Dante e Bach (prima parte)

Lectura Dantis in cattedrali gotiche. Thomaskirche, Lipsia. Silenzio confuso, dopo l’inesistente e assurda cerimonia. Il leggio di legno massello dista dal portale quanto basta, per ascoltare, meditare e rimeditare ogni parola. Come in loop, l’eco che annuncia la Buona Novella, questa volta proclama la Comedia, esaltata in centinaia di registri: uno – più degli altri – ci colpisce. La vox humana, vox ora anche poetica e, perciò, degna di essere amata, accompagnata in coro, e stimata divina. Ci sono vecchi che ancora oggi ricordano a memoria i versi del Poema, delle rime, dei sonetti o delle canzoni; e ci sono bambini che imparano a intonare un preludio, una suite, un’invenzione o una partita di Bach. Ecco, non è anche questo un coro perpetuo, un “corale” che accompagna da secoli il registro più divino di cui possiamo servirci? La voce. È sufficiente lei, a volte, per confessarci felici, o almeno, investiti e sconfessati – sacralmente – dalla bonheur; cantus firmus, senza tremito, che acquista vita e ci raggiunge, campata dopo campata. Ma come ci raggiunge? La voce non è più una sola. Sono almeno tre, moltiplicate dal riverbero, come quelle di un organo: terzine di poesia polifonica. Non è un attore a interpretare il Poeta, né un lettore in carne ed ossa. È una macchina ben più complessa, di natura ultraterrena. Può essere persino l’architettura della chiesa, o meglio, l’architettura della musica nella chiesa. La musica di Bach e la poesia dantesca sono naturalmente solide, sicure, accese come intimi focolari, rassicuranti. Sono articolate, reticolari, proteiformi: mutano appena le catturi, come il Proteo omerico dell’Odissea. Perciò, se dovessimo pensare a un’ideale e utopica lectura di Dante, sarebbe preferibile la polifonia: una melodia tripartita, o almeno “fugata” a tre voci, dove un singolo tema è interpretato, identico e assolutamente diverso, da tre differenti prospettive, autonome ed interdipendenti. Suite No. 5 in Do minore, preludio. La gravità e l’angoscia dell’ouverture si interrompono; inizia una fuga, sul violoncello. Com’è possibile? “Se la Passacaglia, nel caso di Bach, è destinata all’organo, strumento polifonico per eccellenza, la Ciaccona si rivolge al violino, strumento eminentemente melodico e per sua natura non in grado di supportare da solo una parte di basso e di realizzare armonie. Tuttavia, mediante artifici tecnici particolari (corde doppie, accordi, bariolage ecc.), è possibile simulare una polifonia. In ciò sfruttando anche il concetto di “polifonia immanente”, secondo il quale l’orecchio umano è in grado di riconoscere armonie (e relativo basso) suggerite da passaggi melodici o accordali in regioni più acute.” (cit. Diesis&bemolle). In Bach, non esiste la “nota”: esiste una “nota in fieri”.  

Leggiamo la famosa epistola di San Paolo: siamo esseri in fieri; conosciamo come in uno specchio. Ora non “siamo”. Soltanto post mortem “saremo”. Era chiaro a Bach il concetto di piega, di trasformazione perpetua e unitaria: quando la corda cessa di vibrare, non appena il suono muore, la nota si imprime icasticamente nella memoria, nel subconscio dell’animo, in uno spirito inconsciamente al cardiopalma. E noi continuiamo ad udirla; tutto ciò che accade dopo, è una sovrimpressione, piegata e ripiegata all’infinito, di ciò che è già successo. Ascoltando la poesia di Dante, ogni verso si imprime nella memoria e risuona sinfonicamente, in sincronia con il verso presente. Tutto è “presente” in Dante e Bach. Di nuovo, è qui che si crea un contrappunto poetico, ovvero un ricordo divinamente formato di futuro, e un desiderio umanamente intessuto di passato. Nella propria mente, un organo al pari del cuore per emozioni e sensazioni, si dipana, in tutto il suo anelito, una partitura per due, tre, quattro, dieci, cento voci, che possiamo sigillare in terzine di canto. La musica del Kantor è un saliscendi, tra umanità divinizzata e divinità umanizzata, è un eterno e infinito oscillare tra Inferno, Purgatorio e Paradiso. Tre regni unificati in vitam da un conquistatore sfuggente, che non riconosco; tre mondi fusi e compressi tra loro, in ogni luce, colore e sfumatura, come nel Trittico del Beato Angelico: un’offerta musicale, ma – in primis – offerta di speranza. E la terza piccarda dopo Lucifero, l’epilogo di Delitto e Castigo, l’ammettere degli Adelphoe di Terenzio.  L’ultima nota sono le stelle; le “stelle” che Dante rivede, le “stelle” di cui si accorge, le stesse “stelle” che sono l’ultima parola delle tre cantiche della Commedia.

A tratti poi, le composizioni dei due Padri sono nostalgiche, eppure immanenti, forti e dure, di esalazione e respiro, capaci di affinarci prima ancora di apparire fini. Sono fortezze della lotta tra bene e male, punti chiusi e apertissimi, dove anche le mani più sdrucciolevoli si possono appigliare; pensiamo all’organo, al musicista che quasi scompare sotto il peso del metallo, e del legno, di quelle canne che vibrano, come mai hanno vibrato le dita di un violoncellista. L’aria musicale diventa indispensabile, dà forma a un organismo immerso in quel liquido aeriforme, tanto caro al filosofo Anassimene quanto ad ogni organista. Insomma, immaginiamo di stendere su nastri di pergamena (non trecentesca, ma settecentesca) le terzine dantesche, trasformando i celeberrimi “tre versi in rima” in tre pentagrammi; questo fino ad ottenere un’infinita successione ritmica e musicale, un’esasperazione del barocco, che arrivi a conquistare la libertà classica, così semplice, istantanea e nel contempo complessa; “bacchica” e, insieme, “bachiana”.  

La chiesa di San Tommaso allude, forse, al gesto anti-rituale del “dito nel costato”; ecco, l’opera dei due compositori si presenta paradossalmente come quel dito, che stabilisce una volta per tutte la Via, la Verità, la Vita; che pone un senso, che – per grazia di uno sgarbo alla deità – culmina in un punto di partenza per la nostra esistenza. A ciò che l’uom più oltre non si metta. Due pietre angolari, due titani e miti archetipici della loro arte, uniti dall’ars maxima occidentale e, soprattutto, uniti da Dio. Dante e Bach. Non sono che atrio e ventricolo dello stesso cuore, di una sola anima mundi. La loro somiglianza va ben oltre un auspicabile parallelismo tra il Magnificat e la Vita Nova; si radica in primis nello stile – bello stilo – delle loro composizioni, nella sfalsata intimità del sentire, che non si limita all’interiorità francescana, ma all’esteriorizzazione compassata ed introspettiva dell’io, che prende forma in una recettiva e trasparente pelle di tamburo. Ogni nota, ogni sillaba è fondamentale.  

Beatrice è una celeste scala musicale, un armonico sul violino, un mottetto gioioso e triste di note miracolose. Note che assemblano un’epifania di cuore e mente, che danno ragion d’essere alla vita umana, abbagliando l’uomo con le modeste tenebre del suo stesso animo. Un animo – ricordiamolo – creativo perché inizialmente imitativo: quanti, nel loro quotidiano, hanno provato ad agire o a pensare col timbro di Dante o l’ingegno di Bach? Un’infinità; e questo poiché la loro arte è fortemente prassistica, interconnessa alla vita comune da sottili, ma eterni capillari. Siamo tutti impazienti di suonare, per scoprire se la vita sulla carta mantiene ancora il nostro profumo, la nostra unica volontà, i desideri che avremmo dovuto desiderare, i sogni e le ambizioni che ingenuamente scambiamo per ricordi. Non ce lo siamo mai chiesti, noi amatori e appassionati? Perché suonare Bach quando Gould e Rostropovich già lo suonano, per così dire, alla perfezione? Perché leggere Dante in un’aula scolastica quando Carmelo Bene e Gassman l’hanno già scandito senza alcun difetto di pronuncia? Nel “sacrato poema”, l’ombra costante della resurrezione della carne ci fa riflettere sul definitivo maggiore o minore che si imporrà sul mondo. Quale tonalità prevarrà in ciascuno di noi? La musica e la poesia sono, per la prima volta, non solo mediatrici verso Dio, ma alterazioni, in grado di stravolgere la nostra, singola e singolare, “armatura di chiave”, per farci tornare a casa, per trasformare il Do# in Re, perché la Dorica non finisca in minore, ma in maggiore, o perché il preludio del The Wedge si concluda in positivo, affinché la memoria si proietti sempre avanti, perché dopo l’Inferno “qui”, dopo il Purgatorio dell’”eterno presente”, ci sia il Paradiso “ora”. Cristo è fermo davanti a San Tommaso, Dante è in esilio: tutti noi vogliamo risorgere. La salvezza dopo la sofferenza.