Le maggiori correnti speculative nella filosofia e nella musica di Aleksandr Skrjabin (prima parte) | Filosofia dell’interpretazione musicale

Il magnifico e originale compositore russo Aleksandr Skrjabin (1871\1872 – 1915) offre numerosi motivi di interesse alla nostra materia per le vaste componenti filosofiche e sinestetiche del suo pensiero, sempre connesse alle sorgenti della sua creatività e mai disgiunte dai fini della creazione stessa.

FONTI SKRJABINIANE

Le fonti sono costituite per noi da quattro quaderni redatti a mano, non a fini di pubblicazione ma in forma di appunti tra il 1903 (anno della composizione del Poema Divino, Terza Sinfonia) e l’anno della morte, 1915.

Abbiamo poi testimonianze di amici tra i quali spicca il giovanissimo Boris Pasternak, vicino di casa del compositore, che in poche suggestive righe racconta come la genesi dei capolavori musicali – modernissimi, al passo coi tempi – fosse accompagnata in Skrjabin da un bisogno speculativo enorme, sempre contrassegnato da leggerezza fisica, movimento e felicità.

Le letture di cui abbiamo notizia sono, grossomodo: Kant (La Critica della Ragion Pura soprattutto), gli Idealisti (Fichte in primissimo piano: è certa, per esempio, la partecipazione di Skrjabin ad un importante convegno a Ginevra intorno alle Prospettive e agli sviluppi contemporanei della filosofia fichtiana; ma conobbe pure il pensiero di Schelling e di Hegel); Schopenhauer, di cui lesse Il Mondo come Volontà e Rappresentazione; Nietzsche (stralci dello Zarathustra). Lesse Goethe, i Romantici tedeschi. Il pensiero greco fu presente a Skrjabin attraverso traduzione e commento di ottimi divulgatori russi, come Trubetzkoy e Plechanov: era attratto tanto dal pensiero greco arcaico, presocratico (commovente la sua passione per Empedocle, Eraclito, i Pitagorici) quanto dal fulgido apporto platonico (Fedro, Ione, Repubblica, Timeo soprattutto). Il suo repertorio di letture era completato dai Russi: Vladimir Solov’ev soprattutto (il filosofo dell’Unitotalità), nonché una teoria di mistici interessati soprattutto alla conciliazione, tipica della liturgia ortodossa, di arte e religione a fini salvifici, palingenetici: Skrjabin abbraccia le più grandi utopie del suo tempo riportando in vita anche antiche pratiche filosofiche tese a provocare una trasformazione importante dell’umanità intera, dell’intero cosmo: matrice e motore di questa trasformazione era il rito dell’arte, ovvero il concerto pubblico; e l’agente del rito è il mago-sacerdote-interprete, la cui prestigiosa, umanissima figura evoca e suscita, orficamente, il movimento del mondo e, ogni volta, la sua rinascita. Musica è per Skrjabin ben più che intrattenimento: è un fatto cosmico. L’interprete è investito di una particolare missione.

LE COMPONENTI PIU’ IMPORTANTI DELLA FILOSOFIA SKRJABINIANA

Sono quattro, grossomodo, e sempre intrecciate, compresenti:

1) l’Idealismo tedesco;

2) l’apporto dell’India, con la sua tradizione millenaria, e quello della Grecia, presocratica e poi platonica;

3) Schopenhauer, Leibniz

4) Il ritualismo in senso lato, con le sue componenti utopiche e salvifiche. Questo ultimo punto presenta un’appendice interessante, legata alla genesi e allo strano destino del Quarto Quaderno, non finito, anzi appena abbozzato: tale reperto è introduttivo al Mysterium, compimento e fine (ovvero: scopo ma anche atto definitivo) dell’intero suo operare.

PRIMA COMPONENTE: L’IDEALISMO TEDESCO

L’Idealismo tedesco giunge in Russia in ritardo ma feconda un terreno straordinariamente predisposto, per natura, storia, cultura, indole, a recepirne gli aspetti più esasperati e audaci.

Ricordo qui brevemente la digressione operata a lezione intorno alle sorgenti dell’Idealismo tedesco da riportare a Kant:

1) Kant erede di una doppia, problematica tradizione filosofica: Razionalismo (che deduce ogni fatto da principi teorici dati per indubitabili, senza preoccuparsi di verificare che la realtà corrisponda allo schema ipostatizzato) ed Empirismo (che al contrario procede rigorosamente dall’esperienza e dichiara, nei suoi esponenti più importanti, di “non comprendere” parole tipicamente filosofiche come “Io” oppure “Sostanza”: ciò che risulta al filosofo empirista sono le sensazioni e cioè le qualità, da noi esperite, delle cose). Uno degli empiristi più importanti è David Hume che si concentra, tra l’altro, sulla demarcazione della differenza tra verità di ragione e verità di fatto, sostenendo che il contrario di un fatto è sempre possibile, mentre le verità di ragione poggiano su uno statuto logico per natura indubitabile e sempre valido (matematica)*.

2) Sull’onda di tale contrasto si inserisce Kant, che nella Critica della Ragion Pura soprattutto ordina le cose come segue.

Il mondo che ci è dato può esser detto fenomenico; il termine viene da phainòmenon, sostantivo greco che prende vita dal verbo phaino/phainomai. Tale voce verbale connota un apparire caratterizzato dalla doppia accezione, presente anche in italiano, di “mostrarsi in piena luce” e anche “sembrare” (apparire diversamente da ciò che si è). 

Tutto il mondo è phainòmenon, nella sua totalità: e in quanto ci appare con certezza esso ha validità anche scientifica, poiché a tutti  si dà nella medesima maniera. Questo darsi del mondo alla medesima maniera per tutti gli esseri razionali dotati di intelletto e sensibilità (gli esseri umani) poggia sul modo in cui gli esseri umani stessi sono strutturati a riguardo: le forme apriori (innate) dell’intelletto e della sensibilità fanno sì che il mondo venga recepito in questo modo e non in un altro: è a causa della nostra strutturazione, per esempio, che recepiamo il mondo come dotato di un certo numero di dimensioni spaziali (donde la nostra geometria, la nostra interpretazione e ricezione dello spazio) e da certe sequenze temporali (che fondano, letteralmente, la possibilità di contare e quindi la matematica); ragioniamo alla luce di una certa logica sequenziale e gerarchica che fonda relazioni tra enti e discorsi (le categorie dell’intelletto), e dunque pensieri compiuti.

3) L’essenza del mondo è però preclusa alla pura ragione: essa è piuttosto consaputa solo dal Creatore che ne possiede la chiave. Dunque il mondo – lo stesso mondo, questo nostro mondo e insieme ogni suo ente: noi stessi compresi – ha due aspetti: uno fenomenico e l’altro noumenico (da noùmeno, a sua volta da Nous, o Mente, con cui si vuol connotare la Mente di Dio). 

Kant articola allora le tre Critiche (della Ragione Pura, della Ragione Pratica, del Giudizio) su questi presupposti i quali poggiano su una vera e propria Rivoluzione copernicana: conoscenza non è più, come in antico, adaequatio intellectus rei (adeguamento dell’intelletto alla cosa), ma al contrario adeguamento del mondo alle strutture portanti e alle forme apriori dell’intelletto e della sensibilità del soggetto: il mondo gira ora come un satellite attorno al soggetto-sole, cui il mondo stesso si adegua in quanto percepito. 

4) Fichte entusiasta lettore di Kant si convince di dovere procedere oltre Kant e di svelare, a suo dire, il principio unificatore che sostanzia di sé le tre Critiche e che Kant non avrebbe rivelato: questo principio unificatore è per Fichte l’Io puro che si autopone e si autocrea e così, autoponendosi e autocreandosi, pone e crea tutto quanto l’universo. L’Io puro è propriamente il soggetto dell’Idealismo (un Io che il filosofo sperimenta audacemente in se stesso). Tale Io si imbatte certo in un mondo che non riconosce come autocreato, ma che gli si pone dinanzi come qualche cosa di estraneo, di diverso dall’Io: ebbene per Fichte tutto ciò che l’Io recepisce come estraneo a se stesso è Non-Io, da intendersi come prodotto inconscio dell’Io. 

Compito dell’Io è dunque progressivamente inglobare in sé, in cerchi sempre più larghi, ogni dato esterno come proprio, e riconoscere in ogni manifestazione del Non-Io una propria produzione inconscia, una barriera (da abbattere e annettere a sé, per così dire: la cosa non è senza elaborazioni complesse che qui non possono essere specificate, ma la sostanza è questa).

5) L’Idealismo tedesco, inaugurato da Fichte (1799) e poi continuato da Schelling ed Hegel, provoca nella cultura europea un cambiamento antropologico importantissimo, senza il quale, per esempio, non si sarebbe sviluppata né la tematica del Doppio romantico (tanto inquietante, anzi perturbante per la acutissima sensibilità germanica*), né, per l’Io, un’idea di altro da sé inteso come produzione inconscia e proiezione esterna dell’Io stesso, né un’idea di fenomenologia dello spirito quale troviamo in Hegel (che implica sussunzione per gradi di dinamiche sempre più alte e vaste di tesi, antitesi e sintesi: che dalle originarie ed esemplari relazioni Io-Non-Io prendono vita e senso, proiettate in un moto a spirale che tutto raccoglie, tendendo verso l’Assoluto). 

Nella sensibilità russa – che ne recepì le istanze, compiutamente, intorno al 1860 – l’Idealismo produce un aumento parossistico di creatività, ora legata al culto di personalità artistiche straordinarie e insieme a una considerazione antropomorfa della natura (ove a sua volta è la natura stessa ad essere idealisticamente recepita come parte e scenario e creazione e visione di un Io vastissimo – l’Io della grande anima russa). 

Impensabili, senza il presupposto idealistico, alcune pagine skrjabiniane particolarmente audaci: l’inizio della Terza Sonata, per esempio, che dice di uno spirito creatore che con impeto e figurazioni ritmiche particolari afferma se stesso; non esisterebbe l’immobilità iconica del Quasi niente inserito da Skrjabin all’interno del Funebre che chiude della Prima Sonata: possibile solo entro una sensibilità schellinghiana che consideri la natura come spirito visibile e lo spirito creativo come natura invisibile (quello spirito russo, quella bianca natura russa, legati ai luoghi sterminati, ai tempi infiniti e ai silenzi grandiosi: non esisterebbe, ancora, l’inizio del Poema Divino che Pasternak ci fa rivivere nel suo primo travolgente fiorire: ***

Gli Appunti di  Skrjabin  che risentono di una formazione fichtiana, e incomprensibili senza tale presupposto filosofico SI TROVANO SOPRATTUTTO NEL PRIMO E NEL SECONDO QUADERNO.

SECONDA COMPONENTE: INDIA, GRECIA ARCAICA, PLATONE

Skrjabin intende la musica, come già accennato, quale fatto cosmico. 

E in ciò rivela una sensibilità, una concezione dell’uomo e del mondo, che si definisce olistica (dal greco holon, la totalità, l’intero; il termine ha un curioso corrispettivo nella lingua ebraica biblica: ‘olam significa: il tutto, l’universo intero) e che poggia su presupposti cari alle più prestigiose culture arcaiche: ciò che accade in una certa parte del mondo ha ripercussioni sull’assetto del tutto; di più: operare in una certa sezione dell’essere, per così dire, provoca, analogicamente, movimenti ad altri livelli del creato (è il principio poi espresso nella Tabula Smaragdina, reperto-base della letteratura magico occultistica dei primi secoli dopo Cristo, poi mutuata da tutto il cosiddetto Neoplatonismo rinascimentale a base magica e occulta, che a tale concezione olistica si riporta e si ispira: in alto come in basso, l’intero essere è vivente).

La musica all’interno di una tale concezione del mondo è legata a moltissimi elementi cosmici: spesso ogni nota, e le più importanti relazioni tra note, si associano a colori, a segni zodiacali; a potenze psichiche, a parti del corpo; a pietre, a leggi cosmiche ed equilibri di Stato (perturbare i quali, con esecuzioni scorrette, è un crimine contro le maggiori divinità).

L’India arcaica – le cui leggi espressive e ritualistiche, connesse ad una forma profonda di filosofia della religione e dell’esistenza, si perpetuano immutate sino ad oggi – conosce un sistema di relazioni tra note musicali (sa, ri, ga, ma pa, da, ni) e colori che affascina moltissimo Skrjabin; la cui sensibilità è già aperta a tali argomenti a causa dello spirito europeo del suo tempo, già segnato dalla presenza di Rimbaud (che nel Sonetto Voyelles aveva assegnato ad ogni vocale non solo un colore, ma un intero stuolo di associazioni sensoriali e di significati) e di Verlaine (La Musique avant toute chose) nonché, prima ancora, di Baudelaire che nel manifesto poetico del Decadentismo francese aveva posto le basi sinestetiche delle Correspondances).

Leonid Sabaneev, in un famoso articolo comparso sulla rivista Der Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro), fondata da Vasilij Kandinskij e Franz Marc, cui contribuì, tra gli altri, Schoenberg) descrive l’associazione tra colori e musica, anzi l’intero spettro di corrispondenze, approntato da Skrjabin*.

Ma l’India appare notevole a Skrjabin per la concezione sacra e già orfica della musica nella sua essenza cosmica: il compositore russo trova meraviglioso il modo in cui i mistici musici indiani pronunciano la sillaba AUM (OM), vero triangolo sonoro e mistico che è in sé anche dea, e che deve essere ruminato e inspirato e aspirato mobilitando tutto l’apparato vocale e respiratorio, di modo che l’esecutore entrando, nel suono, in una mistica connessione con il Tutto ne evochi e ne muova l’essenza (che è sonora)*.

Inoltre i musici indiani trattano il materiale musicale in modo assai diverso dagli occidentali: il raga (termine derivato da ranj – base per: tingere: tingo, coloro di emozione; cfr. il greco dorico rezo) è un misto di preparazione ritmica in cui si accorda il cuore dell’esecutore ai grandi ritmi cosmici, e poi di ricavo del singolo suono che viene progressivamente accerchiato, circumambulato, e infine individuato e distillato nella sua purezza, con un lungo lavoro di precisazione * 

(Ad ogni sruti – in una ottava se ne contano 22 – corrisponde un’entità divina, un fatto cosmico, una relazione sonora e matematica assieme; sruti è termine legato all’atto di ascoltare: e giova ricordare che la sapienza arcaica è sempre associata più all’ascolto che alla vista: i Veda sono il compendio della sapienza indiana, legati a matrice-udito; così gli Akousmata dei Pitagorici; radice linguistica di sruti è sv, matrice di luce tanto in sanscrito quanto in russo [svet] nonché di suono; e suono e colore sono legati anche in greco, dove chroma è tanto il colore quanto, posteriormente, una figura ritmica, un valore di suono). 

La buona esecuzione preserva e nutre il mondo e le divinità: la cattiva esecuzione uccide gli dei. 

Il mondo mitico greco ha la figura di Orfeo che al suono della lira e della sua stessa voce muove le montagne, sveglia spiriti animali; dunque le frequenze vibratorie tradotte in suono-colore muovono non solo gli animi, ma propriamente le cose: le conducono si direbbe, verso una forma di autocoscienza, di risveglio a se stesse: perché l’essenza del mondo è matematico-musicale, fatta di rapporti convertibili tanto in suono quanto in relazione numerica. Skrjabin ha una sensibilità orfico-pitagorica: e solo a questo patto può pensare ad un tempio della musica le cui mura sono rette da colonne di incenso, costituite da una matematica invisibile e tuttavia presente, realissima, percepibile nella sua forma sonora e più pura; solo in questa chiave può concepire la sua Quinta Sonata anche come immobile forma geometrica perfetta i cui rapporti interni, una volta dispiegati in musica, si aprono, nella viva esecuzione, in un evento di grande e rigogliosa complessità e diventano danza di elementi, vicenda cosmica.*

ll Fedro e lo Ione.

Sono due dialoghi platonici considerati di fondamentale importanza da Skrjabin. Compare qui sullo sfondo difatti la problematica legata all’interprete, da Platone trattata con sorprendente modernità di prospettiva, e in accordo con la poetica di Skrjabin.

Brevemente:

– il Fedro è notevole per la presentazione del “poeta” (per poiètes si intende – come vedremo ancor meglio tra pochissimo, a proposito dello Ione – tanto il poeta autore quanto il suo interprete, il rapsodo, che opera nella medesima maniera) come “un’anima pura e gentile”, che, a causa della possessione divina (le Muse operano in lui secondo le leggi dell’ispirazione che si configura come una specie di rapimento: una vera e propria ek-stasis) viene invasa da furore bacchico: così e solo così, fuori di sé, il poeta diviene in grado di comporre e recitare canti e altri componimenti poetici: solo i poeti in delirio possono dirsi poeti. *

Il dialogo culmina nella immagine del giardino delle Muse visitato in volo dal poeta, “essere alato e sacro”: egli si comporta come un’ape (mèlissa) che in volo è trasportata presso i giardini delle Muse da cui stillano fontane piene di meli (miele), ovvero del dolce liquor poetico che l’ape-poeta sugge, assimila e porta con sé sino alla terra trasformando il prezioso dono divino nel melos del canto e del ritmo da elargire agli uomini.

– Lo Ione è un dialogo “breve. ambiguo e straordinario” che ha come protagonista un interprete per eccellenza: Ione, rapsodo campione nella recitazione di Omero, che Socrate incontra nella piazza di Atene appena reduce da una vittoria ad una gara. Ione è ciò che potremmo definire un solista: tiene banco, da solo, di fronte a d una platea foltissima di spettatori, e manifesta una inspiegabile quanto inequivocabile inclinazione verso Omero, che è certo il suo autore: in Omero Ione si scioglie, fa tutti i personaggi, mima persino i rumori, diventa le emozioni di questo o quel personaggio e ne esce rapidamente per immedesimarsi in un altro: e ogni volta piange, si adira, si sorprende, si spaventa. 

Socrate, turbato dalla efficacia straordinaria di quella finzione che è al limite del vero in molti sensi, e che ha certo ben reali effetti, ingaggia con Ione una discussione civilissima; nella discussione si sente chiaramente però che lui, Socrate, il Socrate platonico che noi conosciamo, ha in mente il grande problema filosofico e pedagogico dell’uomo: deve egli essere consegnato alla prigionia, alla tirannia e alla passività dell’arte poetica? 

Deve l’uomo farsi preda di emozioni indotte, subliminalmente inoculate nei ritmi e nei giambi e nei ditirambi del Poema? 

Deve esercitare la memoria e affidarsi a un’attivazione inconscia, corporea e collettiva delle sue leggi, oppure deve far vuoto attorno a sé e fondarsi finalmente come uomo filosofico, autonomos nel senso etimologico del termine, ovvero capace di far legge a se stesso? 

La musica – l’arte delle Muse – è dono divino da accogliere in toto o piuttosto da vagliare accortamente? 

La risposta di Platone-Socrate è ambigua, e in questa aperta ambiguità si palesa probabilmente la grandezza e l’istinto poetico dello stesso Platone, teso tra la seduzione dell’arte (in cui era versato) e le necessità di un manthanein (ovvero apprendere in senso matematico) scevro da emozioni perché stabile e autosufficiente, nell’oggetto e nei modi d’apprendimento. Socrate e Ione apprezzano entrambi la potenza di una grande catena emotiva che si comporta come un magnete nei confronti di anelli di ferro: il magnete agisce sul primo anello, e la sua potenza si propaga sugli altri, avvincendo tutte le componenti della catena in un’unica potenza: tale è la dynamis del dio, in arte: tale è la potenza delle Muse (ovvero l’elemento divino, personale, ispiratore) che sconvolge e insieme regola e istruisce e apre la mente del poeta: questi compone, adeguatamente ispirato; e a lui è legato il rapsodo (che Ione rappresenta come categoria), ovvero l’interprete, che è dipinto come l’hermeneus, il nunzio, l’anello centrale e decisivo di questa catena che si estende anche al pubblico: una catena di indiati, di entusiasti nel senso etimologico del termine. Enthousiasmòs è vocabolo che connota un “essere nel dio” da parte dell’artista e dei fruitori insieme (en: dentro e, secondo una interpretazione che assegna alla particella en valenza diversa, per cambio di spirito, en significa anche Uno; theòs: dio, il divino: Dunque: essere uno col dio). 

Qui notiamo una interessante polarità (verità stabile e teoretica o piuttosto seduzione dell’arte, del corpo, della memoria inconscia? Contaminazione con il pubblico o ascetica solitudine in vista della Verità?) presente pure nel raffronto tra Gould e Arrau e che vedremo più da vicino tra qualche giorno: l’uno, Gould, orripilato all’idea del pubblico e della vicinanza fisica, della comunicazione emotiva immediata, irriflessa e circense che altera e svia e involgarisce il messaggio; l’altro rapito e ingaggiato proprio nell’afflato con il mondo, una fetta significativa e motivata del quale è intervenuto al concerto: un mondo di uomini, con il quale Arrau sente di condividere drammi, miti e passioni. Gould contrario ad ogni automatismo, Arrau consapevolemente consegnato a un senso creativo del corpo – un corpo sapiente, un corpo-guida – e della Voce, in modo che le partiture più drammatiche siano da lui interpretate come da un io multiplo, percorso da più voci.

Seconda parte…