La pittura musicale di Van Gogh

Le scarpe di Van Gogh
Partiamo da un luogo comune (luogo comune, topos, strumento concettuale per rappresentare la realtà).
Un luogo comune è anche un luogo che abitiamo insieme.
E’ un luogo che ci accomuna.
Un luogo che gli esseri umani condividono.
Un luogo comune è un luogo umano.
Il luogo dove risiede l’umano.
Dove l’umano ha luogo. Ma dove l’umano ha luogo sorgono domande.
Che cosa accomuna gli uomini?
Che cosa ci accomuna?
Il fatto che ci vestiamo, direbbe Jacques Derrida. L’essere umano è l’unico animale che si veste.
E’ l’animale che nasconde e svela.
Che cosa nasconde (o che cosa svela) un paio di scarpe?
Che cosa nascondono le scarpe di Van Gogh? I piedi? O la persona?
Coprono i piedi e rivelano la persona (le scarpe di…, scarpe da…)?
E cosa mostrano, quando si mostrano, come in questo quadro?

Il luogo comune è anche una banalità.
C’è qualcosa di banale nelle scarpe di Van Gogh?
Ma appartengono poi a Van Gogh le scarpe rappresentate? La risposta è tutt’altro che ovvia: è sufficiente rileggere le pagine della discussione filosofica sorta tra Martin Heidegger e il critico d’arte americano Meyer Schapiro su questo tema, e le successive considerazioni di Jacques Derrida, per coglierne la complessità.
Van Gogh dipinse negli anni diverse paia di scarpe: è banale tutto questo?
L’arte può essere banale? La realtà è banale?
Possiamo pensare fuori dall’ovvietà, senza luoghi comuni?
Ecco, io partirei da qui.
Da questo luogo comune, da questa banalità, da questa ovvietà che dice: “Le scarpe si mettono ai piedi”. Sembra una cosa ovvia: se vedo un paio di scarpe, come in questo quadro, immagino che esse siano indossate (lo siano state o lo saranno) da una persona.
Ma questo fatto per la filosofia e le scienze umane non è per nulla ovvio.
Basta un paio di scarpe e da quelle scarpe, come accadde ad Heidegger con Van Gogh, nascono domande sull’arte, sul linguaggio dell’arte.
La filosofia comincia da qui, da un paio di scarpe per camminare (o da lavoro?), e anche noi ci mettiamo in cammino da questo punto per ripensare il rapporto tra vedere e sentire nella pittura di Van Gogh.
In cammino e in dialogo.
Proviamo a far parlare direttamente l’arte, l’arte di un grande pittore, un’arte che ci commuove, che ci fa muovere e ci mette in cammino, per entrare in dialogo con l’uomo e con i saperi che lo definiscono – le scienze umane, appunto.
Dunque, le scarpe.
Le scarpe sono il nostro contatto con la terra.
Ma anche ce ne separano.
Senza la postura eretta (e la possibilità di “liberare” le mani che essa porta con sé) probabilmente non avremmo avuto bisogno di scarpe ai piedi.
In un certo senso, siamo gli unici animali veramente bipedi, perlomeno gli unici ad indossare scarpe. Non indossiamo scarpe sulle mani.
Forse i nostri piedi erano mani (o le nostre mani piedi), ma con la posizione eretta se ne sono differenziati.
Il camminare è una specializzazione.
Le scarpe sono strumenti. Per proteggersi, per camminare.

Che tipo di scarpe sono quelle rappresentate da Van Gogh?
Scarpe da lavoro, probabilmente. Che cosa è il lavoro?
Qual è il lavoro delle scienze umane e della filosofia?
Van Gogh espresse il desiderio che la sua pittura potesse essere come musica; in un altro momento paragonò le pennellate a parole.

Musica / parole / pittura.
E’ nell’intreccio di questi linguaggi che proviamo a cercare una risposta alle nostre domande.

Suono di luce
In una delle ultime, appassionate lettere al fratello Theo, così si esprime Vincent Van Gogh: “Il mio pennello scorre tra le mie dita come se fosse un archetto di violino”: ecco, vorrei sottolineare proprio questo passaggio, l’accostamento – molto consueto, per la verità, in Van Gogh, più insolito in altri artisti – tra il linguaggio della pittura e quello della musica, un accostamento che per le scienze umane diventa una potente chiave interpretativa non solo dell’uomo Van Gogh, della sua arte e della sua follia, ma dell’intera realtà umana nella sua espressività e creatività.
Facciamo metodologicamente un passo laterale, però: spostiamo la nostra attenzione al campo della etnomusicologia e ci concentriamo, in particolare, su un’opera di Marius Schneider, Il significato della musica, che raccoglie una serie di saggi dedicati alle antiche cosmogonie, in cui la musica è allegoria dell’azione creatrice del dio. Attraverso la ritualità religiosa, nota Schneider, gli esseri umani ripetono l’evento divino, fondativo della creazione. Al centro dei riti gli uomini collocano sempre la parola (il suono, la voce, il logos): è la parola che – con il suo ritmo – crea il mondo e lo feconda; si pensi a come questo tema risalga dalle antiche culture fino al Logos (Verbum) cristiano del Vangelo di San Giovanni. Non solo: la parola incarna il “ritmo cosmico”, essa viene chiamata “suono di luce”. La parola, ad un tempo, come suono (voce) e luce; potremmo dire, dunque, vibrazione.
La parola, il suono, la voce, la luce, la vibrazione – l’atto originario della creazione. Il mondo è un addensarsi materiale del suono originario, dell’onda sonora vibrante della voce del dio.
Dunque: dal suono originario (parola del dio, musica, vibrazione) al mondo.
Se ora ritorniamo alla pittura di Van Gogh e al suo linguaggio, mi pare che questo atto creativo, il passaggio dalla vibrazione (“suono di luce”) al mondo, possa essere analogamente ritrovato.
Questa “immersione” nell’etnomusicologia, sicuramente una delle più affascinanti scienze dell’uomo, ci permette allora, pur nella sua brevità, di vedere meglio l’analogia che Van Gogh istituisce tra il pennello e l’archetto del violino: la sua pittura è “vibrazione”.

La forza generatrice del suo pennello/archetto può essere misurata in uno dei dipinti in cui Van Gogh rappresenta un paio di scarpe (e che riporto sopra): si tratta di una “natura morta”, ma come da questa morte prenda vita l’immagine e tutto un mondo vissuto che essa reca con sé è visibile nelle pennellate, nella luce, nel movimento della figura (si osservino, per esempio, le stringhe) che viene a crearsi davanti allo sguardo dello spettatore.

Più in generale: nell’artista Van Gogh si rinnova il gesto originario della creazione, voce e luce dell’esperienza cosmica. Il gesto artistico come “suono di luce”, come “vibrazione”, in cui suono e luce sono la stessa cosa, esperienza dell’eterna rinascita.
Il legame tra questa esperienza creativa (artistica) e l’esperienza della follia è ciò che emerge prepotentemente nella pittura di Van Gogh.

Un’ultima annotazione: si profila, qui, il tentativo di mostrare – attraverso il linguaggio delle scienze umane e dell’arte – come l’esperienza estetica non rappresenti una “sorella minore” dell’esperienza scientifica: si tratta, piuttosto, di due esperienze, di due forme di sapere strettamente connesse. Rifiutiamo la distinzione di Galileo che assegna alla scienza la parola comunicativa (oggettiva) che mira al “vero” delle cose, e all’arte la parola espressiva (soggettiva) che cerca il “bello”. Verità e bellezza accadono nel gesto artistico della pennellata vibrante di Van Gogh che fa apparire sulla tela un paio di scarpe: suono di luce.

Scrive Carlo Sini a proposito dell’arte: “L’arte invece non è qualcosa che ha anche e indirettamente a che fare con le relazioni cosmico-emozionali: essa – come già il mito col quale da sempre intrattiene un rapporto essenziale – è la manifestazione della scrittura cosmica originaria nei segni della convenzionalità comunicativa e intersoggettiva. L’arte, cioè, manifesta il legame indistruttibile e irrinunciabile dell’uomo con le radici del suo essere-nel-mondo e avere un mondo. Essa è il nesso sotterraneo che congiunge la parola quotidiana con le emozioni costitutive del mondo e del soggetto, sicché il segno o i segni dell’arte dicono una verità più profonda e più originaria della parola meramente comunicativa, su cui si fonda ogni considerazione estetica, critica, in generale conoscitiva. L’arte esprime le interpretazioni originarie, la collocazione cosmica costitutiva dell’uomo e del mondo. Proprio perciò essa è un fenomeno ben più ricco e, a suo modo, più «vero», di quanto l’estetica (cioè la dottrina intellettualistica del bello) possa comprendere e dire. Analogamente, nessuna «logica» in senso stretto potrà mai esaurire il significato delle interpretazioni cosmico-umane donde il mito ha tratto la stupefacente ricchezza e pregnanza delle sue immagini. Per tutto ciò, inoltre, l’arte non è «pratica», non è «utile»; ma non perché essa sarebbe un’attività di evasione, uno svago fantasiosamente «disinteressato», al contrario: perché la sua utilità per l’essere umano è ben più originaria e profonda di ogni pratica. Il luogo dell’arte (microcosmo) è infatti il luogo stesso del mondo (macrocosmo)”. (C. Sini, Il profondo e l’espressione. Filosofia, psichiatria e psicanalisi, pag. 207, 1991, Lanfranchi editore, Milano).

Credo che nella sua follia, o forse proprio per la sua follia, Vincent Van Gogh avesse già ben compreso tutto questo.

La voce della follia
“Dunque, il sano intelletto del cittadino sarebbe già, per l’uomo naturale, un intelletto molto fine e i concetti che in certi ceti presuppongono un fine intelletto non si convengono più a coloro che, almeno nei loro pensieri, sono più vicini alla semplicità della natura e che, se li fanno propri, finiscono solitamente coll’uscir matti” (I. Kant, Saggio sulle malattie della mente).
Nel suo scritto del 1764, Saggio sulle malattie della mente, Kant interpreta la follia come processo di perdita della realtà: non un degradarsi dell’uomo a bestia, ma il recidersi dell’armonia con la natura portato dalla vita sociale. E ancora, vent’anni dopo, nel celebre testo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, Kant sottolinea come la ragione – se usata in modo “libero” e “pubblico” – possa migliorare la vita. E’, però, proprio il XVIII secolo, con i suoi paradigmi classificatori, a costruire una ‘toponomastica’ dell’umano: la ragione è il luogo del governo dell’umano, luogo da cui e per cui

l’uomo si governa ed esercita la sua signoria sul creato; essa è la luce che illumina la via del suo agire (il metodo, dunque), regione dei confini dell’umano, che nomina già i dintorni della sua degradazione al non-umano (la minorità, lo stato bestiale).
Circoscrivendo il proprio spazio, la ragione illuminista evoca la sragione dello spazio esterno, quello della follia, luogo del caos, dell’inumano. In atto vi è, però, qualcosa di inaudito, la “nuova separazione” di cui parla Foucault nella Storia della follia nell’età classica. Se l’epoca rinascimentale aveva liberato la follia dandole parola, il Seicento l’aveva messa a tacere in quel “grande internamento” che sempre Foucault magistralmente descrive nella sua opera. Ma in seguito, con l’Illuminismo, un altro decisivo passo si compie: non si tratta più semplicemente di escludere, con un’operazione di metodo tutta cartesiana, la follia dal soggetto, allontanandola dalla ragione per assimilarla al sogno e all’errore; in gioco c’è ora qualcosa di più. L’Illuminismo toglie la follia dall’indistinto e confuso spazio della sragione e la isola: “una profonda spinta lascia riapparire la follia, che tende così a isolarsi e a definirsi per se stessa” (Foucault, Storia della follia nell’età classica, pag. 544). E siamo al punto. Foucault parla di “un lento lavorio, molto oscuro”: nell’isolare la follia, e dunque nel renderla socialmente riconoscibile, la ragione detta anche le condizioni dell’espressività stessa della follia. Il folle ha parola nella misura in cui la società può interpretarne i segni nel nuovo linguaggio della ragione psichiatrica.

E’ in questo contesto concettuale, di specularità tra “ragione” e “sragione”, che possiamo collocare l’esperienza tragica della follia di Vincent Van Gogh. Un’esperienza umana dolorosa, di sofferenza; un’esperienza artistica di inesauribile, feroce creatività.
Secondo Karl Jaspers, appare verosimile che la follia di Van Gogh si sia manifestata in modo patologico tra la fine del 1887 e l’inizio del 1888; in quel periodo egli si trovava ad Arles, nel sud della Francia, dove si era trasferito – prendendo in affitto la “casa gialla” ritratta in alcuni dei suoi dipinti – nella speranza di dar vita ad una comunità di pittori, e dove Gaugin lo aveva raggiunto iniziando a lavorare con lui. Ad Arles, nell’arco di circa un anno e mezzo, Van Gogh dipinge febbrilmente (contiamo circa trecento opere tra quadri e disegni) e scrive senza sosta al fratello Theo più o meno duecento lettere: è un continuo susseguirsi di stati di grazia, in cui Vincent appare abbastanza sereno, e crisi regolari, a volte violente. Il noto episodio della Vigilia di Natale del 1888, in cui Van Gogh, dopo aver incontrato Gaugin per strada, si taglia un pezzo d’orecchio e ne fa dono a una prostituta, è il punto di non ritorno della sua vita tormentata: da quel momento in poi, Vincent vive la sua esistenza tra ospedali, manicomi e una condizione che potremmo definire di “libertà vigilata” sotto la sorveglianza amichevole del dottor Gachet ad Auvers-sur-Oise, vicino a Parigi, dove Vincent era stato portato all’inizio del 1890 per stare più vicino al fratello Theo.

E’ in quei luoghi che, nel luglio del 1890, Vincent Van Gogh si suicida.
Per la prima volta, Vincent è riuscito ad acquietare la voce della follia e, insieme a questa voce, il mondo colorato che aveva preso forma sotto il suo pennello/archetto di violino.