Musica senza volto

Sull’arte figurativa e la sua differenza dalla musica

Nella cultura media della nostra società sopravvive un tipo di esperienza non riconducibile al rapporto che quotidianamente intratteniamo con le cose. Se da una parte assistiamo all’ormai planetario dominio della tecnica, e quindi al planetario dominio di un certo modo di vedere il “ mondo” per cui esso è ridotto a puro impiegabile, dall’altra abbiamo anche esperienza diffusa di un culto per un certo tipo di cose chiamate “opere d’arte”. Questo culto vuole che certe “cose” vengano sottratte al dominio manipolativo dell’uomo. In questo atteggiamento “culturale” di rispetto nei confronti dell’opera d’arte (per esempio di fronte alla Gioconda di Leonardo o La notte stellata di Van Gogh) quello che emerge, nonostante la mercificazione sempre in agguato, è “ una reale, seppur confusa, consapevolezza di trovarsi di fronte a un messaggio autentico”, e quindi al cospetto di un’esperienza alternativa rispetto all’ordine quotidiano in cui ci muoviamo.  

Ma in un’epoca come la nostra, alla spasmodica ricerca di sempre nuove “esperienze”, anche l’esperienza artistica tende con crescente facilità ad appiattirsi sul livello “mondano”: segno ne è, almeno in parte, il fatto che fare “un’esperienza artistica” si riduca quasi totalmente al fare visita alle opere nei grandi musei del mondo. Il museo relega per definizione l’arte in uno spazio riservato, accanto ai molti altri che una città ha “da offrire”. La cosiddetta esperienza artistica (si pensi alle vacanze di massa) è tutta inserita nel piano delle cose da fare: è il “salto” al museo di tendenza che non si può “assolutamente perdere”. Ma per quanto si gironzoli per i corridoi di famosi musei, mossi da una bonaria disposizione a lasciarsi conquistare dalle opere stesse, questa sete d’arte si lascia con facilità vincere dalla delusione e, a volte, dalla noia.

Wassily Kandinsky usava dire che la gente vaga ed esce dai musei povera o ricca come quando vi è entrata. Davanti ad una scultura, davanti a un quadro, uno sguardo non educato fatica, per lo più, a leggervi qualcosa che non sia l’abilità tecnica o l’immediato da essi rappresentato. Lo sguardo “dell’intenditore”, invece, nota particolari estrinseci, come la consistenza del colore, le qualità della fattura o l’epoca di realizzazione. In entrambi i casi, queste opere non parlano: sono e rimangono oggetti senza risonanza. “Ci si immerga e ci si concentri quanto si vuole negli oggetti, nella situazione, nel carattere, nelle forme di una statua o di un quadro, si ammiri quanto si vuole l’opera d’arte, si vada in estasi di fronte ad essa, ci si riempia di essa, ma tutto ciò non basta: queste opere sono e rimangono oggetti per sé sussistenti, rispetto a cui noi non oltrepassiamo un rapporto di intuizione.” Il fatto è che la barriera costituita dall’immagine può anche non essere oltrepassata. Già Platone sapeva molto bene che l’immagine artistica rischia di confondere lo spettatore, creando l’illusione che l’oggetto rappresentato (La sedia di Van Gogh) intenda presentare l’oggetto reale (una sedia). E sapeva anche che ogni immagine blocca l’oggetto in una determinata “prospettiva” (quella dell’artista), slegandolo dal contesto di relazioni (innanzitutto pratiche) che lo definiscono.

La musica invece non blocca qualcosa come una prospettiva. Innanzitutto perché non ha un volto, non custodisce figure. La musica si rivolge direttamente all’interiorità soggettiva: appunto a ciò che non ha “volto”. La musica è essenzialmente spirituale. A renderla la più spirituale delle arti è prima di tutto la sua inconsistenza oggettuale. La statua ci sta lì davanti. Così come una tela. La vediamo, la esploriamo, ci avviciniamo e ci allontaniamo. L’esperienza musicale è invece completamente diversa: innanzitutto perché nella musica la differenziazione tra il soggetto e l’oggetto, come scrive Hegel, viene meno: il contenuto “ della musica è “ l’in se stesso soggettivo, e l’estrinsecazione non raggiunge un’oggettività spazialmente permanente…”. L’arte musicale, cioè, è “impossibilitata a produrre un’oggettività che sia esterna al suo stesso dispiegarsi”. La musica è nel suo farsi. Se la produzione musicale non conduce in essere un’oggettualità stabile, ciò importa che l’inoggettività investe anche il “contenuto” di questa produzione. Perché la musica possiede certamente un contenuto, ma non nel senso delle arti figurative, e nemmeno in quello della poesia; “quello che le manca è proprio il configurarsi oggettivo, sia nelle forme di reali fenomeni esterni, che nell’oggettività di intuizioni e rappresentazioni spirituali”. Il suono, proprio perché non è un materiale stabile, “ invece di fissarsi in forme spaziali e di acquisire sussistenza quale molteplicità di ciò che è giustapposto ed è nel modo della esteriorità reciproca, rientra nel regno ideale del tempo e non giunge quindi alla differenza fra l’interno semplice e la concreta figura e apparenza corporea”.  Il suono cioè trova subito eco nelle profondità del nostro spirito, dato che la mediazione oggettuale dilegua non appena è sorta.

Dalla vista all’udito

Questa inoggettività della musica rinvia al senso a cui essa si rivolge. E la musica non si rivolge alla vista, ma all’udito, un senso apparentemente secondario. La vista, in quanto senso determinante per eccellenza, è sempre stata considerata una facoltà fondamentale, proprio in ragione della sua valenza conoscitiva: conoscere infatti significa distinguere, determinare. Per questo Aristotele diceva che tutti gli uomini tendono al sapere, e portava come prova l’amore che essi provano per le sensazioni, in particolare per la vista, che è quella che ci informa sull’ente più di ogni altra. Noi conosciamo distinguendo: e la vista distingue immediatamente ”gli oggetti” della percezione. Né è un caso che il linguaggio filosofico abbia chiamato l’essere dell’ente eidos. Eidos è ciò che può essere visto (dall’intelletto) abbracciato e quindi conosciuto (orao, vedere, al perfetto, oida, significa “sapere”). E d’altronde la filosofia ha nel suo etimo la cura per ciò che si mostra nella chiarezza (nella parola greca sophìa risuona saphès, chiarezza, che a sua volta rimanda a phòs, luce). E si mostra nella chiarezza ciò che innanzitutto è determinato, distinto, manifesto (saphès).

L’udito non coglie oggetti né forme determinate. Eppure anche l’udire è sempre determinato; noi distinguiamo ciò che udiamo: il canto del passero, il vento tra le foglie, il suono delle campane, le parole che un amico ci sta rivolgendo. Capiamo, le sue parole, e quando non sentiamo “bene” diciamo di non aver “capito”. Un orecchio educato riesce persino a distinguere la determinatezza delle note che compongono una musica, come per esempio accadeva a Mozart quando trascriveva ore dopo averlo sentito un concerto ascoltato una sola volta. Come accade che possiamo distinguere ciò che per sé, si offre come un unico flusso sonoro indistinto? Per quanto concerne la visita, sembra assurdo chiedersi come sia possibile il distinguere: la facoltà visiva, infatti, sembra naturalmente predisposta a distinguere il veduto: la casa, l’albero, la lampada, le stelle. Ma dietro questa ovvietà si cela subito un interrogativo: cosa potremmo vedere con i soli occhi? Propriamente niente. Non ci sarebbe nulla che potremmo ri-conoscere. Inizia con ciò a mostrarsi qualcosa di più originario, su cui si fonda il nostro vedere e udire. Heidegger ha chiamato questo fondamento la “comprensibilità”, cioè la comprensione in cui il mondo in qualche modo ci è già sempre dato. Ma l’articolazione di questa “comprensibilità” del mondo è inscindibile dalla parola.

da FEDERICO NICOLACI,, Esserci e Musica, Heidegger e l’ermeneutica musicale