Aleksandr Skrjabin tra musica e filosofia (seconda parte) | Filosofia dell’interpretazione musicale

Qui la prima parte.

Sesto paragrafo di Ljuba.

La rivoluzione sensoriale, cominciata con Rimbaud, ha radici filosofiche in Leibniz. Con le pétites perceptions Leibniz inaugura il filone inconscio della percezione sensoriale, in seno però a una visione ontologica complessa: l’uomo vi è incluso come monade tra monadi, e – nello stesso tempo, come tutto quanto l’universo – come monade fatta di monadi. Cosa è monade, infatti? Monade è mattone dell’universo e anche nome di ogni sostanza unitaria e unica. E tutto è unico per Leibniz: viviamo difatti nel più ricco dei mondi possibili, ove è ontologicamente errato ipostatizzare la presenza di due res identiche tra loro (giacché, se solo per un istante dovessero darsi, per il principio d’identità degli indiscernibili collasserebbero l’una sull’altra: e il collasso darebbe luogo a un solo ente di cui non esiste replica). E tuttavia le monadi, tutte e ognuna, cospirano affinché la dinamica dell’universo consista in un riflettere e in certo senso compiere Dio stesso, Monade contenente ogni altra monade – Monade perfetta eppure desiderosa di Compimento. E’ la materia, per Leibniz, a esser dato fenomenico e non-ultimo. Il dato ultimo è la forza orientata, in cui la natura di ogni monade – anche di Dio – consiste.

Ora: è Skrjabin il compitore di una filosofia leibniziana portata alle estreme conseguenze: è Skrjabin, e solo lui, a trattare il materiale tematico in senso monadico-leibniziano, e insieme cosmico; a riflettere sulla unicità e lo statuto particolarissimo degli stati di coscienza – anch’essi monadi. L’Artista può comprendere, esprimere, sintetizzare e dinamizzare, attraverso la musica, ciò cui la monade-Dio aspira a ogni momento: il compimento attraverso la storia dello spirito, che è vicenda divina raccogliente ogni ente, e vicenda di ogni ente in Dio, e grande vicenda della Coscienza. 

E storia dello spirito, che è storia  del mondo, è ogni opera skrjabiniana matura. 

Un passo ancora: la missione dell’Artista assumerebbe qui una imprevedibile portata messianica. E’ l’arte, qui, che redime e compie Dio stesso, e porta tutto – Tutto, ovvero Dio – verso la Salvezza e l’autoconoscenza.

Ecco un portatore di Luce, dunque, che pretende di salvare e compiere Dio: poteva salvare se stesso, ed essere ponte? Probabilmente no: da qui, forse, la bruciatura delle ali, il volo d’Icaro, il fatale ammutolimento. 

Commento –

Commentiamo solo condividendo il pezzo più gnostico di Skrjabin, Vers la flamme op. 72, suonato dal vivo dall’incredibile Heinrich Neuhaus, insieme al disegno più leibniziano di Skrjabin: il lettore-ascoltatore capirà.

Heinrich Neuhaus plays Scriabin “Vers la flamme”

 

Settimo paragrafo di Ljuba.

 …Eppure lo Skrjabin maturo non dice mai: Dio (eccettuati i radi passi in cui, in chiave totalmente fichtiana, Qualcuno in lui urge, si amplia e dichiara: Io-Sono-Dio). Adopera, di regola, termini come il Divino – l’Universo – l’Io.

Lo dice, invece, lo Skrjabin vicino alla krisis, al Mysterium – con tutto un rinominare, e un protendersi verso l’ascolto e l’indagine delle forme di una vita cristica precedente l’incarnazione. Fatto inaudito!

Ma quale la transizione da un universo gnostico, fondamentalmente greco-dionisiaco (in cui Skrjabin aveva voluto approfondirsi, e che aveva scelto come unico, felice, lucente orizzonte espressivo) ad altra dimensione di cui Skrjabin non ha precisa contezza e che tuttavia in lui e fuori di lui serpeggia e chiama? – riguadagno problematico della divinità personale, che si presenta dinanzi ai suoi occhi con miti e vicende sì ancora gnostiche, ma di matrice criptoebraico-cristiana.

Eppure il ponte (lui, Skrjabin stesso) sta forse in alcune componenti interne al Rito, inteso non come semplice concerto la cui funzione meramente intrattenitiva è aborrita da Skrjabin, ma come Evento liturgico totale. 

Dove rintracciare un parallelo, affinché abbiamo idea della nobiltà messianica dell’orizzonte, e della sua originalità?

Vladimir Solov’ev costituisce per noi una valida guida.  Genio assoluto, innamorato della grandiosa idea di una Conoscenza integrale (così si intitola la sua più ambiziosa ricapitolazione del Sapere, naturalmente incompiuta), Solov’ev si sofferma sul rito agìto, in chiesa, da uno ierofante che ha i tratti del Sacerdote-Mago (figura, quest’ultima, cara a Skrjabin). Immerso in – e fautore di – un’atmosfera profondamente sinestetica, lo ierofante percorre a passi danzanti l’intera navata della Cattedrale: il “sentiero” è sacro. E’ canale, ed è Sofia Meter, al cui mistico Nome la Cattedrale è dedicata.   Costellato alle pareti da mosaici recanti le figure stilizzate di tutto ciò che esiste, tale cosmo in miniatura prende a muoversi, animato com’è dai suoni e dai gesti, diretto verso il compimento in Cristo. il Pantocrator è ricapitolazione e trasfigurazione e meta di tutte le cose – telos dell’intero cosmo; ma è qui soprattutto l’esito del mistico parto, l’Antichissimo Figlio della Madre.

Commento – 

Sì, è qui, nella Russia mistica, che sopravvive il culto pregreco della Potnia, intesa in tutta la sua ambigua potenza: potenza assoluta, autogenethlos; ma anche potere di diminutio e autonascondimento, di oblazione e ombra. Sentiero, Via Ella stessa, e prima di tutto. Oh sì: questo è un tassello indispensabile per comprendere l’ultimo, il misterico Skrjabin. Innamorato della Madre del Mondo, egli stesso se ne sente il novello Sposo-Cristo – pur seguendo, di quel Cristo, i tratti e la Voce, come si segue l’eco e la vaghissima traccia di un innamorato ignoto.

Ma l’altra\Altra, quella che “ha gettato il seme” nascondendosi, quella cui si deve ogni cosa, è lei, la Donna.

Torneremo sull’argomento nella prossima puntata dedicata al Mysterium.

 

Ottavo paragrafo di Ljuba.

Le parole della filosofia.

Oh, certamente: deve esserne rimasto catturato, innalzato, redento.

Eccolo girare inquieto e innamorato attorno a un misterioso tavolo sotterraneo pieno di testi parlanti – tavolo destinato a emergere come desco di lavoro, come baluardo, come scudo, come manifesto; e poi al caffè di Bogliasco, munito di quaderno, a scrivere, a fare pensiero – conscio di un immediato, faustiano riflesso: pensare è agire, e agire è comporre – e comporre è fare il mondo, e pensarlo, e viverne la storia e la genesi benedetta, ogni volta – e provocarla.

Così, arcaicamente, egli vive i typoi di tutte le cose, persuaso com’è, con Schopenhauer, che “una quercia porti con sé milioni di querce” – residuo piramidale, platonico, tinto di idealismo particolarissimo che vive di musica e la sente, e ne sente costituito l’universo stesso.

Volontà di vivere – e Skrjabin è d’accordo – è musica, perdio!

E Musica è il modo di restituire il mondo, dallo stato di rappresentazione, a quello di volontà autocosciente: qui la sintesi, in Skrjabin, tra la cecità impersonale della Volontà schopenhaueriana e l’elevazione alla coscienza-Dio cui tende l’intero universo come sommatoria dinamica di monadi.

Così, il volo è contemplazione e annullamento dell’uomo-Skrjabin, ora disperso e insieme precisato nei ritmi e nelle figure musicali di tutte le cose, che per lui si compiono.

Commento –

Nella Sesta Sonata siamo spettatori agiti e compartecipi di una Forza che tutto organizza, a cominciare da se stessa. Il sogno – del dio – prende forma (batt. 1 – 15). E’ divinità meravigliata di sé, che si sveglia a stessa e si conosce, in circolo, e, sorpresa della propria audacia, tesa verso la contemplazione della propria bellezza, si scopre sinistramente potente.

Qui la determinazione a definir-si e a creare (batt. 39 – 52)  è testimoniata dalla elevazione verticale che la divinità pronuncia.

Con Skrjabin diremmo: Chi misteriosamente in noi si risveglia?

E quando l’Epouvant sourgit (batt. 112 e segg.) non è come nella Nona, dove l’apparizione della bestia trionfante si compie tra le rovine di fuoco del mondo, di cui Essa è regina: no, qui è una Forza che si autoafferma per tre volte, a dimostrazione del fatto che sua è la maternità di tutto ciò che è, è stato e sarà. 

Suoi i movimenti tourbillonantes, riso divino spontaneamente creativo, sfrenato, breve divertito comando capriccioso (batt. 92 – 105).

Avec une joie exaltée, divinamente scomposta, il principio femminile non sa nascondere la propria natura anche quando parla sottovoce (batt. 198). 

Figura dispotica, simile ad arcaiche deità, essa estrinseca spensieratamente il proprio indocile volere. Questo elemento di sottile empietà contribuisce alla sua inquietante grandezza: che meraviglia!

https://www.youtube.com/watch?v=K2GrdEENskc

 

Nono paragrafo di Ljuba.

L’inondazione del giallo, del blu, del verde, delle gradazioni di rosso, del violetto, e la vertigine  onnicomprensiva  del bianco, e, di nuovo, la follia ostinata del giallo che si impone “come un cri“, e che raggiunge, come in Van Gogh, alte, pericolose note vicine alla luce gnostica… E infine il quadro fatto del divenire cromatico e sensoriale della musica, che è architettura di rapporti, di proporzioni sonorizzabili e dunque colorate. Tutto dunque suona! 

Fino a dove? Sino a quando…?

Una cosa è certa: con la Decima op. 70 avviene il Trapasso.

Questa Sonata per davvero superumana ha un inizio-luce che va assaporato con tutti i sensi (l’immenso Sofronitzkj ne ha reso dinanzi a noi l’inconcepibile forma). C’è vibrazione elettronica: non precisamente materia.

Significativo è anche l’immaginario che accompagna la genesi di tutta quanta l’opera: caldo e insetti. E pare che Skrjabin usasse dire, a commento di questa sua Sonata: 

Il sole scende e bacia la terra; gli insetti sono baci del sole portati alla vita“. 

L’alato vibrare dei piccoli esseri è espresso dall’uso parossistico e praticamente continuo di trilli e tremoli. 

Le api non sono forse thrìai in greco? 

E non è da questo incessante, primordiale vibrare, che deriva trillo

C’è forse, nella vibrazione, l’intuizione di una dimensione altra del tempo? Non è improbabile (batt. 57 – 70,  e le incredibili 211-218, da osservare anche graficamente).

La Decima è certo la Sonata più enigmatica e rivoluzionaria: curioso come, giunto sulla soglia del Mysterium, Skrjabin sia deceduto… a causa di una puntura d’insetto! Senza indulgere in assurda superstizione, senza voler apparire vuotamente escatologici, azzardiamo un’interpretazione simbolica forse non priva di senso: è possibile, uomini, che la Divinità gelosa non dia consenso a che l’atto rivelatorio venga compiuto quaggiù? Quasi che, alla scoperta della Verità da parte di Quel Solo, segua necessariamente follia (e cioè ammutolimento del Veggente, che non pronuncerà che vuote farneticazioni agli occhi dei mortali rimasti al di qua della sponda) …o morte?

Straordinario l’inciso “di elevazione”, non più chiuso, ma teso verso un vogare sempre più alto, su su verso vette di cui non vediamo la fine, in attesa aperta di ciò che avverrà (batt. 73 e segg, Avec une joyeuse exaltation).

E poi, la fine: ad essa si attaglia il detto forse più enigmatico di Skrjabin:

L’ultimo istante è assoluta differenziazione e assoluta unità.

Qui non c’è apoteosi, ma finalmente libero gioco di pochi elementa individuali che danzano in una dimensione atomica e scissa, ormai completamente affrancata da qualsiasi contesto corporeo, in corsa verso il silenzio (batt. 306…sino alla fine).

Commento –

Rimandiamo direttamente all’Esperienza:

https://www.youtube.com/watch?v=oFn6202nrqk

 

Ottavo\bis paragrafo di Ljuba.

Nietzsche in Skrjabin.

E’ questo un capitolo possibile e mai scritto.

(Segue un vuoto nel manoscritto di Ljuba. Ricomincia qui, sempre alla voce Ottavo\bis)

…Notevolissimo il finale della Quarta Sonata op. 30, che è poi il ponte verso lo Skrjabin dionisiaco e più originale.

Oh, sì, nei pezzi a finale bacchico siamo trasportati in un girotondo orgiastico, in una selvaggia danza in cui l’uomo, ritornato ai valori della terra, sprofonda sino alle più calde e primigenie fonti della vita, ebbro del contatto col dio: il finale della Quarta è un’orgia dionisiaca nel senso più proprio del termine. 

E grande deve essere la maestria del pianista, travolto dalla danza e contemporaneamente lucido suscitatore di Musica.

E la Quinta! Questa ha un inizio sconvolgente, almeno pari alle parole che lo precedono:

O forze misteriose, io vi chiamo alla vita!

Sepolte nelle oscure profondità

dello spirito creatore

timidi germogli di vita

Io vi porto l’audacia!

La scena è grandiosa e irrompe improvvisamente.

Il Mago è qui al centro di ogni evento; egli agisce, per conto della divinità, tutto questo meraviglioso rituale iniziale che consiste nella tratta fuori, dal calderone degli elementi, di luce, vita, materia. 

Bagliori improvvisi si stagliano sul gorgoglio ribollente continuo e divino: con gesti sempre più frequenti e imperiosi, dopo le prime tre righe già i Princìpi sono tratti all’esistenza. Li vediamo balenare dinanzi ai nostri occhi stupefatti, comete luminose e dense di materia infiammata ancora informe. Ora aspettiamo, a bocca aperta, di apprendere dal resto cosa ci riservi questa singolare cosmogonia.

Poco dopo, una gioiosa calma divina si impossessa di tutte le cose.

 (La Quinta è, probabilmente, assieme alla Decima, la Sonata più gioiosa di tutte. La Decima tuttavia ci appare più esaltata, tutta troppo vicina alla fiamma e caratterizzata da una certa perdita di contatto con le zone più gravi della materia – e per questo è meravigliosa. la Quinta è invece ancora tutto un poema terrestre).

La libertà ritmica della sezione languida (batt.13 e segg.) è audace e significativa: nulla poggia sulla terra ma tutto è leggermente sospeso e pronto a divenire tumulto ed estasi con la danza (47 e segg: Presto con allegrezza).

Il Mago-Sacerdote che agisce il rito è giusto il concertista, sul quale convergerà l’attenzione del pubblico di iniziandi, senza dubbio – pensa Skrjabin – intervenuti per assistere ad un evento fuori dall’ordinario, disposti a far sì che – dopo – la loro vita muti e si rigeneri…

C’è volontà di soggiogare e affascinare, di materializzare emozioni e narrare eventi primordiali che appartengono a tutti: come? Raccontando e mimando, ed impersonando, in breve diventando egli stesso le forze implicate nel dramma; forze autogenerate e antagoniste, che il Mago tutte padroneggia; psicopompo, stregone nel senso più russo del termine, drammaturgo e virtuoso, egli è agìto dalla musica eppure fautore e produttore indispensabile della Rivelazione.

Né si deve credere che tali istanze siano solo skrjabiniane. Leggiamo, a titolo di brevissimo esempio, le parole di Busoni sul concerto:

L’ingresso in una sala da concerto dovrebbe promettere le cose più impensate e condurre gradatamente dalla vita profana a quella interiore. Passo passo lo spettatore verrà condotto nel tempio dello Straordinario“.

Qualche parola sull’epilogo della Quinta Sonata: se sconvolgente è l’inizio, scioccante è la fine.

La vicenda giunge al culmine quando masse di materia, vita e luce si avviano verso la sottomissione alla divinità imperiosa che stavolta non attraverso il Mago ma – sembra proprio – personalmente (la scena è apocalittica, molto diversa dall’inizio) interviene l’ultima ascesa di tutte le cose verso l’Assoluto.

E’ come se, dopo il gioioso imperioso comando, tutto si condensasse in una danza rutilante dai movimenti non più percettibili. Possiamo solo notare un ribattere di tutte le cose, un terremoto di elementi che avoca a sé ogni possibile contenuto di vita, dal basso, preparandosi per l’ultimo volo.

E poi, tuffo nelle viscere della terra ed elevazione verticale e restituzione all’Uno.

La fine di questa Sonata ricorda da vicino quella del Poema dell’Estasi (le due opere sono contigue: op. 53 la Sonata; op. 54 il Poema). L’immaginario di chi ascolta visualizza e vive una conflagrazione universale verso un unico centro di fuoco e massa e luce piena…da cui, un giorno, forse, tutto riesploderà…

Il ricominciamento è però qui da venire. Alla riformazione del brodo primordiale qui nella Quinta Sonata noi non assistiamo: siamo solo testimoni partecipi della grandiosa conflagrazione di tutte le cose verso il fine ultimo.

Commento –

Quanto alla vaga e sospesa allusione a Nietzsche, la questione è tutta da riempire, nonostante, in realtà, ad oggi molto sia stato scritto in proposito: la relazione resta però un problema aperto. Approssimarvisi è però possibile, con l’ascolto di Horowitz che suona la Quinta, guidati dalle parole di Ljuba!

https://www.youtube.com/watch?v=vABpOrrBPuQ

Qualche tipo di mistero ontologico deve poi essere contenuto nella scelta, da parte di Ljuba, di provocare una specie di moto retrogrado nella numerazione dei paragrafi. Non credo che la cosa sia casuale: le pagine bianche dopo l’ottava riflessione avrebbero potuto essere facilmente riempite dal contenuto dell’Ottavo\bis, che segue il Nono.

Che significa – se ciò ha un significato?

Ebbene nel Timeo platonico che troviamo traccia di un’essenza paradossale del corpo-logos che inclina verso l’inversione di precedenza tra l’otto e il nove (Platone, Timeo, 35b – 36e). L’ordinamento demiurgico stabilisce qui due basi matematiche del mondo che danno luogo ad altrettante scale numeriche disposte in ordine crescente. I due gruppi procedono però solidalmente e formano una progressione unica ove il nove precede l’otto (sic!) nella successione. Secondo Alain Daniélou questo dato è leggibile come riflesso, e a propria volta causa, di un ordine del mondo conflagrato e spiralico che produce i suoi effetti anche nella musica (Alain Daniélou, Traité de musicologie comparée, Paris, Gallimard 1959, p. 127). 

 

Decimo paragrafo di Ljuba.

L’apertura e la caduta delle mura.

Il disegno è di Skrjabin: un edificio immaginifico, emisferico ma riflettentesi entro uno specchio d’acqua capace di replicare se stesso a contrario, chiudendosi in guisa di Sfero. L’idea di cono rovesciato è alchemica e lunga, e investe il linguaggio e il suo potere. L’edificio – il suo proprio Globe – non è chiuso, ma atto a recepire ed emanare influssi complessi: le dodici porte ne sono la prova, come le stelle in prossimità della cupola.

Ora, Skrjabin distrusse, idealmente, quelle mura. Dopo, cioè, avere accuratamente architettato la sua propria Città del Sole – munita di una ferrea  logica ingegneristico-acustica nonché armata di segni ed equilibri matematici e magici, atti a provocare ricezione e amplificazione del Messaggio, cioè iniziazione subliminale – Skrjabin sente che le mura sono angusto limite, e ne distrugge e apre l’assetto.

Il chiuso non gli appartiene più. Questa la primizia del Regno. E in questo preciso senso va inteso il titolo di ciò che rappresenta certo un affacciarsi sul poggiolo estremo del Tempo e del nostro mondo, ancora irredento: Atto preparatorio, ovvero primigenio.

Egli immagina ora in modo audace e folle, e fiabesco e misterico. Il Rito avrà luogo in natura – crede di individuarne l’omphalòs in un luogo sito alle pendici dell’Himalaya; e colonne d’incenso color violetto reggeranno intere impalcature invisibili e realissime. La proporzione matematica e il rapporto sono ora ragione e sostegno dell’Essere, che qui si farà musica, ed era  (nel senso profondamente filosofico del termine) originariamente musica.

Quello, non il chiuso, il suo Theatron, dimodoché ogni cosa sia investita dal miracolo orfico e ne senta il richiamo e vi risponda. La vita stessa (multiforme e terribile) sarà resuscitata a una Vita originaria, restituita alla sua prima facies (acustica); trascinata e svegliata a una danza oltrematerica, si predisporrà a trascendersi nella più assoluta, vuota spiritualità – vuota perché densa d’essere, che è Musica.

Tutto questo è inquietante, e già votato allo scacco.

Cosa aveva visto, dunque? Quale compimento? E dopo? Il Regno…?