Trascrizione come traduzione

La musica è generalmente percepita, e definita, come un’arte senza confini, universale, in quanto il suo codice, così complesso a doverlo imparare, risulta poi immediato nella percezione. Ovviamente, con le dovute difficoltà di comprensione; la Nona Sinfonia di Beethoven, per quanto esemplare dell’universalità dell’espressione musicale, parlerà pur sempre a un tedesco, a un europeo, in maniera diversa rispetto a un cinese o a un nativo americano. Al contrario, la scrittura – la scrittura poetica in sommo grado – s’intende come agente di un qualcosa che, seppure a disposizione dell’umanità intera, resta fortemente radicato nella lingua d’origine. Penso a Dante, a Yeats, a Proust. Da qui, il problema della traduzione, dibattito mai concluso e che mai, forse, troverà un esito definitivo.

Ebbene, la musica non dovrebbe proprio aver niente a che spartire con i problemi inerenti alla traduzione. Invece, c’è una circostanza in cui quest’arte si trova a doversi confrontare con problematiche simili a quelle dei letterati e dei traduttori: è il momento della trascrizione. Ovvero, quando un musicista si trova a dover affrontare il ripensamento di un brano scritto originariamente per un organico e deve tradurlo in modo che suoni simile, per un organico diverso.

La trascrizione di musiche per un gruppo strumentale diverso da quello originario era fino ai primi decenni del nostro secolo una delle cose ovvie nella vita musicale di tutti i giorni. Era in uso in primo luogo la riduzione: si suonava un pezzo con lo strumentario esistente, in particolare nelle case private, dove le partiture più grandi erano eseguite da un ensemble messo insieme al momento, e spesso soltanto da uno o due esecutori al pianoforte.  Tra quelle più note, le quindici fra trascrizioni e parafrasi che Liszt scrisse delle opere wagneriane, per poter meglio svolgere la sua funzione di ambasciatore della nuova musica, rappresentata dal compositore tedesco.

Arnold Schoenberg, 1927 © 2018 Man Ray Trust

 Ciò che qui interessa, però, è il caso della pratica trascrittiva più prossimo all’idea di vera e propria traduzione. Dal dicembre 1918 e il dicembre 1921, a Vienna svolse la propria attività, un’importante associazione musicale, la Verein für musikalische Privataufführungen (Associazione per esecuzioni musicali private): l’idea era nata dalla fervida mente di Arnold Schönberg, e aveva come scopo l’esecuzione di opere musicali moderne o contemporanee (da Mahler in poi) in versioni cameristiche appositamente trascritte. I soci, spesso anche esecutori, erano i compositori e gli esecutori che gravitavano attorno alla personalità carismatica di Schönberg, Berg e Webern fra tutti.
Nei tre brevi anni della sua vita – nel 1921 un’inflazione di straordinarie proporzioni rovinò l’economia austriaca e impedì la prosecuzione dell’attività alla società per mancanza di fondi – l’associazione presentò ben 154 opere, molte delle quali ripetute più volte: tra le altre, importanti composizioni di Mahler, Strauss, Busoni, Reger, Debussy, Satie, Stravinskij, Korngold e Webern. Per intuibili ragioni finanziarie non era ovviamente possibile ingaggiare un’orchestra per l’esecuzione di lavori sinfonici. Si era soliti piuttosto eseguire queste partiture o con più pianoforti o in trascrizioni per ensemble cameristici, in genere costituiti da flauto, clarinetto, pianoforte, armonium e quartetto d’archi. Così, si faceva di necessità virtù. Come ricordava Alban Berg, “in questo modo è possibile poter udire e giudicare opere orchestrali moderne, spoglie di tutti gli effetti sonori che soltanto l’orchestra produce e di tutti i mezzi ausiliari sensitivi. In tal maniera si confuta il rimprovero comune che questa musica deve il suo effetto soltanto alla sua strumentazione più o meno ricca e appariscente, e che non possiede tutte le qualità che finora erano decisive per una buona musica: melodie, ricchezza di armonia, polifonia, perfezione di forma, architettura.” .

Schönberg, da eccezionale pedagogo qual era, diede al lavoro di trascrizione un significato molto più elevato che quello di una semplice esercitazione. Egli individuò tre punti centrali: la chiarificazione del testo musicale con un maggior rilievo assegnato alle linee melodiche; un accurato lavoro timbrico per permettere di rimpiazzare gli strumenti mancanti senza danno; l’introduzione di nuove citazioni, sempre in sintonia con lo spirito dell’opera originale. Il trasferimento di una musica da un organico a un altro – da un universo timbrico e di senso a un altro – impone al compositore una specie di vero e proprio scontro con la scrittura musicale. Non si tratta mai di riduzioni, ma di riconsiderazioni critiche dello stesso materiale sonoro; allo stesso modo in poesia, Fortini riconosce alle traduzioni d’autore lo status di opere nuove, autonome, il cui valore è determinato senza passare per il raffronto con l’originale. Eco, nell’introduzione a Esercizi di stile, dice che “fedeltà significa capire le regole del gioco, rispettarle e poi giocare una nuova partita”. Decidere come suona uno strumento piuttosto che un altro nella modifica dell’organico, decidere perché proprio quello strumento, invece di un altro, somiglia alla scelta che un traduttore fa del vocabolo giusto, al passare da una lingua a un’altra. E anche il criterio è simile: il suono che quello strumento produce o il suono che quella parola produce. Il parallelo funziona anche partendo, per paradosso, dalla posizione opposta: poiché, come dice Fabbri, l’antitraduzione è la copia, trasporre l’uguale, in musica la trascrizione – equivalente della traduzione – consisterà nel compiere degli interventi che modificano necessariamente la timbrica di un pezzo.

Le trascrizioni sono sempre, in qualche misura, musiche al quadrato: musica su musica, tentativi di ricreare un’opera precedente sotto un’altra veste. Ogni trascrizione ben riuscita è allo stesso tempo analisi, appropriazione personale e reinterpretazione del testo originale. Gustav Mahler sentiva Schubert come un artista molto vicino e la versione della Quarta Sinfonia mahleriana, adattata minuziosamente per ensemble da Erwin Stein (allievo e collaboratore di Schönberg) è quanto di più intensamente intimo e schubertiano si possa immaginare. Altrettanto, nella traduzione, la lingua è protagonista della vita simbolica di una società, attraverso la sedimentazione, in essa, di una cultura letteraria.

Per John Berger, la vera traduzione non è binaria (una relazione tra due lingue), bensì triangolare. La vera traduzione esige che si ritorni al pre-verbale e che questo elemento entri in relazione con le lingue oggetto della traduzione. Si leggono e si rileggono le parole del testo originale fino a raggiungere, toccare la visione o l’esperienza da cui sono scaturite – qualcosa di simile alla lettura infinita di Barthes. A quel punto, si deve convincere la lingua ospitante a dare asilo alla cosa che attende di essere articolata, passando attraverso una sintesi tra l’oscurità, indistinta e indicibile e il turbine elegante dei significanti, opposti che si rimandano, incessantemente, dall’uno all’altro. C’è in tutto questo un agire, che fa venire in mente la dimensione artigianale di cui parla Sennett a proposito dell’attività del musicista. Si va per tentativi, per approssimazioni; come un artigiano, si lavora di lima a un verso e così a un accordo o alla ricerca di un timbro. L’approssimazione conduce a una felice imperfezione, in musica come in poesia, tanto da far dire a Bonnefoy – a proposito della traduzione –  che “l’imperfezione è la cima”.

Secondo la tradizione qabbalistica, un giorno, la traduzione sarà inutile perché tutti i popoli parleranno una sola lingua, in una Babele ritrovata. Esiste, però, anche una devianza, un’eresia, in questa tradizione, secondo la quale la traduzione non solo sarebbe inutile, ma addirittura inconcepibile, in quanto le parole si ribellerebbero all’uomo e diventerebbero “solo se stesse, come pietre inanimate nella nostra bocca”. Il silenzio che si produrrebbe, appare vicino al silenzio teorizzato da Debussy, che, in occasione della stesura di Pelléas et Mélisande, scriveva all’amico e collega Chausson: “Mi sono servito di un mezzo che mi sembrava molto raro, cioè del silenzio, come agente d’espressione e forse come unico modo per valorizzare la musica”. Così, nella trascrizione e nella traduzione è la sospensione, il momento del silenzio, a riempire lo spazio lasciato dalla parola e dalla musica. Il dire e il tacere, a valere nello stesso modo, allo stesso tempo.

(pubblicato sulla rivista Versodove n°18-settembre 2016)