Nella spirale del tempo: la crepa della fenomenologia

Tra il 1917 e il 1918, durante due pause estive nella bucolica cornice della Foresta Nera, Edmund Husserl affidò ad una mole considerevole di fogli stenografati quelli che oggi sono conosciuti come i Manoscritti di Bernau, pervenuti all’Archivio Husserl di Lovanio nel 1969 e pubblicati nell’Husserliana solo nel 2001, sotto la supervisione di Rudolf Bernet e Dieter Lohmar (volume XXXIII).

I Bernauer Manuskripte si inseriscono nel solco di quella riflessione fenomenologica del tempo che Husserl aveva iniziato a esporre all’Università di Gottinga nell’inverno del 1904-1905. Attorno a quel primo nucleo di lezioni andarono presto ad aggiungersi nuovi manoscritti, rettifiche e tentativi di riscrittura, fino a fare della fenomenologia del tempo uno dei filoni più complessi e stratificati del pensiero husserliano, con buona pace per i curatori delle edizioni critiche degli scritti di Husserl.

Un aspetto interessante dei Manoscritti di Bernau è la loro struttura. Husserl si rende conto che nelle Lezioni del 1905 troppi interrogativi venivano lasciati senza risposta, specie per la piega (quasi)-aporetica che il tempo sembrava dare alla fenomenologia e al suo metodo. Ad essere messa in discussione era la legittimità stessa di una fenomenologia del tempo.

Occupandosi infatti della correlazione che sempre si pone tra atti della coscienza intenzionale e oggetti della realtà, Husserl aveva l’ambizione di descrivere l’esperienza temporale, cioè di fare del tempo un vissuto della coscienza. Poiché però l’esperienza si struttura su diversi livelli di senso, viene da sé che un’analisi fenomenologica di questo tipo poteva aprirsi fin da subito a diverse prospettive: ci si potrebbe infatti attenere ad una rassegna di quei molteplici fenomeni il cui tratto caratteristico è la persistenza nel tempo, avviando così un’indagine di natura descrittiva (o statica). Altra cosa sarebbe invece fare un’indagine sulle condizioni di possibilità d’esperienza di un oggetto temporale, dal momento che, in questo caso, si pretenderebbe di descrivere un vissuto di tempo risalendo al modo del suo costituirsi, al “come del suo come” [Sini, Introduzione alla fenomenologia, 2012, p.59]. Infine, se si considera che ogni esperienza è di per sé temporalmente determinata, un’analisi fenomenologica del tempo deve arrivare a porre il nodo di «una temporalità del processo in cui il soggetto entra in relazione con il fenomeno», dunque un livello che è insieme costituito e costituente: è costituito poiché assume il tempo come condizione di datità ed è costituente dal momento che influisce sulle modalità dell’esperienza stessa» [G. Iocco, 2011, p.1].

Puntando a fare una fenomenologia della coscienza interna del tempo, Husserl pretendeva di escludere quel tempo obbiettivo (il tempo degli orologi e della psicologia) che doveva piuttosto essere spiegato a partire dalla struttura fondamentale del tempo in quanto contenuto immanente. Il progetto è quello che Paul Ricouer definì una iletica del tempo, cioè la spiegazione di che cosa fosse il tempo a partire dal come delle sue manifestazioni.

Ma è proprio già nelle prime dichiarazioni che le Lezioni del 1905 si trovano di fronte a un’impasse piuttosto scomoda: se il tempo è qualcosa che viene appreso, «ci si può chiedere se tali apprensioni, per strappare l’iletica al silenzio, non devono prendere in prestito alle determinazioni del tempo obbiettivo, conosciute prima della messa fuori circuito. Parleremmo forse del sentito “al medesimo tempo”, se non sapessimo nulla della simultaneità obbiettiva, della distanza temporale, se non sapessimo niente dell’uguaglianza obbiettiva tra intervalli di tempo?»  [Ricoeur, Tempo e racconto, vol. III, 1988, trad. it. p. 39]. Il tempo obiettivo, cacciato per così dire dalla porta, rientra prepotentemente dalla finestra: Husserl finisce per utilizzare tutto un vocabolario temporale (durata, successione, fase…) che non ha alcuna legittimazione fenomenologica, cadendo in una petizione di principio.

 

Edmund Husserl (1857-1938), in un disegno di Arturo Espinosa (2012)

Il fatto è che l’aporia è intrinseca: ogni qual volta si cerca di mostrare il tempo, esso è, per così dire, già qui. Non solo perché non vi è alcuna esperienza nella quale il tempo ci sia dato come tale, ma altresì perché non è esiste un punto zero fuori dal tempo che la mia coscienza può ritagliarsi come punto di partenza per cominciare a osservare il decorrere di una durata, fosse anche quella del suo stesso atto intenzionale a cui dà vita. Spingendo infatti alle estreme conseguenze il discorso: se la coscienza continuamente fluente costituisce oggetti nel tempo immanente (ad es. il vissuto di una melodia), che tipo intenzionalità ha di se stessa? Se il flusso costituente fosse a sua volta un oggetto temporale che si può “bloccare” nella riflessione, sarebbe allora costituito e non costituente, e si aprirebbe il rischio di un pericoloso regresso all’infinito nella ricerca del sostrato più originario. Eppure, nel suo diventare oggettuale l’io non smette mai di essere temporale e di cogliere progressivamente se stesso come fluente nel tempo. Ecco allora che l’autocoscienza della coscienza temporale si fa questione spinosa. In altre parole, proprio perché così “pervasivo” – verrebbe da dire, proprio perché coincidente con l’essere –  il tempo finisce per dileguarsi allo sguardo fenomenologico, esponendo queste Lezioni all’accusa di formalismo. La domanda che sembra mancare è: da che cosa sono riempiti i vissuti temporali? Qual è il costituente reale e non ancora intenzionale (la hyle) che dà vita ad un’esperienza temporale?

Conscio di queste difficoltà, nelle pagine dei Manoscritti di Bernau Husserl cerca di seguire alcune ipotesi sulla cosiddetta costituzione temporale, provando a imboccare varie strade e arrivando sempre a dei punti morti o a dei limiti che paio insuperabili con la sola fenomenologia. Ancora una volta c’è uno “scarto” che non permette allo sguardo fenomenologico di approdare a un terreno sicuro.

Di particolare importanza è un fenomeno che Husserl analizza al Testo nr.4 dei Manoscritti, proprio con l’intento di fornire un’analisi più attenta al lato iletico del tempo. Questo fenomeno, intraducibile propriamente in italiano, è quello dell’Abklang, parola che rimanda all’affievolirsi, al venire meno e che richiama il verbo abklingen, cioè lo smorzarsi, lo spegnersi o anche il diminuire e il decrescere. Husserl vorrebbe infatti descrivere il digradarsi di un oggetto temporale che, prima ancora di finire nel passato, si affievolisce in una sorta di interstizio che separa il presente dal passato. Scrive infatti nel testo indicato:

 

«L’originarietà è lo zero della modificazione in quanto modificazione. In quanto modificazione essa si incrementa. Essa è una continua trasformazione della coscienza di quello stesso che è determinato come completamente identico “contenutisticamente” (…) Questo però non è ancora passato obbiettivo, che qui non può introdursi surrettiziamente. Sarebbe qui meglio non parlare affatto di passato, ma di affievolirsi del presente, cioè della modificazione dell’affievolorsi (…) Ogni affievolirsi di un presente è esso stesso presente ed ha uno sfumare del suo presente ecc.» [Hua XXXIII, p. 66, trad. it. a cura di A. Penna]

 

Nel fenomeno dell’Abklang è come se Husserl ci dicesse che il presente è affetto da un dualismo simile a quello che in fisica caratterizza la luce, onda e corpuscolo insieme. Il presente può essere infatti descritto a partire da un punto d’origine che nella coscienza si traduce in una impressione originaria (Urimpression), quell’istante-di-suono continuamente sbalzato via dal nuovo istante che sopraggiunge e che si modifica in un già-stato; oppure può essere descritto come un intorno, una fessura in cui avvertiamo non solo il presentarsi del suono ma anche il suo venir meno, prima ancora che questo venir meno diventi a tutti gli effetti passato e si abbia la coscienza presente di uno sprofondamento temporale (ritenzione), in cui il suono non c’è effettivamente già più. «Il fatto è – come scrive Alessandra Penna –  che noi sentiamo originariamente tanto lo svanire del suono quanto il suono che svanisce, mentre il suono “primariamente ricordato”, come già sappiamo “non è effettivamente reperibile”» [A. Penna, La costituzione temporale nella fenomenologia husserliana, 2007, p. 22].

Nelle Lezioni, quando Husserl analizza il fenomeno della ritenzione, parla di un allontanamento dal punto-ora e di un processo di modificazione continua della coscienza nel senso di una sintesi continua dell’identificazione oggettuale vissuta, attraverso la quale si costituisce la permanenza oggettuale: ciò che è appena passato è, per l’appunto, quel suono che poc’anzi è risuonato. Il fatto che non parli di contenuto ma di modi della coscienza (impressione originaria e ritenzione), sembra avvalorare quanto detto a proposito di una analisi troppo formale nei primi scritti sul tempo.

Sembra allora che Husserl cerchi un riscatto dalla mancanza delle sue precedenti analisi, affrontando parallelamente al fenomeno della coscienza ritenzionale quello dell’Abklang. Anzi, per essere più precisi, si assiste ad una loro sovrapposizione, quando scrive che ciò che è ritenuto «si raffigura» (sich verbindlicht) contemporaneamente nell’Abklang [p.74]. Sul significato di questo oscuro raffigurarsi si palesa tutta la difficoltà di Husserl: in un estremo tentativo la ritenzione diventa ciò che da forma, modalità temporale, all’Abklang, finendo per rappresentarlo pur non essendo questo più presente, dal momento che il suono è a tutti gli effetti scemato fino all’impercettibilità. Originario non è quindi il presente impressionale, il punto-limite, ma il movimento di continuo differimento di sé della presenza, che se bloccata rimane una pura astrazione.

Ormai la crepa nella fenomenologia del tempo è troppo ampia: non si può più nascondere che c’è uno sfasamento tra coscienza e hyle, che, al pari dei dati sensibili per le percezioni, c’è una materia grezza del tempo che non si manifesta nell’orizzonte coscienziale del tempo. Non si tratta di un’alterità assoluta, ma di qualcosa che non è derivabile dalla coscienza, un correlato della soggettività che non è qualcosa di noetico, un tempo assoluto che sovrasta la coscienza e in cui questa a sua volta fluisce. Per questo le Lezioni del 1905 non potevano essere che formali: lì c’era ancora la cieca speranza di poter ricomporre l’intera esperienza del tempo nelle pieghe della soggettività. Qui invece Husserl si trova a dover rendere conto dell’ingresso nell’orizzonte della coscienza di qualcosa che pur sempre rimanda ad una trascendenza che la fenomenologia non può dire, proprio perché rimane l’orizzonte di possibilità di ogni apparire. Il tempo porta quindi con sé il residuo di una trascendenza che segnerà profondamente il Novecento filosofico, non solo a partire dall’impossibilità di Heidegger di scrivere l’ultima sezione di Essere e Tempo, ma anche e soprattutto in quella corrente che ha pensato e scritto sulla differenza.