Un alieno ascolta Bach

La Società Internazionale di Musicologia ha di recente aperto una nuova rubrica nel proprio sito, intitolandola Musicological Brain Food. Si tratta di brevi saggi in formato amuse-bouche: giusto per farsi venire l’appetito. Il primo boccone della serie è dedicato a riflessioni “per una musicologia extra-terrestre”. Le riflessioni di Daniel Chua (presidente della Società) e di Alexander Rehding (teorico della musica) muovono da una ricorrenza: nel settembre 2017 si è celebrato il quarantennale del lancio delle sonde Voyager I e II nello spazio. Come forse alcuni lettori ricorderanno, le sonde Voyager – ora a circa 20 miliardi di chilometri di distanza dalla terra, al di fuori dal nostro sistema solare – ospitano un disco d’oro, che contiene una rappresentazione del nostro pianeta e della sua cultura, una sorta di ‘messaggio nella bottiglia’ per una eventuale forma di vita aliena che riuscisse ad intercettarlo, presumibilmente quando ormai del nostro pianeta non vi sarà più traccia (vedi immagine di copertina ndr).

Nella rappresentazione terrestre che il disco fornisce, i suoni la fanno da padrone: tre su quattro delle categorie del disco (immagini, musica, suoni, saluti dal mondo) appartengono infatti al mondo sonoro. La sezione dedicata alla musica presenta registrazioni che spaziano da Bach (che la fa da padrone) e Beethoven a canti Navaho, percussioni senegalesi e “Jonny B. Goode” di Chuck Berry. Tra i ‘suoni’ si annoverano esempi tratti dal mondo naturale (suoni animali, il vento, la pioggia) e dal mondo umano (risate, mezzi di locomozione, baci). Infine vi sono saluti espressi in 55 diverse lingue, ciascuna a modo proprio. A dispetto dell’adagio che vuole che la modernità sia caratterizzata in primo luogo da un culto per l’immagine, gli scienziati che negli anni ‘70 in sei settimane hanno deciso cosa includere nel disco hanno dato rilievo al potere rappresentativo del suono. Certo, come fa notare Rehding nel suo breve intervento, gli scienziati hanno immaginato degli extra-terrestri un po’ antropomorfi: nulla infatti ci assicura che altre forme di vita siano dotate di organi dell’udito conformi ai nostri, o di organi dell’udito tout-court. Nell’articolo viene fatto notare che molti animali che popolano il mondo in cui viviamo – nella sfortunata era dell’Antropocene, che li vede subire i mutamenti globali provocati dall’uomo – hanno un sistema uditivo talmente differente da quello umano da far sì che se udissero uno dei vari brani inclusi nel disco d’oro, esso suonerebbe del tutto irriconoscibile. Ciò che inoltre non va dato per scontato è che l’extraterrestre che – immaginiamolo pure dotato di un organo dell’udito simile al nostro – sentisse i suoni che gli abbiamo inviato nella sonda Voyager li interpretasse come noi. I suoni e la musica acquisiscono senso all’interno di una cultura di riferimento: quale significato potrà mai assumere il Melancholy Blues di Louis Armstrong ascoltato, che so io, nel pianeta XYZ324? Proprio dalla riflessione sulla prospettiva di partenza nascono le considerazioni più provocatorie degli autori. Daniel Chua si chiede: “Inviare musica nello spazio pone in prospettiva la musicologia. Che sia stata tanto ossessionata dall’umanità come soggetto eroico della conoscenza al punto da dimenticarsi che c’è un universo lì fuori del quale siamo creature, assieme ad altre specie? … Stiamo parlando solo a noi stessi, tutti presi dal nostro universo fatto di autonomia musicologica, al punto tale che già suoniamo alieni al resto delle scienze e delle discipline umanistiche, figurarsi ad un alieno vero?”. Le provocazioni dei due autori ricordano un po’ nella modalità le riflessioni che Montesquieu faceva riferire ai suoi viaggiatori Usbek e Rica nelle Lettere persiane (1721). L’idea, letterariamente efficace e ampiamente utilizzata, è quella di impiegare l’immaginario sguardo di un ‘Altro’, estraneo alla nostra cultura, al fine di criticare gli assunti di partenza, spesso dati per scontati, della cultura cui si appartiene. Che si tratti di un extra-terrestre o di un polpo (entrambi esempi citati dagli autori) il messaggio di base dell’articolo è che cercare almeno di immaginare come una creatura aliena (nel senso di diversa da noi) si porrebbe di fronte al mondo sonoro ci aiuterebbe a guardare con occhi diversi fenomeni cui siamo abituati e che, dunque, ormai non vediamo (o sentiamo) nemmeno più. L’esortazione di Chua e Rheding è rivolta ai musicologi, ovviamente, e al loro modo di concepire e raccontare la propria disciplina, ma possiamo usare le riflessioni dei due studiosi per soffermarci un po’ a ragionare sul nostro rapporto quotidiano con i suoni: ci saremmo forse dimenticati anche noi che “esiste un universo lì fuori del quale siamo creature” e che questo universo è popolato di suoni che hanno un alto valore nelle nostre vite?

La dimensione sonora del mondo in cui viviamo immersi passa spesso inosservata. Ciò non significa che essa non esista o non abbia un rilievo nelle nostre vite, eppure raramente le dedichiamo molta attenzione, musicologi compresi. La provocazione contenuta nei due brevi saggi citati vuole andare nella direzione di farci riflettere proprio su tutto ciò che diamo per scontato nei nostri abituali ragionamenti – da esperti o amatori – sulla musica, sui suoni e sulle nostre esperienze sonore.

Quante informazioni vengono continuamente elaborate dal nostro cervello sulla scorta degli stimoli sonori che riceviamo mentre passeggiamo per strada, convinti di star solo pensando ai nostri prossimi impegni? I suoni ci permettono di orientarci nello spazio e, tanto quanto la vista, ci avvisano di possibili pericoli, ci informano sul momento del giorno in cui ci troviamo (i suoni del giorno non sono quelli della notte). Essi integrano in modo costante l’impressionante quantità di informazioni che ci consente di vivere e muoverci. Nella vita quotidiana si verifica di continuo quell’effetto che con tutta probabilità notiamo quando andiamo in aereo: l’aereo parte e il rombo del motore diviene presente ai nostri sensi. Tuttavia, dopo un po’, con le orecchie a bagno in quel rumore, il suono diventa distante per scomparire infine dalla nostra coscienza. La sua assenza, ad atterraggio avvenuto, ci rende di nuovo coscienti di quanto quelle vibrazioni ci avessero accompagnato per tutto il viaggio.

Lo stato di immersione in un mondo sonoro (in modo anche inevitabile) non ha come solo effetto quello di renderci dimentichi della quantità di suoni che ci circondano, ma anche della loro ‘qualità’. Un aspetto da tenere in considerazione, infatti, è che tutti i messaggi sonori che decodifichiamo di continuo senza accorgercene sono messaggi culturalmente definiti. Si tratta di qualcosa di cui con più facilità diventiamo coscienti quando viaggiamo. Sbarcati dall’aereo di cui sopra, non solo noteremo l’assenza del bzzzzzz del motore, ma noteremo anche – forse una volta usciti dall’aeroporto – la diversità del mondo sonoro che ci circonda, sia essa anche solo costituita dalla varietà sonora di una nuova lingua parlata attorno a noi. Forse usciremo per strada e faticheremo a decifrare subito il significato dei vari dlin dlin dlin e tru tru tru. Magari, se siamo fortunati, un volatile ignoto nella nostra città ci farà ascoltare una melodia sconosciuta e vorremo sapere cos’è e come si chiama (cosa che non ci chiediamo mai in relazione ai suoni dei volatili cui siamo abituati, anche se poi non saremmo in grado di associare volontariamente il verso all’animale, e quindi il suono che crediamo di ‘conoscere’ ci è altrettanto ignoto di quello che incontriamo nel nostro immaginario viaggio).

Vivere ‘immersi’, incapsulati – stile ‘cialda del caffè’ – in uno spazio (visivo, sonoro, tattile, olfattivo, gustativo) che ci avvolge, ci protegge ma anche ci sommerge, ci fa dimenticare i confini della capsula, i suoi margini, come essi vengono prodotti e come possano essere valicati. L’immersione neutralizza, anestetizza, il potere dirompente (estetico, non an-estetico) del mondo sonoro. Essa è inevitabile e preziosa, perché sarebbe impossibile, troppo faticoso, vivere in continua cosciente allerta di tutti i messaggi sonori, ma è anche subdola perché ci priva di potenziali esperienze e conoscenze, ed assolutizza il valore della capsula in cui ci troviamo a bagno.

Ecco allora che l’alieno evocato dall’articolo menzionato in apertura ci viene in soccorso. E, come ricordato dagli autori dei due brevi saggi, Chua e Rehding, non c’è nemmeno bisogno di andarlo a cercare in altri sistemi solari, perché esso può essere anche un polpo o – dico io – una persona abituata a frequentare capsule diverse dalle nostre. Potremmo allora provare a fare un’esperienza, un gioco di ruolo: usciamo dallo spazio dove stiamo leggendo questo articolo e ascoltiamo, come se fosse la prima volta, come se non fossimo nella nostra città, come se avessimo bisogno di ri-orientarci. Come suona la nostra città? Che cosa ce la caratterizza da un punto di vista sonoro? Che cosa ci farebbe dire – ad occhi chiusi ed orecchie spalancate – “ecco, sono a casa”? Si tratta ovviamente di un gioco, di una simulazione, di una provocazione. Come l’amuse-bouche della Società Internazionale di Musicologia.