FINZIONI. Il Veicolo.
Questa puntata si lega alla precedente e alla futura, costituendo un trittico inscindibile intorno alla figura di Aleksandr Skrjabin.
Trattandosi della parte di mezzo, questa è delicata. Deve legarsi alle componenti filosofiche che informano di sé la musico-filosofia di Skrjabin – e al modo originalissimo in cui il Filosofo-Musico-Poeta traduce in opere la vita del pensiero; deve legarsi però anche a ciò che verrà dopo e che costituirà materia di indagine del terzo blocco: Mysterium in senso formale, nominale e mistico, ove molto sarà sospeso o fatalmente incompiuto; grandioso progetto skrjabiniano forse impossibile a compiersi, o possibile solo in senso messianico, redentivo, soteriologico, utopico… O no?
Mysterium è anche il nome di una crisi, difatti, che in Skrjabin serpeggia da tempo come fiume carsico, e che grava sul nostro tempo come enigmatica eredità.
La puntata di mezzo – questa – è dunque un grande raccordo, e il metodo scelto è, qui, poco ortodosso.
Naturalmente, un manoscritto.
Mi avvarrò cioè di un manoscritto ritrovato in un vecchio baule da una giovane donna di madre moscovita, avvezza a rapporti stretti con la filosofia skrjabiniana: dunque in grado di tradurne il lascito.
L’autore dello scritto non è Skrjabin, ma qualcuno che ne commenta i voli.
L’autore, o più precisamente l’autrice, è ignota, ma certamente è una skrjabiniana, della medesima intensità di Vladimir Sofronitzkij o della stessa Marina Skrjabina. Allora eccomi a condividere, e molto incompletamente interpungere con proposte di ascolto, ciò che lei, Ljuba (così la chiameremo), dice con problematica sintesi, acrobazia escatologica e rara e severa adesione alle cose.
Tecnicamente, non è nemmeno certo che si tratti di una donna: ma, mi permetto di dire, si sente che è così.
Chi scrive dispone di quella inesorabile sintesi, di quella diretta esperienza immanentistica del quid in oggetto che non lascia dubbi: sì, è una superiore mente femminile.
Di più: Ljuba è stata quasi certamente una grande pianista, anche se non è dato sapere quando sia vissuta, e come e perché la sua vita biologica e artistica si sia interrotta, e se si sia interrotta – o se invece la mirabile donna sia a qualche titolo ancora tra noi, a suggerire, a significare, a costruire. In ultimo, Ljuba riserva all’argumentum – certo uno dei suoi favoriti – un tipico approccio profondamente magico: è evidentemente persuasa del fatto che in letteratura – purché si sia onesti – “tutto sia permesso”, anche il volo della strega sulla scopa. Bulgakov, no?
Una parola sullo stato del manoscritto. Il piccolo quaderno contiene i dieci brevi paragrafi che qui vengono riportati per intero. La scrittura, a pennino e calamaio, è fitta, inclinata a destra; il corsivo cirillico, curato e insieme irregolare, reca tracce di una condensa esperienziale ispirata, che non saprei descrivere meglio. Agli occhi nostri si tratta però di frammenti di un discorso assai più corposo che tutto poggia sull’opera stessa di Skrjabin, nonché sul modo che Ljuba aveva di meditarla, assumerla e suonarla. È perciò, forse, che ogni aforisma dista dal seguente, di regola (con l’eccezione del secondo rispetto al primo), tre o quattro pagine, lasciate però in bianco – destinate forse a successivi interventi che qui ci permettiamo di interpungere e, un poco, riempire. Oserei dire che è su queste pagine bianche che si fonda il nostro diritto a interloquire con il testo di Ljuba e, per suo tramite, con il suo Skrjabin.
Riguardo ai salti cui il testo aforismatico di Ljuba amorevolmente ci costringe: è questo, forse (quello scelto da Ljuba), l’approccio a Skrjabin più fedele e innamorato, ovvero fenomenologico e immediato, sia pure non sistematico.
In ogni caso, il tutto assume la facies di una matrioska piuttosto complessa: anzi di uno gnomon – figura in cui ciò che è contenuto cambia il suo statuto ontologico in contenente, e il grande trapassa nel piccolo, e il prima nel poi e viceversa, e la matrice nella figlia – e ritorno.
Il manoscritto di Ljuba è accompagnato altresì da una sua breve dissertazione sui legami tra Skrjabin e Leibniz, qui solo un poco sfiorati. Questa nostra puntata, vincolata ai margini di un articolo, qui già forzati, non se ne occupa. Interessante sarebbe però dedicarvi un’appendice, dato che il materiale è già tradotto.
Primo paragrafo di Ljuba.
…Così, ascoltare e suonare Skrjabin significa praticare un triplo movimento: cedere alla necessità dell’identificazione – con i moventi e i moti dell’essere, con la vibrazione-trillo, con il sorgere di potenze e volontà, con l’apparire (desiderante) della vita; significa però pure – necessariamente, se si vuole indagare, in prospettiva, la profondità del Mysterium – assumere un punto di vista anche esterno a quelle cosmogonie sempre pervase dalla perenne seduzione del fare e del creare. Le opere più note e mature sono difatti sotterraneamente accompagnate da un sogno parallelo e contrario, il Mysterium, che in sé rema in direzione altra rispetto a ogni estetica già nota, e a ogni idea cristallina di chiarezza e di necessità interiore, ad ogni dionisiaca danza espressiva della sola vicenda dell’essere. L’idea del Mysterium conduce Skrjabin verso lidi sconosciuti che – egli stesso lo scopre con innamorato sgomento – l’Autore non può governare con gli strumenti e i fini già noti.
Ascoltare e suonare Skrjabin significa pertanto, in terzo luogo, mediare o meglio oscillare tra fenomenologia ed escatologia, e seguire, commossi, le rese degli araldi più potenti di Skrjabin: i suoi interpreti-apostoli. E dunque disporsi a ridiscutere la valenza stessa del sostantivo “concerto”, e il suo futuro.
…La musica di Skrjabin è, in certo qual modo, filosofia: è messa in atto di una creatio ab nihilo di cui siamo chiamati a fare da spettatori…Soltanto spettatori?
Non sembra. Piuttosto, Skrjabin ci vuole partecipi e sollecita in noi una catarsi dalla quale risorgere “rinnovellati di novella fronda” – e poi sempre nuova morte e rinascita.
L’itinerario che percorriamo insieme è perciò dapprima di conoscenza e approfondimento di tutte le cose e poi di subitanea elevazione verticale. Dal fondo, con un grido di luce capace di spingere verso l’alto di un balzo ormai incontrollabile, l’uomo raggiunge, guadagna la divinità e si riappropria della sua stessa natura divina.
Ci vuole partecipi, dicevamo: di che cosa? Non solo della fase finale dell’opera, ma anche della genesi dei suoi elementi
Il mondo stesso sorge dinanzi ai nostri occhi, “di là dagli spazi immaginari“, universo cartesiano di materia fluida ed enti matematici, di elementi evocati alla vita dall’Artista creatore e fino ad allora quasi inerti… È materia-forza che al comando del Mago si sveglia alla vita e comincia a muoversi organizzandosi lentamente, dopo il lungo letargo dell’Essere.
Quante volte sentiamo la trazione a stento dall’immobilità e sperimentiamo per davvero il concetto leibniziano di resistenza nella musica di Skrjabin!
C’è vita nella materia, o meglio la materia stessa è vita e principio di forza, divino e alato, interconnesso e fluido. mentre compone, Skrjabin si sente trasformato in onda, montagna, fiore, pesce, lago, deserto.
Dice:
“Sono carezza alata, fremo come un uccello\ Sono la lacerante\ Vivo come animale, come serpente che scivola e ondeggia\ Mi sono destata sulle acque, pesce nuotatore…”.
E poco prima:
“Mi sono riconosciuto nello spazio deserto, bacio del raggio e della terra arida e secca…“.
Illuminanti a questo proposito le parole dell’amico Boris de Schloezer, a testimonianza dell’arcaica e acuta sensibilità del musicista russo: “Skrjabin sentiva le montagne che lo circondavano come qualche cosa di montagnoso in se stesso: come un impeto di energia ascendente, di accrescimento di attività, seguito immediatamente da un caduta“.
Questi brevi versi di Skrjabin ne danno conferma: “(Le montagne) – Siamo slanci pietrificati\ di collere frementi \ le onde di tumultuose carezze in pietra mutate \ esplosioni per magia irrigidite \ cime nevose, valli, scarpate“.
Commento –
Esistono, come Ljuba suggerisce, interpreti skrjabiniani, la cui vocazione è riconoscibile. Quali i loro tratti? In primo luogo: un dionisismo marcatissimo che trasforma e invasa l’artista non appena cominci a produrre suono; un certo approccio razionale-analitico e insieme bacchico al testo e all’atto di suonare in pubblico, legato alla valorizzazione del gesto (che, potremmo dire, comanda ed è comandato): le due dimensioni convivono.
Eccone uno come misura d’approccio concreto a Skrjabin.
Il giovanissimo Valentin Malinin (n. 2001) ha un assetto fisico allo strumento che va notato: è spesso, come dire, a un passo dal volo: è difficile che stia ancorato alla sedia. A questo spinge la musica di Skrjabin.
https://www.youtube.com/watch?v=6CyDCQW6oHU
Valentin Malinin – Scriabin: Etude, Op. 65 No. 1
Secondo paragrafo di Ljuba.
La musica di Skrjabin è sempre completamente fatta per essere eseguita: fare significa mettere in scena, rifondare il mondo nell’ebbrezza dell’inizio, e statuire il tempo, alla cui genesi articolata spesso assistiamo. Tempo che muta aspetto durante il pezzo: che è accelerazione e infinito rallentamento, e poi di nuovo risveglio, e convulso addensarsi sino alla katastrophé finale; tempo che poi ricomincia a voler essere, sempre, e a pulsare di vita peracta; tempo rappreso verticalmente poi orizzontalmente sciolto e arricchito di deviazioni e fantastiche creazioni della Vita; tempo che si esprime in modi codificati dall’autore ma decisamente non convenzionali, danzanti, paradossalmente liberi. Questa è musica che non esiste senza l’uomo ma che precede e trascende e provoca la storia dell’uomo: e tuttavia, di nuovo, il provocatore di quegli esordi e di quel trascendimento è l’uomo inteso nella sua perfezione: il mago, potente evocatore di realtà. Ciò che non ci aspetteremmo: il mago per Skriabin è anche Messia, venuto a stravolgere ogni assetto temporale riconoscibile, figura dell’orlo e dell’abisso. Quale grande responsabilità ha il suo interprete!
Dovrebbe esser dato a tutti il privilegio di ascoltare Vladimir Sofronitzkij, in più sensi profeta del Compositore russo: egli esegue Skrjabin come nessun altro.
L’Ottava Sonata, per esempio: pezzo straordinario, si apre con forze invisibili ai comuni mortali: l’ipnotica immobilità dei primi accordi – ognuno contiene potenzialità ritmico-melodiche non ancora differenziate, racchiuse – è un gioco di mondi tra Giganti: puro palleggio di universi immerso in un’assoluta e conturbante fissità… senza alcun rumore.
Impegnato ad annotare quel che accade dentro di sé nel momento creativo, Skrjabin documenta attentamente la scoperta delle leggi della nascita e del divenire: “Ora… tutti gli elementi sono mescolati, ma tutto ciò che può essere… è là. Colori brillano, sorgono sensazioni e sogni confusi. Io voglio, io creo, io distinguo“.
Indaga poi sulla natura del tempo, in relazione al divenire sempre più differenziato di tutte le cose:
“L’espressione ‘io comincio’ non significa un qualsiasi istante del tempo, perché essa – la Realtà – non ha ancora tempo. Distinguo confusamente. Tutto è indeterminato. Non conosco ancora niente, ma avverto presentimenti e mi ricordo di ogni cosa. Gli istanti del passato e del futuro sono giustapposti: i presentimenti, i terrori e le gioie sono confusi“.
Poi, il compatto si scioglie. “Si conosce” per contatto tra le proprie stesse parti, cieche eppure spontaneamente tendenti verso un’armonia meravigliosamente casuale proprio perché – in un senso tutto da intuire e poi indagare – prestabilita.
Questo gioco di logiche necessità virtuali, molto leibniziano, condiziona l’evoluzione di tutta quanta l’Ottava Sonata ma anche larga parte della poetica skrjabiniana.
Commento –
Come si augurava Ljuba, abbiamo oggi il privilegio di ascoltare, e facilmente: qui il pianista è l’amato Vladimir Sofronitzkij (1901 – 1961), per davvero araldo di Skrjabin: ne aveva sposato la figlia Helena. Musicista immenso, dotato di grande fascino, figura tragica in più sensi, conosce e sperimenta la felicità della musica skrjabiniana e il suo assetto cosmico, cui dà vita persino entro scenari di morte: è noto che abbia suonato Skrjabin – le ultime Sonate soprattutto, così cariche di vita – durante l’assedio di Leningrado dinanzi a un pubblico lacero e consunto, ma assetato di spirito, che in concerto si ristora e spera e crede.
Vladimir Sofronitsky plays Scriabin Sonata No. 8 Op. 66
Terzo paragrafo di Ljuba.
Avvento. Matematiche?
… Potremmo dire quindi che ogni opera, in quanto cosmogonia strettamente teurgica, è avvento?
Certo è realtà disvelata nei suoi assetti nudi e originari. E’ schema matematico, è architettura audacissima: ma possibile solo in quanto fatta, suonata, esistente, vissuta, condivisa, recepita. Caduta a pioggia sul mondo da redimere, e affrancare, finalmente, da incantesimi pietrificati.
Quale Avvento? Certo, ascoltando l’inizio della Nona Sonata viene in mente la frase biblica: “Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque“. Suonatela! Il tranquillo succedersi di bicordi in croma – è una Sonata sorprendentemente matematica, Uno o Sfero in cui “una mosca non potrebbe penetrare e pungere” – suggerisce la presenza di una entità personale che vuole, tende, diversifica, inverte, stabilisce, pone.
Qui non c’è ancora puro gioco di materia spirituale come all’inizio dell’Ottava ma – mi sbaglierò – il Mago è più presente.
E l’imperioso comando sembra tradursi nella nascita (o risveglio?) della materia a secondo tema. Qui assistiamo per davvero alla genesi del cosmo, ancora fluido, che si affaccia puro e liquido al regno del Divenire.
E che dire dell’apparizione della Volontà schopenhaueriana?
Sì, converrà lasciarsi penetrare dalla valenza del piccolo inciso ascendente, in semitono, che ne inaugura l’avvento (batt. 32). Esso esprime, semplicemente, il movimento primordiale della vita: vita che nasce dalla non-vita e si affaccia per la prima volta, fibrillando e scintillando, all’essere.
Sottovoce, stupito spettatore di Qualcosa che si genera nelle profondità dell’anima, parla Skrjabin:
“Qualcosa ha iniziato a scintillare e a fremere, e questo qualcosa è l’Uno.
Questo Uno solamente è opposto al Nulla.
Esso è la possibilità di tutto… al di sotto della soglia della coscienza”.
E riguardo all’esattezza matematica: Skrjabin si esprime più volte e volentieri a questo proposito.
“E’ necessario che la Forma risulti perfetta come una sfera… Non posso terminare prima di essermi reso conto che la sfera è compiuta… nella composizione la matematica deve giocare un ruolo importante. Talvolta nelle mie composizioni si svolge tutto un calcolo matematico: il calcolo della forma… e il calcolo del piano della modulazione. Tale calcolo non deve essere casuale, altrimenti la forma non sarà cristallina“.
Ancora: la genesi dell’atto compositivo. Spesso la futura opera si presenta a Skrjabin nelle vesti di una visione geometrica, perfetta, compatta, che abbisogna solo di scioglimento e dipanazione.
Eppure, all’ultimo Skrjabin – o meglio lo Skrjabin presente a margine, che presagisce e cova il Mysterium – si adattano infinitamente meglio queste aforismatiche parole di cui non ricordo più la fonte:
“La chiarezza cristallina è, in ultima analisi, … la caratteristica dei pensatori di second’ordine. La ragione è che le grandi menti sono capaci di afferrare un concetto fondamentale molto tempo prima che il progresso dell’analisi lo liberi dalle oscurità e dalle difficoltà…”.
Commento –
…Ne consegue, diremmo noi, che talvolta le svolte, nel pensiero e nell’esistenza dei Grandi, sono caratterizzate da crolli e crisi, e da sentori oscuri di qualche cosa che urge – probabilmente, di altro e più speciale Avvento. Così capitò a Skrjabin con il fiume carsico che lo conduce verso il Mysterium, e che paradossalmente accompagna, come un discanto, tutta la sua produzione matura – e (lo vedremo) la contraddice.
Vladimir Sofronitsky plays Scriabin Sonata No. 9
Quarto paragrafo di Ljuba.
L’assolutezza di una musica cosiffatta implica linguaggio esattissimo, non equivoco, universale. Come Skrjabin pose più volte a se stesso il problema della sua lingua poetica, optando alla fine per il russo – ma si direbbe a malincuore, poiché aveva saggiato la ri-creazione di una lingua originaria che parlasse, come la musica di Orfeo, a ogni minuscolo essere, che movesse ogni pietra e ogni mente – così lo stesso Skrjabin ha da confrontarsi con una evoluzione sempre più raffinata ed esigente del suo materiale musicale: materiale che alla vigilia del Mysterium rivelava limiti da superare, materiali consunti e inadatti, scenari insufficienti, mediazioni troppo concrete e non commisurate all’Evento.
Ma cosa, qui sulla terra, è commensurabile a un Evento messianico? Chi è in diritto – e in grado – di propiziarne l’avvento? E a quale luciferino titolo? Da qui, naturalmente, l’eroismo e lo scacco, e il volo gnostico verso una fiamma che brucia senza consumare.
“Che accadrà, che accadrà!
Di nuovo sono trasportato su un’onda enorme di creatività!
Non perdo mai il fiato, oh quale gioia!
Per tutta la strada ero in estasi...”
Commento –
Nel Biograficeskij ocerk (Saggio di biografia) Boris Pasternak si esprime con acuta sensibilità dando prova di aver colto in profondità alcuni tra gli spunti più interessanti della poetica skrjabiniana, e regalando ai posteri preziosa testimonianza:
“Skrjabin mi conquistava per la freschezza del suo spirito: lo amavo fino alla follia. Nella primavera del 1903 mio padre prese in affitto una villa in campagna, a Obolenskoe (…). Vicino a noi abitava Skrjabin (…) e, proprio come nel bosco si alternavano luci e ombre, volavano di ramo in ramo e cantavano gli uccelli, così vi fluiva o vi irrompeva la musica del Poema Divino (la Terza Sinfonia), che veniva composta al pianoforte nella villa vicina. Dio, che musica! La sinfonia rovinava, sprofondava continuamente, come una città sotto il fuoco dell’artiglieria, e tutta si ricomponeva risorgendo dai frammenti e dalle rovine!
Essa traboccava di contenuto elaborato fino alla follia e nuovo, come nuovo era il bosco aulente di vita e di freschezza nella veste mattutina dei suoi germogli primaverili in quel giorno del 1903…”
“Spesso Skrjabin passeggiava con mio padre lungo la strada di Varsavia, che passava per quei paraggi. A volte io li accompagnavo. Piaceva a Skrjabin, dopo aver preso la rincorsa, continuare a procedere a salti, quasi per forza d’inerzia, e poco ci mancava che si staccasse da terra e si librasse nell’aria. Dirò in generale che egli sapeva raggiungere, sotto varie forme, una leggerezza spiritualizzata e muoversi vincendo la gravità, quasi volando…“.
Ancora Pasternak:
“… I ragionamenti di Skrjabin sul Superuomo esprimevano l’antichissima tendenza russa verso lo straordinario. In effetti, non soltanto la musica doveva essere una supermusica per significare qualcosa, ma tutti al mondo dovevano superarsi per essere se stessi: l’uomo – l’attività dell’uomo – doveva avere in sé quell’elemento di infinità che serve per determinare il fenomeno, per dare ad esso un suo proprio carattere“.
Quinto paragrafo di Ljuba.
E il ruolo dei Molti! Da un canto la folla è indispensabile; la natura anche: è anzi questo mondo il destinatario della redenzione.
Ma qui l’enigma: è possibile una redenzione inconscia, mediata, affidata a un solo creatore illuminato e santo? Abbiamo diritto di essere redenti da una danza che penetra nelle nostre coscienze dall’esterno, movendoci?
Cosa dobbiamo a questo pellicano che apre il suo petto? A questa novella, strana, figura cristica? e quale il suo destino!
Scavando nella sua stessa aiuola con l’antichissimo sogno di trovarvi belle intatte e dormienti, con un tesoro tra le mani, rinveniamo invece due vasti e impervi sentieri.
Il primo: quello legato alla tradizione greca, ove tutto è già accaduto: la creazione è qui spiegamento e traduzione di una visitazione chiarissima assimilabile ad ente geometrico perfetto (è qui l’esorcismo del romanticismo più pericoloso).
C’è però anche l’altro sentiero: quello dialogico e tragico, sotterrato ostinatamente da Skrjabin giovane e disilluso, deciso a puntare verso una emancipazione da qualsiasi speranza in un dio superiore. Dopo gli anni della prima giovinezza, caratterizzati da devozione e preghiera, Dio gli appare muto, sadico e impenetrabile.
“Chiunque tu sia, tu che mi hai deriso, che mi hai gettato in una prigione tenebrosa, che mi hai stupito per disincantarmi (…) ti perdono e non mormoro contro di te. Io sono vivo lo stesso, malgrado tutto, amo la vita, amo gli uomini – li amo ancor di più, perché soffrono (hanno espiato) per causa tua. Voglio dire loro che sono forti e potenti, che (…) non hanno perduto niente! Forte e potente è colui che ha conosciuto la disperazione e l’ha superata“.
Dati i due sentieri, regnano sovrane – per noi che ne siamo i lettori – l’incertezza e la domanda. Latet conversio, dunque? E la conversione avrebbe generato il mutamento, a tutti i livelli? Quale musica, dopo? Ammesso che la nostra ipotesi sfiori la verità, una cosa è certa: per ciò occorreva tempo, e capacità di decifrazione: l’ebbe? Il primo fattore gli mancò; il secondo: no, non l’ebbe – e probabilmente il secondo causò la mancanza del primo.
L’Edipo greco, comunque, cede il passo a figura più tormentata che non può più nascondersi dietro universali gioiosi, né dietro Arlecchini variopinti le cui vesti a rombi sono il riflesso di un fuoco invisibile: figura nuova, dunque, non più faustiana plasmatrice di mondi ma aperta all’incerto, che deve fare i conti con un Vieni e seguimi da troppo tempo ignorato, e in molti modi evitato.
Commento –
Paragrafo decisamente enigmatico.
Che aspetto aveva questo primissimo Skrjabin ragazzo e già geniale, disperato e tragico, poi superato da un Universale cosmico in cui la personalità stessa si risolve – dimentica di ogni dolore?
Ecco qui, in musica, il ritratto dello Skrjabin più dolente. Lo Studio in do diesis minore op. 2 n. 1 è suonato magnificamente da Vladimir Horowitz. Possiamo seguirne le polifonie intricatissime – e i rintocchi finali. C’è un’estetica delle campane a morto che è tipica del primo Skrjabin (fine Prima Sonata, per esempio), ma che è qui, forse, particolarmente commovente.
https://www.youtube.com/watch?v=NSsKJIzwapA
Cosa significa, poi, quell’enigmatica allusione all’universo greco, ove “ogni cosa è già accaduta“?
Massimo Recalcati è tornato più volte sull’argomento. A testimonianza del fatto che musica è umanità, e che essa musica veicoli istanze profondissime – mitiche e metafisiche – rimandiamo ai numerosi luoghi ove Recalcati tratteggia la differenza tra il fatum arcaico da una parte (non si può sfuggire alla profezia che ci riguarda, né al nostro destino: questa la forma e la ragione della tragedia greca) e il dramma e la responsabilità ebraico-cristiana della scelta, e dell’ignoto – del sempre possibile, dell’Altro, della domanda di senso che l’accompagna, dall’altra.