L’infinito dei suoni (prima parte)

Vorrei cominciare questa riflessione sul suono e sull’infinito proprio ricollegandomi ad una celeberrima poesia, l’idillio leopardiano intitolato appunto L’infinito. Il quale, dopo alcune immagini iniziali (il colle, la siepe), già dal terzo verso “il guardo esclude”: il senso della vista viene meno per dare spazio a quello dell’udito.

Subito dopo le immagini poetiche sono eminentemente sonore: “sovrumani silenzi”, la “profondissima quiete”, “il vento odo stormir tra queste piante”; e poi ancora “quello infinito silenzio a questa voce vo comparando”, e il ricordo delle “morte stagioni” che si contrappongono alla presente, che ci si rivela attraverso il suono (“il suon di lei”).

Mi sembra chiaro che Leopardi faccia esperienza dell’infinito ad occhi chiusi, e che l’infinità in cui s’annega il pensiero del poeta sia un’infinità sonora.

A questo punto è necessario inquadrare l’ascolto leopardiano, senza volerlo con questo impoverire della portata poetica. Leopardi ascolta un “soundscape”, o “paesaggio sonoro”, che induce nel poeta uno “stato speciale di realtà ordinaria”, per dirla con le parole di un altro poeta marchigiano, Gianni D’Elia. Lo “stato speciale” è la condizione essenziale per l’apparire della poesia. Ma il “soundscape” esiste indipendentemente dalla poesia leopardiana, anche se gli è stato riconosciuto un ruolo autonomo solo di recente, anche grazie agli studi di Murray Shafer, scienziato e “guru” del paesaggio sonoro, il quale sostiene tra l’altro che il paesaggio sonoro nasce ben prima dell’uomo (come dargli torto?). Shafer, musicista e compositore canadese, si dedica da decenni ai “soundscapes” ed è l’ideatore dell’ambizioso progetto denominato “World Soundscape Project”, che si propone di creare un archivio globale degli ambienti acustici in via d’estinzione.

Cos’è un “soundscape”? E’ sostanzialmente l’insieme dei suoni presenti in un determinato ambiente, essenziali alla sua caratterizzazione acustica, che vanno considerati a priori di qualsiasi intervento umano nella loro organizzazione o strutturazione. Per poter fruire questo insieme sonoro “non umanamente organizzato” come se fosse musica, si deve compiere un salto quantico rispetto al nostro comune approccio percettivo (e quindi al nostro approccio estetico).

Si rende qui necessaria una piccola premessa.

A nostro parere, la musica occidentale ha sempre privilegiato la dimensione narrativa (non a caso si parla di “discorso musicale”). La musica occidentale – sia quella che si appoggia ad un programma o un testo che quella cosiddetta “pura” – racconta una storia, la quale si svolge nel tempo (e viene di conseguenza fruita attraverso la memoria). Possiamo dire che la musica sia in questo caso una sorta di drammaturgia del tempo, i temi sono degli impalpabili personaggi che agiscono, si relazionano, evolvono, si trasformano. In questo tipo di musica l’oggetto primario della nostra attenzione sono principalmente le relazioni formali tra i vari elementi sonori. Il filosofo Mario Campanino definisce questo tipo di approccio come “musica che diventa”. Questa tipologia di musica è, per la maggioranza del pubblico non specializzato, “la musica” tout court, come chiariremo meglio più avanti.

Un approccio differente, o per meglio dire opposto, è quello che alla narrazione preferisce la contemplazione, e privilegia l’ascolto del suono in sé, il perdersi dentro il suono. E’ un approccio che, per dirla con Campanino, potremmo definire meditativo, “orientale”:

(…) la musica è ascoltata istante per istante, essa stessa diventa il tempo che, in un certo senso, cessa di scorrere. È un approccio che vorrei chiamare della musica che è.

Lo definiamo impropriamente “orientale” perché proprio di un certo tipo di pratiche meditative più comuni nelle tradizioni orientali, e che del suono fanno un elemento centrale. È altresì un atteggiamento necessario all’ascolto di alcuni tipi di musica inconsistenti dal punto di vista “narrativo”, come certa musica indiana, o come il gamelan, oppure musiche di matrice occidentale più o meno colta, che della tradizione orientale sono fortemente debitrici (come ad esempio la musica minimalista, o la cosiddetta sound art). In questi casi effettivamente la musica non racconta nulla o quasi, e se ci si aspetta di trovare un qualche interesse o sorpresa nello svolgimento del racconto si rimane inevitabilmente delusi, quando non irritati. Non posso negare che questo era anche il mio atteggiamento, forse un po’ presuntuoso e sicuramente non troppo approfondito. Ma l’errore non era nella musica in sé, quanto appunto nell’approccio percettivo, nella modalità di ascolto. Il leopardiano “s’annega il pensier mio” è la migliore definizione di questo stato d’ascolto. Il suono annulla la percezione del tempo e si rivela come un oggetto da esplorare, sempre diverso nell’omogeneità, ricchissimo di fluttuazioni e continue microvariazioni. Metaforicamente possiamo immaginare di trovarci in volo sopra un paesaggio, che osserviamo e cogliamo con lo sguardo nella sua interezza, ma che poi possiamo esplorare più nei dettagli soffermandoci su un particolare, volando più vicino ad una certa regione, o volgendoci indietro. Siamo noi a scegliere il nostro percorso di esplorazione, che ci rivela grado a grado nuovi particolari, senza che il paesaggio in se stesso stia mutando.

Questo paesaggio è il suono stesso (sembra proprio il caso di dire “paesaggio sonoro”!), e la sua esplorazione è l’esperienza che ne facciamo come musica.

Una cosa piuttosto curiosa è la non possibilità di adottare simultaneamente entrambe le modalità d’ascolto: se ci concentriamo sul suono perdiamo di vista le relazioni formali, se ascoltiamo una forma (se seguiamo una “drammaturgia”) il suono in sé passa inevitabilmente in secondo piano. In proposito vorrei brevemente riferire di un’esperienza personale, avuta alcuni anni fa, che considero particolarmente esemplificativa. Mi capitò di far ascoltare ad un amico, tecnico del suono e persona dotata di non comune sensibilità per il suono – forse sarebbe più esatto definire questa sensibilità “amore” – una registrazione molto amatoriale su nastro (audiocassetta) di un brano musicale (la Sonata op.1 di Alban Berg). Il pezzo era suonato espressivamente, con un certo slancio, e le intenzioni interpretative risultavano chiare. Il mio amico si entusiasmò del pezzo a tal punto che arrivò a dire che il suono era bellissimo. Io rimasi perplesso, perché il suono era effettivamente di qualità imbarazzante, oltretutto permeato da un fruscio insopportabile. Poco tempo dopo, la stessa persona mi fece ascoltare una registrazione di musiche per organo, da lui effettuata per una casa discografica, e della quale era particolarmente orgoglioso. Rimasi interdetto, perché alcuni registri dell’organo erano così stonati che il risultato generale era a mio parere inascoltabile. Come era possibile che una persona di orecchio così raffinato non si accorgesse del risultato musicale e andasse fiero di quello sferragliare da organetto di barberia? Semplice: l’oggetto dell’ascolto non era la musica, ma il suono, che oggettivamente era molto pulito e permetteva di ascoltare anche i minimi dettagli (dei quali sarebbe stato prudentemente meglio fare a meno). Per questa persona l’ascolto del suono in sé eclissava completamente la dimensione musicale, come viceversa il predisporsi all’ascolto di musica (in senso occidentale) cancellava l’attenzione al suono.

In altre parole: emozioni provocate da due atteggiamenti percettivi opposti venivano percepite come la stessa cosa.

Quindi se ascoltiamo musica non possiamo godere fino in fondo dei suoni e viceversa se ascoltiamo i suoni ci precludiamo il piacere di godere della forma? Ovviamente no. Senza arrivare agli estremi dell’aneddoto precedente, generalmente l’ascoltatore attento passa continuamente da un tipo di ascolto all’altro, come se avesse una sorta commutatore (“switch”) del pensiero, compiendo più o meno la stessa operazione di quando si segue lo svolgersi di una composizione a più voci: sembra assodato che il cervello non riesca a seguire più di una voce per volta, ma può di fatto ricostruire nella memoria l’andamento di una complessa tessitura polifonica spostando l’attenzione rapidamente da una voce all’altra.

A priori dell’atteggiamento d’ascolto, vi è però la necessità per l’ascoltatore di riconoscere il flusso di suoni che sta sentendo come musica. Campanino scrive:

(…) La percezione del suono interessa principalmente, per sua propria natura, l’orecchio e il cervello.

La percezione della musica, potremmo dire, presuppone la percezione del suono e comporta l’attivazione di tutta una serie di processi cognitivi che hanno come oggetto il materiale sonoro ascoltato. La percezione della musica in un certo senso, dunque, non sta nell’orecchio: qualche volta può anche farne a meno (è il caso del musicista che legge una partitura).

Il problema è dunque capire quando siamo in presenza di musica. In genere non si hanno grandi difficoltà, ma talvolta le cose si complicano. Ritengo ad esempio che gran parte della fatica che il pubblico meno specializzato incontra nell’ascolto di alcune tipologie di musica, in particolare quella contemporanea cosiddetta di “ambito colto”, consista nel fatto che gli strumenti cognitivi tradizionalmente validi per la sua comprensione si rivelano inadeguati (o apparentemente tali).

Questo perché si ha la tendenza naturale a considerare, “la musica” come un insieme sostanzialmente unitario, e non come un complesso sistema, un luogo in cui l’unica cosa che accomuna i vari oggetti che lo abitano è la loro appartenenza al dominio delle vibrazioni sonore. Come già altri hanno fatto notare, non esistono parole differenti per designare una suoneria di un telefono cellulare, una sinfonia di Mahler, o un jingle pubblicitario.

Ciò che viene continuamente messo in atto ogni qualvolta riteniamo di essere in presenza di musica, è il ricorso a categorie di ascolto che consideriamo adeguate per la fruizione e comprensione della stessa.