Mano e cervello | Filosofia del corpo musicale del direttore d’orchestra

Là dove va la mano va lo sguardo,
là dove va lo sguardo va lo spirito,
là dove va lo spirito va l’emozione,
e là dove va l’emozione nasce il rasa*

 

Nandikeśvara, Lo specchio del gesto 

 

La filosofia occidentale ci ha sempre invitati ad operare un gesto quasi anatomico di dissezione tra la dimensione intellegibile e quella sensibile, tra anima e corpo, tra razionalismo ed empirismo, è storia antica. Uno sdoppiamento che ha “naturalmente” determinato condizioni di disparità tra i diversi elementi che venivano di volta in volta disgiunti con l’intento di attribuire quasi sempre un primato a tutto ciò che fosse incorporeo. Questo processo ha ovviamente coinvolto anche la musica che nel tempo, da pratica legata ad una cultura del corpo, è divenuta pensiero, scrittura, notazione, analisi, estetica. Basti osservare come nei Conservatori da molto tempo, lo scriveva già nel 1936 André Shaeffner, la musica sia ormai più un’attività «legata alla carta che al corpo».  

La riflessione sulla filosofia del corpo musicale del direttore d’orchestra che vorrei avviare con questo primo scritto muove, peccando forse di un certo velleitarismo, da una volontà opposta a quella appena enunciata, una volontà adualistica tesa a rinsaldare ciò che è stato irrimediabilmente diviso. Per cercare di riunire livelli ontologici separati non si potrà che partire dal corpo, non come luogo al quale imporre antecedenti psicologici, pensieri, idee, non semplicemente come quella res extensa a cui la filosofia moderna ci rinvia costantemente, bensì come luogo autonomo di senso, come luogo primo dell’azione. Con una certa enfasi potrei far mie le parole di Faust quando afferma «In principio era l’azione» frase che, come è noto, Goethe contrappone all’evangelico «In principio era la parola» intuendo la necessità di un capovolgimento di paradigma.

E che in principio fosse l’azione, e quindi il corpo e il gesto, è una tesi che ritroviamo anzitutto in diversi lavori di antropologia come quelli dello studioso francese André Leroi-Gourhan. Nei suoi due volumi intitolati Le geste et la parole, ripercorrendo il passaggio che portò l’uomo all’acquisizione della posizione verticale e alla conseguente liberazione di quelle zampe anteriori che divennero braccia e mani perdendo così la loro funzione locomotoria, scopre che le prime forme di tecnicità furono precedenti allo sviluppo cerebrale. Nella lunga storia della coppia mano-cervello, la liberazione della mano non apparve più come la conseguenza, come il prodotto dell’apparizione del pensiero, ma, al contrario, come il suo stesso motore : «è la mano che libera la parola […] tutto sembra dimostrare che l’apertura del ventaglio corticale avvenga in fasi che seguono l’evoluzione posturale» scrive Leroi-Gourhan. Un’affermazione molto vicina a quella che il suo maestro Marcel Mauss, padre dell’antropologia francese oggi conosciuto soprattutto per il suo Saggio sul dono, scriveva con altrettanta convinzione in apertura del suo breve testo Les technique du corps : «bisogna procedere dal corpo, dal concreto all’astratto, e non viceversa».  

I riferimenti filosofici in tal senso sono innumerevoli. Come non citare Spinoza, la cui riflessione sembra attraversata da una tensione quasi febbrile sul corpo che lo porta a considerare le idee delle mente solo come rappresentazioni degli eventi che hanno luogo nel corpo. Lo afferma chiaramente nella terza parte dell’Etica dove scrive : «quando gli uomini dicono che questa o quell’azione del Corpo deriva dalla Mente, la quale ha dominio sul Corpo, non sanno che cosa dicono e non fanno altro se non confessare con parole speciose di ignorare tranquillamente la vera causa dell’azione. […] Quelli, dunque, che credono di parlare, o di tacere, o di fare alcunché per libero decreto della mente, sognano ad occhi aperti» (Etica III Prop. 2).  Forse è inutile ricordare come Spinoza, su questo tema, sia stata una presenza costante nella riflessione sul corpo di un filosofo come Gilles Deleuze, un legame rintracciabile in molte sue opere ed in particolare nelle sue lezioni all’Università di Vincennes del 1980/81 intitolate, non a caso, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza.

Un secondo riferimento non può che essere a Nietzsche. Già le sue prime opere indicavano nel corpo il nodo cruciale d’ogni pratica genealogica ben prima dello Zarathustra che esalterà, nel celebre paragrafo Sui dispregiatori del corpo, la smisurata saggezza di un corpo descritto come « possente sovrano ». Infinite le tracce che seguono «il filo conduttore del corpo» [Leitfaden des Leibes] come percorso di indagine sulla mente : «finché la mente si è guardata allo specchio non ne è derivato nulla di buono. Soltanto oggi che si cerca, attenendosi al corpo come filo conduttore, di imparare qualcosa sui processi della mente […] si stanno facendo i primi passi» (FP, 1884 26[374]) ; «ci sono solo stati corporei: quelli mentali sono solo conseguenze e simbologia» (FP, 1883 9[41]); «La credibilità del corpo è la sola base secondo la quale si può apprezzare il valore del pensiero» (FP, 1885 39[18]). Solo alcune brevi citazioni tratte dai frammenti postumi del periodo in cui Nietzsche sta lavorando alla Zarathustra.  Osservare, indagare la mente dal punto di vista del corpo è il tentativo che Nietzsche compie per uscire dalla circolarità autoreferenziale della mente che osserva se stessa. Di qui l’invito che Nietzsche ci rivolge senza indugi: «Capovolgiamo le nostre idee! […] il mentale è da ritenersi il linguaggio di segni del corpo!» (FP, 1883 7[126]).

Ed arriviamo al corpo del direttore d’orchestra. Un corpo solitario e silenzioso che gesticola al centro della scena imponendosi con le sue movenze, le sue posture, il suo piglio, il suo contegno o la sua esuberanza gestuale a musicisti e ascoltatori. Su questo corpo, che appare padrone di sé come « sanno esserlo a volte i clown o i preti », scriveva Cioran, su questa presenza inaggirabile nelle sale da concerto e nei teatri, non si è mai attivato un vero interesse di studio, un campo di ricerca, una riflessione approfondita. Molti sono gli scritti che trattano della figura del direttore d’orchestra nel suo complesso: quelli di natura sociologica che si soffermano in particolare sul suo ruolo di comando e di guida – penso ad Adorno o a Canetti – oppure quelli biografici o manualistici che, troppe volte, si limitano all’aneddotica o a sterili classificazioni di percorsi gestuali da far compiere al braccio per rappresentare la metrica delle misure musicali messi in relazione a vaghe e personalissime teorie interpretative. Insomma, nulla sul corpo. La lettura di questi testi, da Berlioz a Wagner, da Weingartner a Scherchen fino a Swarowsky, così come alcuni scritti o registrazioni video delle conversazioni con direttori che hanno svolto anche attività di insegnamento come  Ilya Musin e Jorma Panula (non cito in questo elenco Celibidache al quale dedicherò un successivo articolo), ci mostra come tutti condividano, con pochissime differenze tra loro, i principi che ispirano la dicotomia cartesiana che separa la mente dal corpo, la coscienza dal mondo. Mente e coscienza si immaginano abitate da percezioni sonore e da ritmi incorporei, da voci interiori che non attendono altro che manifestarsi attraverso i gesti di un corpo che viene inteso o semplicemente come mezzo, come tramite che dovrebbe incarnare quella che viene definita “idea musicale”, “immagine sonora”, “pensiero interpretativo”, “visione del brano” oppure, con un pensiero ancor più idealista e trascendente – Furtwängler ne parla in alcuni scritti – come oggetto impersonale, separato e distante, al quale non rivolgere la minima attenzione. Un corpo estraneo, abbandonato a una gestualità che deve scaturire spontaneamente, in modo inconsapevole per non rischiare di contaminare la “relazione naturale con l’idea musicale” che deve rimanere intatta nella sua fisica “immaterialità”.

Il resto dei trattati espongono teorie che nascono più dalle aprassie di gestualità incarnatesi loro malgrado nel corpo dei direttori/maestri, gesti e comportamenti poi assunti nei loro manuali come norme inviolabili. Nulla o quasi che sia portatore di un senso profondo, di un’interrogazione che non si limiti alla replica di schematismi  “tecnici”. Manca un lavoro che possa considerarsi analogo, ad esempio, a quelli che ritroviamo negli studi sul corpo nel teatro o nella danza. Basti pensare alle riflessioni di Jerzy Grotowski, Peter Brook o Antonin Artaud nel teatro di parola o a quelle di Étienne Decroux sulle tecniche del mimo. Così come nella danza dove si potrebbero citare decine di studi, eredità preziose del lavoro sul corpo fatto da coreografi come Pina Baush, Martha Graham, Merce Cunningham, Mary Wigman, Doris Humphrey e José Limón – questi ultimi direttamente ispirati a Nietzsche – o da teorici come Rudolf Laban. Lavori che, partendo dalla pratica corporea, hanno elaborato tecniche, fondato scuole ancora oggi vive non solo in termini didattici e produttivi, ma come costante occasione di ripensamento del lascito interpretativo dei diversi maestri. Per non parlare dei molti filosofi che si sono dedicati alla riflessione sul corpo nella danza come Paul Valéry, Jean-Luc Nancy, Maurice Merleau-Ponty solo per citare i più noti. 

In questa esplorazione sul direttore d’orchestra partiremo dunque dal corpo come orizzonte che si e ci disvela. Come potremmo fare diversamente trattandosi di musica il cui piacere, più di ogni altra arte, «è indiscutibilmente fisico, tanto violento e imperioso quanto quelli che soddisfano i bisogni elementari della fame, della sete e dell’amore» scriveva il filosofo francese Clément Rosset. Corpo, quindi, come bussola della nostra ricerca filosofica. Corpo come esercizio di musica e di vita. 

 

* Rasa, termine sanscrito polisemico, viene sovente tradotto con “succo” o “essenza”. Umberto Eco si interessò a questa parola nel 2005 quando tenne una conferenza dal titolo Rasa and Taste a difficult synonymy nella città indiana di Pondicherry per un “Transcultura meeting”. Di seguito un breve estratto del suo intervento: “I think we have identified at least 15 different aesthetic phenomena that I list by translating them in terms of Western aesthetics. “Rasa” can thus be translated as Homeopathic Catharsis, Allopathic Catharsis, Pleasure for the Imitation of a Passion, Pleasure due to the Inference from a Represented Passion, Perception of the Universal, Disinterested Pleasure, Pleasure for an Objective Linguistic and Rhetoric Strategy, Mystical Identification with the Divine, Competence to be acquired by cultural training, Perception of the Implicit, Taste-for, Taste-of, Psychological Phenomenon, Unspeakable Poetic Emotion, High Intellectual Knowledge. All of them cover in some way an aspect of the notion of rasa, without exhausting its whole semantic space. Not only, can’t they be accepted all together because if the rasa is to be identified with one of them, then it cannot be identified with the others”.