, Thrìa, da cui appunto TRILLO, termine onomatopeico che esprime la natura alata e velocissima dell’ape).
Dunque si può dire che ogni Sonata, ogni composizione, è per Skrjabin una rifondazione del mondo, un riportarsi nel ventre della pura possibilità e dell’inizio assoluto, da cui poi il mondo, con tutti i suoi elementi cosmici e psicologici, si sviluppa.
2) Altro elemento: il luogo in cui il rito avviene. Esso non è indifferente alla efficacia liturgica dell’evento. Skrjabin produce schizzi di theatra di questo genere. Uno di essi, che abbiamo conservato (riprodotto negli Appunti di Skrjabin e stampato negli Opuscoli della Settimana Skrjabin) è in forma di emisfero, con dodici porte, poggiato su una sorta di specchio d’acqua: l’effetto è quello del Globo; e al Globe di Shakespeare si richiamano parecchie riflessioni secentesche sul ruolo del luogo atto a stimolare subliminalmente un armonioso e fecondo movimento delle facoltà umane: su questa base nascono progetti architettonici come la Città del Sole di Tommaso Campanella, o Christianopolis di Johann Valentin Andreae; o Macaria di Francis Bacon: tutte queste città utopiche sono costruite su base, diciamo così, geometrico-alchemica: il presupposto è che in esse siano implicati rapporti matematico-ontologici – che reggono le logiche architettoniche e stanno prima della costruzione materiale – e immagini e suoni che inducono l’iniziato (il myste della tradizione dionisiaca) a disporsi in un condizione di particolare ricettività, bontà, apertura, intelligenza dell’essere, solidarietà umana. Così sono concepiti gli emblemi di Michael Maier, alchimista, autore di Atalanta Fugiens, raccolta di 50 quadri assai misteriosi per noi, comprendenti messaggi celati entro le figure e i rapporti geometrico-proporzionali interni al quadro stesso; mito, chimica primordiale e vaste, problematiche idee di religione universale e di buon governo si uniscono qui ad un effetto imprevisto: ogni quadro contiene una musica a chiave scaturita dalle stesse linee ontologico-matematiche dell’opera, ed essa a sua volta un criptico messaggio le cui coordinate oggi inevitabilmente ci sfuggono: ma il sottobosco interiore è simile a quello di Skrjabin e di Kandinskij (impensabile senza questa prospettiva la messe di opere intitolate Improvvisazione o Fuga, oppure il grande progetto kandinskiano di Suono Giallo; e con Kandinskij anche Klee si muove nella medesima prospettiva).
[Discorso a parte meriterebbe l’immenso capitolo del teatro ligneo di Giulio Camillo, ove compare la skrjabiniana figura di Prometeo e una idea di fenomenologia della coscienza davvero interessante (il discorso è troppo lungo: vi invito solo a visionare il link relativo a Giulio Camillo e al suo teatro, con un embrione di bibliografia connessa, a mo’ di proposta di indagine che potrebbe allargarsi sino a ricomprendere Giordano Bruno e i suoi imprevedibili, profetici legami concettuali con Boulez e molta musica contemporanea; ma solo una cosa si può aggiungere: il Theatron di Giulio Camillo è un teatro della memoria che tutto contiene e che va molto oltre la memoria cosciente: tale teatro è l’anima stessa o mens umano-divina le cui coordinate saranno chiarite nel prossimo paragrafo. Il concetto è platonico: conoscenza è memoria: ma questa è ora smisurata, e contiene l’essere e il suo divenire, il destino dell’uomo, e, nel rito e nella conoscenza, quello di Dio)].
3) L’idea-base per la quale un simile discorso sul mondo, sull’anima, sulla posizione teosofica dell’uomo è possibile, è neoplatonico-rinascimentale, e si trova, ben compiuta, per esempio in Marsilio Ficino per il quale l’universo è diviso in tre mondi: il mondo degli elementata (i quattro elementi empedoclei che danno luogo alla materia del cosmo e ai suoi composti), le intelligenze angeliche e le matematiche, e la complessa, nascosta e misteriosa vita di Dio.
In questo quadro l’anima dell’uomo – che è anche l’anima del mondo – è copula mundi, principio coesivo del cosmo; di più: l’uomo stesso è sintesi prodigiosa e perenne di tutte le dimensioni cosmiche. Nell’uomo è compreso il mondo degli elementi e quello delle intelligenze angeliche e infine dei Nomi Divini. E il mezzo attraverso il quale ogni dinamica prende vita è l’attivazione, nell’uomo di procedure artistiche e, potremmo dire, alchemico-trasformative insieme; il luogo è il teatro, ove il rito è possibile. Oltre a ciò, per il principio olistico secondo il quale operare entro certe dimensioni cosmiche comporta riverberi e metamorfosi in altre, anche Dio è aiutato a compiersi tramite l’operato mentale e artistico dell’uomo: Egli, secondo un topos neoplatonico molto commovente e noto anche alla più illuminata speculazione islamica di impostazione neoplatonica, chiede di mutare e conoscersi e amarsi attraverso l’uomo e l’amore dell’uomo: si pensa qui a un uomo-tipo, che nasce, si incarna (miti gnostici), soffre e ingaggia se stesso in una passione della conoscenza capace di divorare e trasformare*.
Questo prodigioso mondo sincretistico e vivo ha dunque radici lontane (vi partecipano Pico della Mirandola, Johannes Reuchin, Joseph Khunrath, Enrico Cornelio Agrippa che ha fama di mago): e si spinge sino alle soglie della più audace teosofia del Novecento, sino a Skrjabin.
Skrjabin però con il tempo si emancipa dal concetto di luogo e approda ad una idea temeraria: assumere il mondo stesso come teatro del mondo, collocandone il fuoco in un punto strategico appositamente scelto (pensa all’India, al Tibet) e visto quale axis mundi, quale centro del cosmo da cui provocare l’irradiamento salvifico attraverso l’arte (un’arte sempre fatta, eseguita, resa viva nel rito, non solo immaginata o scritta: è il rito, è, diciamo così il concerto, che provoca movimento, redenzione, salvezza). Qui è la musica stessa a costituire le colonne del cosmo; e l’interprete a giocare il ruolo di sacerdote, di ierofante.
4) Tale ruolo è particolarmente evidente nella speculazione di un autore caro a Skrjabin, Vladimir Solov’ev. Immenso pensatore, terribilmente prolifico, Solov’ev è un eccezionale prodotto della cultura di una Russia ancora zarista, proteso verso un misticismo che tutto salva, e verso una comprensione totale, spirituale, artistica e materiale, della grande vita cosmica. Interessantissima è la funzione della liturgia che suggestiona Skrjabin – è una liturgia assai simile, nella sostanza, a ciò che Skrjabin ritiene debba essere la funzione del concerto pubblico – e cui qui possiamo solo accennare brevemente.
E’ centrale l’idea di movimento collocato dentro la chiesa ortodossa: il sacerdote, accompagnato da musiche e canti, e parole e gesti rituali, percorre tutta la navata centrale raccogliendo e salvando, con il suo stesso cammino, tutto ciò che esiste e potrà essere, e che è rappresentato, in una sintesi tenera che dà conto di ogni minimo essere, di ogni menoma esistenza, di tutti i typoi cosmici, di ogni esemplare vitale possibile, di ogni elemento inanimato, di ogni essenza, nelle icone che tappezzano i lati e i corridoi della Chiesa: operazione orfica, che muove le essenze e la materia solo apparentemente inanimata e la redime: movimento che è ispirato dalla mèta cui il cammino del sacerdote tende, e che è reso possibile dalla particolare natura mistico-artistica del sacerdote stesso, che è mago: la meta è non solo il Cristo in cui avviene transustaziazione e trasformazione, ma soprattutto la Sofia Mèter, il Divino eterno femminino che tutto accoglie: e che è non solo la meta ma anche il cammino e la strada (è un recupero di un elemento caro ai misteri greci più profondi: quelli eredi di una cultura pregreca, in fondo, ovvero minoica, ove la Madre e la Donna sono poste al centro della vicenda cosmica e interiore di tutto il genere umano)*.
5) L’ultimo mistero di Skrjabin è celato nel suo rapporto con il Mysterium: ultima sua opera nel senso doppio del termine: opera decisiva e insieme espressione di un nuovo inizio. Se ne può qui solo accennare, ma è materia per approfondimenti imminenti, e straordinariamente ricchi.
Non è chiaro a quale nuovo inizio del mondo Skrjabin pensasse; e, crediamo con qualche fondamento e ragione, che non fosse chiaro nemmeno allo stesso Skrjabin. Il quale negli ultimi anni di vita (morì in realtà molto giovane, pare per una sorta di reazione allergica ad una puntura d’insetto) era come diviso da un doppio istinto: la necessità di continuare sulla strada intrapresa (una strada di gioia cosmica) e uno strano messaggio interno che inesplicabilmente lo spingeva, abbiamo ragione di credere, verso un ripensamento profondo del concetto di Sè e della Divinità. Il contenuto del Quarto Quaderno parla chiaro, ed esso è a disposizione di chiunque ne voglia analizzare i reperti. Contrariamente al solito Skrjabin NON riesce – o non è spinto – a comporre la musica del Mysterium (le pagine pentagrammate sono in massima parte bianche: solo pochi cenni, qualche idea: il che dice già di una qualche forma di crisi espressiva che se capita e sviluppata avrebbe forse dato luogo davvero a una nuova musica, fatta con altri mezzi e aspirante ad altri fini). E’ praticamente compiuta, invece, la parte poetica del Mysterium, di grande interesse filologico e storico-religioso; in essa compare l’idea di una divinità colta nella fase precedente l’incarnazione: una divinità cui non è affatto estraneo il male, e che è anzi crudele. Ho trovato tracce di questo mito nella riflessione gnostica da un lato e, dall’altro, nell’incredibile pensiero di Luigi Pareyson, praticamente inesauribile, a cui rimando tutti gli interessati (in particolare il libro Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza). Compare anche sullo sfondo, forse, dicevamo, una esigenza cui Skrjabin come uomo non era pronto a dar seguito: l’esigenza dell’incontro personale con il Dio cristiano, credo: esigenza sentita solo nei primi anni di gioventù e connessa con un senso del tragico, nonché della risposta personale, non estatica ma radicata nel qui e ora ineludibile che l’uomo Skrjabin fu: esigenza che Skrjabin a un certo momento consapevolmente rifiutò (abbiamo traccia di questo momento in un foglietto di appunti ritrovato dentro il Vangelo della nonna del musicista, di cui la figlia di Skrjabin, Marina, dà conto e notizia), a favore del tuffo nelle sorgenti di una creatività tanto gioiosa quanto capace di prescindere dai mali dell’esistenza.
Questo appello personale, serpeggiante e non decifrato, questo imperativo “in te ipsum redi“, se confermato da ulteriori studi, divideva certamente negli ultimi anni la creatività skrjabiniana come un sintomo, come una chiamata.
E’ un enigma molto commovente di cui sono disponibile a parlare, e che potrebbe diventare, come dicevo, oggetto di interessanti linee di ricerca su molti fronti.