Dissonanze: il lento cammino della sperimentazione

In ambito musicale, la sperimentazione ha origini lontane, anzi, forse non c’è stata epoca che non abbia conosciuto tensioni e impulsi innovativi, cui, spesso per reazione, sono seguite fasi di sedimentazione, di assimilazione, se non di semplificazione di quelle esperienze. In tale prospettiva proviamo allora idealmente a seguire il lento cammino della dissonanza, (associabile all’antica arsi, stato di tensione, contrapposta alla tesi, stato di rilassamento, consonanza), dal suo timido insorgere degli inizi, alla conquista di uno spazio armonico sempre più esteso fino al passaggio ad altri mondi possibili, possibili armonie. Senza dimenticare che la dissonanza – o più in generale l’armonia – è soltanto un elemento fra i tanti della musica, impossibile da disgiungere dal ritmo e dal timbro che essa determina e dai quali è determinata, si cercherà di tratteggiare l’evoluzione del pensiero musicale dal suo particolare punto di vista con implicazioni anche storiche e sociali.     

Dissonanza è termine che trova la sua legittimazione nell’armonia tonale, un sistema costituito da due tipi di scale, la scala diatonica (con i suoi due modi, maggiore e minore, diversamente organizzati nella loro alternanza di toni e semitoni) e la scala cromatica (i dodici semitoni in successione, tasti bianchi e tasti neri del pianoforte). Semplificando, da un punto di vista puramente armonico la storia della musica occidentale potrebbe essere intesa come un’inarrestabile conquista della dissonanza, ovvero come una progressiva corrosione cromatica dei due modi maggiore e minore.

Benché impossibile sapere con certezza quale poteva essere la sensibilità acustica dell’uomo medioevale, tuttavia l’armonia modale del canto gregoriano, basata sui suoi otto modi o scale ed esclusivamente diatonica (modi che corrispondevano ciascuno a un diverso stato d’animo, il primo grave, il secondo triste, il terzo mistico, il quarto armonioso, ecc., che il fedele poteva riconoscere immediatamente, indice questo di una cultura musicale estremamente raffinata ed evoluta), rappresenta forse il momento di massima consonanza nella storia della musica occidentale: il canto gregoriano è un canto monodico, i cromatismi vi sono esclusi così come le modulazioni e l’utilizzo della sensibile (nell’armonia tonale la sensibile è l’ultimo grado della scala maggiore o minore che  risolve sempre sulla tonica). Esso s’impernia su pochi suoni fondamentali e prevalentemente su soli intervalli consonanti come si conviene a un canto direttamente ispirato da Dio, a completo servizio della parola divina.

Soltanto attraverso gli sviluppi cromatici della modalità nella polifonia vocale quattro/cinquecentesca si approderà al sistema armonico tonale e ai suoi due modi, maggiore e minore, sintetica risultanza della forza attrattiva di alcuni suoni su altri, a partire dalla dominante (V grado) sulla tonica (I grado). Il passaggio dalla modalità alla tonalità determina inoltre un ulteriore significativo cambiamento nel pensiero musicale, che gradualmente passa dal concetto di pura orizzontalità di linee, tipico del canto piano gregoriano, a quello invece di verticalità accordale del sistema tonale moderno.

Sarà proprio Bach a ricomporre questo dualismo, deducendo dall’intrinseca contrapposizione di forze contenuta nelle due tensioni (orizzontale-modale e verticale-tonale), un’unica spinta propulsiva in cui quelle due tensioni si alimentano e arricchiscono reciprocamente. Bach reinterpreta e definisce l’armonia tonale, innestandola nella prospettiva lineare del contrappunto antico. Perciò l’armonia – da lui indagata nelle sue infinite possibilità – oscilla tra il colore tipico della modalità e quello di una sorta di tonalità arcaica anche negli esiti maggiormente cromatici. La dissonanza è parte del lessico simbolico legato al sacro, spesso associata al tema della sofferenza e della passione di Cristo.  Occorre aggiungere che tutta la musica di Bach mira a una sintesi storica tra arte e scienza – ovvero un’arte complessivamente intesa ancora secondo il concetto medioevale di ars – in cui ogni impulso creativo è ricondotto a sistema, giungendo, in opere come la Musikalisches Opfer o Die Kunst der Fuge (“Kunst”, ossia “arte”, come già detto, intesa come scienza), a una contemplazione dei suoni di tale purezza, da non prevedere neppure una precisa destinazione strumentale. Tutto ciò rappresentava lo scopo supremo di una vita tesa a una perfetta disciplina, all’autocontrollo della fantasia fino all’umiliazione di processi puramente istintivi, senza con ciò impedire alla grazia della più pura spiritualità di manifestarsi in tutta la sua immensa potenza. Paradossalmente, egli, una delle più grandi personalità dell’epoca tardo-barocca, fu anche la meno nota e pochi furono capaci di leggere e comprenderne il messaggio.

Procedendo nel cammino di conquista della dissonanza, dopo la monumentale e momentaneamente inascoltata parentesi bachiana, in un contesto armonico “ritrovato”, sostenuto dal basso albertino (l’accompagnamento fatto di suoni arpeggiati dell’accordo) sul quale si dispiegano le melodie più semplici e “naturali”, (lontane dalle pesantezze contrappuntistiche bachiane), cominceranno ad apparire ritardi, appoggiature, note di passaggio, anticipazioni, ovvero tutta quella serie di abbellimenti o note estranee all’armonia che diventeranno sempre meno estranee per concretizzarsi a poco a poco in nuovi agglomerati accordali fatti non più di sole tre note, ma di quattro e  persino cinque note (poi 6, 7, 8…mettendo sempre più in crisi i teorici della posterità). Questo porterà a un notevole arricchimento della tavolozza armonica, all’espansione delle possibilità dei collegamenti accordali, a un ampliamento cromatico attraverso la trasformazione in momentanee sensibili di altri gradi della scala nonché delle possibilità di reale modulazione ad altre tonalità: l’armonia giunge così alla sua età classica, equamente ripartita e organizzata nelle sue interne forze consonanti e dissonanti.   

L’armonia dell’epoca di Haydn e di Mozart, è un’armonia a suo modo compiuta, in cui la dissonanza è un espediente perfettamente controllato in un generale contesto formale in continua evoluzione ma pur sempre dominato da un grande senso di ordine e di equilibrio. Nulla di più perfetto ed efficace, allora, per rappresentare un mondo di valori certi, retto da sistemi politici e religiosi secolari come regni e monarchie, ambiti in cui gli stessi musicisti si trovarono per forza di cose a lavorare. Essi erano stipendiati, al servizio della corte degli Esterházy come a quella di Federico II di Prussia o di qualsiasi altro elettore, arcivescovo o re, e si rispecchiarono fedelmente nella loro opera, facendosi interpreti essi stessi di quel mondo compiuto, glorificandone l’umana gioia nella sublime esaltazione di una civiltà compresa in un orizzonte aprioristicamente dato e accolto nella dolce acquiescenza alle sue leggi eterne. In tale contesto la dissonanza non può che essere ancora totalmente funzionale all’ affermazione della consonanza, ovvero un artificio scenico  atto ad esaltare la piena consonanza di una felicità ogni volta confermata. 

Un discorso a parte meriterebbe Mozart, la cui opera – pur inserendosi alla perfezione nel suo tempo – tuttavia, compie una vera rivoluzione interna estendendo le possibilità comunicative della musica a frontiere sconosciute. Forse proprio con Mozart, dietro quella felicità data a priori, s’incomincia a scorgere qualcos’altro, il confine tra artificio scenico e il reale senso di un abisso diviene sempre più labile, ossia la dissonanza pare spostarsi da espediente armonico-estetico a espressione più interiorizzata del mondo. Musicista di transizione tra due epoche, durante l’ultimo decennio della sua vita, Mozart lasciò il servizio musicale di corte tentando di mantenersi come libero professionista e ciò dovette suonare come una ribellione, una dichiarazione di guerra fra il nuovo mondo borghese e l’antico regime della produzione artistica. La scelta fu pagata a caro prezzo e forse in parte contribuì a decretarne la precoce morte.

Il crollo dell’Ancien Régime, la lenta crisi di tutti i valori sociali, politici, religiosi di quella civiltà messa in atto dall’Illuminismo e culminante nella Rivoluzione francese, si rispecchierà nel sostanziale cambiamento di significato della dissonanza e nella presa di coscienza delle sue potenzialità critiche e corrosive: con Beethoven essa verrà implementata da un maggior contrasto ritmico, dinamico e timbrico e rivissuta dal suo interno in una prospettiva umana ed esistenziale non più sorretta dalla rassicurante magnificenza di edifici esterni ma lasciata sola di fronte a se stessa e alla vertigine dell’assoluto. Primo interprete di questo nuovo stato delle cose – e primo musicista indipendente dell’età moderna, non più a stretto servizio di alcun nobile o vescovo – Beethoven ricompone il mondo partendo dalla condizione di primordiale caos di forme e di forze che si scontrano tra loro sublimandole in una visione di spazi e tempi sconfinanti in dimensioni nuove, sospese tra estremi di registro (gli spazi abissali aperti tra l’estremo grave e l’estremo l’acuto) in ampie dilatazioni temporali oppure in ritorni alla sacralità nelle linee pure dell’antica modalità, per riconquistare infine tramite scenari ancora barocchi la gloria di una gioia tuttavia possibile. In Beethoven la dissonanza non è più mero espediente armonico ma vero e proprio moto dell’anima in una rappresentazione della realtà, di cui diviene al contempo conflittuale approccio. L’armonia comincerà a sfuggire dalle teoriche classificazioni e la tonalità ad acquisire ambiguità. Tuttavia l’armonia tonale, così indagata in ogni sua potenzialità, è ancora veicolo di coerenza formale, necessario per oltrepassare i limiti di equilibrio del sonatismo haydniano e mozartiano.

La dissonanza in seno alla tonalità avrà ancora molta strada da percorrere prima della sua dissoluzione, e avanzerà e sarà declinata nei modi più diversi dai grandi compositori del periodo romantico e tardo romantico. Uno dei compositori più interessanti sebbene ancora poco considerato da questo punto di vista è senz’altro Chopin, la cui musica raggiunge un grado di sperimentazione che in taluni casi oltrepassa i limiti stessi dell’armonia tonale, con un istintivo gusto coloristico che anticipa l’impressionismo e un’attrazione verso una consapevole imprecisione armonica che determinerà una nuova dissonanza, intimamente connessa con i flussi più profondi della psicologia umana.  

Con l’esasperato cromatismo del Tristan und Isolde, Wagner contribuirà notevolmente alla dissoluzione dell’armonia tonale ma la vera crisi, la definitiva corrosione delle sue funzioni portate all’estremo in costruzioni formali immense per dimensioni orchestrali e ampiezza di durate, si avrà con Mahler, musicista e uomo simbolo della crisi di un mondo e di un impero, quello austro-ungarico. Alle soglie del primo conflitto mondiale l’Adagio della sua ultima sinfonia, incompiuta, culmina in un accordo tragico, un accordo composto di dieci note, difficile da leggere in senso armonico, se non interpretando tutte le sue note come potenziali sensibili di altrettante tonalità (nel sistema tonale la sensibile, per la sua forza di attrazione verso la tonica, è la nota che in sé contiene la massima tensione armonica), che però in questo modo si annullano l’una nell’altra, in una babele armonica ormai ai confini di mondi ignoti sulla quale una tromba, sola, si erge in un grido tragico e straziante, una nota tenuta che a poco a poco sfumerà lasciando spazio al lontano ricordo delle ultime battute, forse la coscienza di una felicità possibile soltanto nel ricordo di un mondo irrimediabilmente perduto.

A questo punto la conquista della dissonanza è totale, ma per la dualistica legge degli opposti il momento stesso della sua totale affermazione coinciderà con la sua fine, ovvero con la dissoluzione del sistema armonico tonale che la legittimava. L’espressionismo armonico delle prime opere di Schönberg, Berg e Webern tenterà ancora per poco di protrarne il senso, nonostante l’esteso cromatismo ed un’esasperata utilizzazione degli intervalli più dissonanti (seconda maggiore, settima minore), ma infine con la formulazione del metodo dodecafonico e della serialità verrà compiuto il passo decisivo, il distacco in direzione di una più oggettiva ed astratta organizzazione dei rapporti tra i suoni e l’intuizione del timbro e della trasfigurazione timbrica come nuova possibilità espressiva.

Impossibile comprendere in un’unica linea di sviluppo, tutte le esperienze musicali del Novecento: le vie aperte da Debussy, Schönberg, Bartók, Stravinskj, sono tra loro diversissime, pur attingendo ognuna di esse dalla tradizione ogni volta riletta e rivelata nei suoi aspetti inediti in prospettive storiche sempre diverse. Dialogo col passato necessario, che continua anche in musicisti più vicini all’oggi – Stockhausen, Ligeti, Berio, Grisey, Boulez – con una progressiva estensione di possibilità d’indagine che ha finito per coinvolgere ogni scienza matematica, dalla biologia alla chimica, dalla fisica alla combinatoria, trovando prima nell’elettronica e poi nell’informatica, nuovo terreno fertile di ricerca e di applicazione per un ulteriore scomposizione e analisi del suono – dove per suono musicale s’intende oggi ogni fenomeno acustico percepibile, dal puro rumore alla nota dello strumento – e una sua nuova strutturazione e proiezione nello spazio, tecniche che hanno modificato il trattamento degli strumenti tradizionali, arricchendone di un lessico nuovo le potenzialità timbrico-espressive, per giungere infine a una radicale trasformazione della stessa percezione e di tutte le dinamiche psicologiche legate all’ascolto, a un coinvolgimento fisico-gestuale da parte di esecutori condotti in un territorio al limite, ancora indefinito tra la performance musicale, teatrale e coreografica, ad una nuova concezione della stessa idea di “concerto” tradizionalmente intesa, dei suoi spazi di destinazione e della relazione (spesso interrelazione) con il pubblico coinvolto.  Definire i contorni e i limiti in un campo di possibilità talmente vasto, sembra essere effettivamente il compito più difficile da parte del compositore, e tuttavia ancora necessario come poteva esserlo per Bach: il processo compositivo tende ad annullare qualsiasi diretta proiezione dell’Io, che si limita a circoscrivere nel modo più oggettivo possibile un terreno, un metodo, un sistema che conduca infine a una sorta di autonoma generazione del brano musicale. Necessario diviene un tipo di approccio diverso, una corrispondenza di intenti tra chi compone e chi ascolta, una sospensione del giudizio legato a criteri tradizionalmente intesi, una capacità di trascendere al di là delle semplici categorie del bello e del brutto, del mi piace o non mi piace, capire che l’opera d’arte è un atto dello spirito tanto potente quanto disarmato, un atto che si offre al pubblico anche  nella bellezza della sua vulnerabilità, che guarda al mondo e alla realtà con tutte le contraddizioni dell’oggi, estremizzandole in un gesto assoluto che ancora racchiude ora come sempre il mistero della vita e dell’universo.

Ultima dissonanza. In fondo quest’arte resta ciò che di più sacro vi sia al mondo, per necessità slegata da qualsiasi interesse di mercato, lontana dalle esplicite dinamiche che determinano mode e sistema (e ciò basterebbe a coglierne il grado di effettiva forza rivoluzionaria), ma proprio per questo costretta a pagare un prezzo altissimo che ne sta compromettendo le stesse condizioni di sopravvivenza. Non si può non ritornare allora proprio a Bach, pensando non tanto con dispiacere alla vicenda della sua particolare personalità artistica che, pur relegata ai margini dall’indifferenza e dall’incomprensione, ha potuto godere della piena felicità di una luminosa intelligenza, ma anche e soprattutto a ciò che un’intera generazione, la sua, per miopia, ovvero per una falsa visione prospettica della storia non è stata capace di cogliere e si è irrimediabilmente persa. Con la differenza, però, che in questo caso non si tratta di ridare giusto peso e valore all’opera di una singola individualità ma di un intero genere musicale che da quella tradizione discende e grazie al quale quella tradizione rivive e può essere rettamente compresa. Infatti, il dialogo tra antico e moderno è oggi più che mai vivo e vegeto, e la comune affermazione con cui spesso ci si congeda sbrigativamente dalla musica contemporanea, ovvero dicendo “non la capisco”, ne fa sorgere conseguentemente un’altra: cos’è esattamente che si capisce invece dell’altra musica, cos’è che si capisce di autori come Brahms, Schumann, Beethoven, Bach? Questo, senza tralasciare che allo stesso tempo mediocri figure dell’odierno panorama musicale – per lo più accostabili a generi come il pop o un finto minimalismo new-age, armonicamente banale e privo di qualsiasi interesse musicale – attraverso sciagurate operazioni di marketing, vengono disinvoltamente accostate e fatte discendere proprio da quella tradizione, da Mozart, da Chopin, portando così al totale stravolgimento della percezione storica di tutta un’arte, alla condanna per i tempi a venire a uno stato di totale analfabetismo musicale, a quell’insopportabile autocompiacimento da parte di un pubblico sempre più vasto, convinto di partecipare a tali eventi come a esperienze dall’alto contenuto culturale, pagando così a se stesso l’obolo dovuto a questa falsa sete di conoscenza.

Fiat modes pereat ars (“Che la moda sia e l’arte perisca”): forse è arrivato il momento di rimettere in discussione la relazione tra arte e moda partendo proprio da questo provocatorio proclama dadaista di Max Ernst, posto come titolo a una litografia del 1920. Il momento è quello in cui il motto degenera in realtà, una realtà in cui il trionfo delle mode è il trionfo della liquida società dei consumi, che oggi ristagna in una vasca sempre più marcescente, invece di scivolare sul suo piano inclinato per defluire definitivamente nel nulla. Se questa è utopia, lasciamo almeno che ars riacquisti un po’ del suo spazio perduto verso un auspicabile compromesso che ridia all’esistenza una qualche dimensione di concretezza e di realtà.