Dante e Bach (seconda parte)

Dulcedo e soavitas: ciò che lega il primo Dante al Dante della maturità. “Beatrix” nasce nella Commedia quando muore nella Vita Nova. Anche Bach torna ai temi della gioventù, alle prime intuizioni; eppure non sono solamente gli anni accumulati a rinnovare la sua musica. Le note gli scorrono davanti agli occhi come ricordi, in un denso, istantaneo e incostante romanzo spirituale. Il Poeta sarà di nuovo capace di cantare la sua “gentilissima donna”, ma il Kantor di Lipsia si coronerà di un trionfo di equivalente magnificenza, facendo amoroso uso della conoscenza conquistata. L’Adagio del Concerto No. 5, in Fa minore, non è altro che la Canata No. 146, spogliata di ogni grezza inesperienza. Ma quando, trattando di vita – non di biografie – Bach fu degno di tornare sui propri passi? La risposta non ha nulla di musicale: quando, danzando su un pavimento vuoto, si liberò proprio come fece Jacopone da Todi, trasformando le catene mondane in catene di musica, identificando nell’arte il sosia della sofferenza umana, lo strattagemma odisseico che gli avrebbe permesso di ancorarsi all’albero della barca: ascoltare le sirene, senza però peccare; ovvero scrivere di una vita, nel contempo vissuta e non vissuta, un paradeigma deduttivo e induttivo, come d’altronde potrebbe apparire nell’arte, la genesi di sensazioni mai provate, alla luce crepuscolare della propria liminare e dunque umana esperienza.  

Insomma, l’uomo si libera incatenandosi, ma con catene – così diremmo – sovrasensibili, eppure concretamente capaci di abbattere quelle altre catene degradabili e pesanti. Ma quali sono queste catene inafferrabili eppure così tanto concrete? Abbiamo sott’occhio e sotto mano le terzine dantesche, con le loro rime incatenate. La Divina Commedia, canto per canto, si evolve come in un’essenziale “variazione sul tema”, al ritmo di un’avanzata tonale affine al Clavicembalo ben Temperato; ecco, le terzine sono la musica di Bach: una strategia “incatenata”, irreversibile e vitale, di avanzare nel cambiamento, nella detronizzazione del vecchio e nella venuta del nuovo. Ogni attimo, infinitesimamente passato, è impiegato attivamente per la vita rinnovata dell’istante successivo, imminente e prossimo nel futuro; la composizione bachiana non sacrifica nel lutto del silenzio le sue armonie. Si tratta semmai di un “sacrificio cristico”, dove la morte è prevalentemente occasione di rinascita, di sospirata forza e volontà. Le battute sono incastonate l’una nell’altra, sorrette da sottili rapporti quasi accidentali; in una tragica irriducibilità: assomigliano a spirali, protese vorticosamente alla “vertigine della libertà”, di cui ci parla Kierkegaard. Contempliamo sempre le stelle, ben radicati in un mondo così piatto, perché sopporta il nostro peso. In fondo, a un tratto si avverte il troppo, la smisuratezza, il delirio eccezionale di suoni e parole, che dall’essere dolci passano al sembrare “aspre e chiocce”, in una drammaticità teatrale ex abrupto, parricida e incestuosa, indifferente. Un sapore acerbo che odora di immaturità, di gioventù. 

Allora questo nostos – spaventosamente raggiungibile – si declina in tutte le ramificate emozioni che possiamo provare, in qualsiasi pensiero che il nostro cervello, già imbevuto, non abbia ancora elaborato: gli adulti tornano infanti, fingendo gioia, e i ragazzi si credono uomini navigati, inventando sofferenza. La musica di Bach è trasparente, si tinge soltanto dei nostri colori, della nostra esperienza: se invece ne è privata, resta muta; chi ascolta precipita verso l’abisso chiaroscurale del conforto, nei propri ricordi insostituibili. Silenzio, la risoluzione. Non può esserci silenzio. Mai più; la musica vive la nostra vita. Cadiamo tutti, “come corpo morto cade”; ma proprio in questa caduta ci accorgiamo di essere liberi. Eravamo l’assenza di forma che precipita, e in quel preciso momento al suolo, siamo stati tanti insignificanti, ma fondamentali frammenti, forse esseri umani. Forse bestie o angeli terribili. L’organo soffia, sorge in noi un dubbio: quanto tempo passerà prima che il vento apra e richiuda la stessa porta?

Le armonie di Bach hanno un tempo vitale, durano quanto un abbraccio, un bacio, una svolta; ti prendono per mano, per vivere, fino a trasformare il dolore in sofferenza. È strano, ma è come se ci si possa confidare ciecamente con la musica; una fiducia fraterna, o forse paterna: – Ascolta Bach!, è come stare in compagnia di chi si fida di te… e di cui tu ti puoi fidare… è  come il latino coagulato al tedesco.

Ho sempre sentito affermare che non si può conoscere la musica classica se non le si è prima avvicinati da un maestro, un padre. Ma la musica di Bach, come la poesia di Dante – ricordiamo il “Padre Dante” – ci inizia autonomamente, arbitrariamente: un’investitura poetica e musicale, un’esperienza allucinatoria e nel contempo quotidiana – La sol la, sol fa mi re do# re – o – Fatti non foste a viver come bruti –. Quante volte li abbiamo sentiti, quante ascoltati; ma solo una volta saranno quello che sono, ovvero non appena soffriremo. Bisogna aver sofferto con quella musica, anche per caso, in sottofondo, con le immagini che la poesia ci depone davanti agli occhi, impedendoci di vedere altro. Ascoltare e leggere: significa pregare, lasciarsi ispirare, scrivere addosso segni e cifre, con una violenza sacrale, un giusto sdegno. Un “effetto Bach” travolge la parola, in ripetizioni rinnovate, mai uguali a se stesse, metamorfosi immobili, molto care all’abitudinaria dolcezza di Nazim Hikmet (Concerto No. 1 in Re minore, J.S. Bach): “Il mattino d’autunno nella vigna / fila per fila nodo per nodo i ceppi si ripetono / sui ceppi, i grappoli / sui grappoli, gli acini / sugli acini, la luce / nella luce, il mio amore. / Il miracolo del rinnovamento, mio cuore, / è il non ripetersi del ripetersi”.  

– Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende… Amor che a nullo amato amar perdona… Amor condusse noi ad una morte… -. Dante è l’ubique, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso sono l’ubique: ovunque su questa terra, nella nostra vita, in quell’hic et nunc che sembra estraneo al fecondarsi dell’”umano nell’uomo”, ai soffocanti macrocosmi, all’unificarsi della nostra esistenza, al passare di un’umanità così identica e incongruente. La lingua delle nostre madri; le tinte, che logorate da decenni, rivelano la nostra monocromia.  

Bach è il semper, la musica della vita, ripiegata su se stessa in quell’infinito potenziale: finisce con noi, al taglio del cordone ombelicale con il sole, con la nostra città, gli affetti; è la musica nel suo adempiuto universale, la Musica con cui è scritta la musica di ogni generazione ed epoca. La voce più grave e quella più acuta, di un uomo e di una donna che discorrono, senza motivo.

Dante è l’immedesimazione; questa è la sua forza consolatrice. C’è un Dante agens e c’è un Dante auctor; ma forse, c’è anche un Bach che risponde dei due compiti, dal momento che il Kantor rappresenta la sfida inumana di intonare la polifonia, di spingersi, necessariamente e amorevolmente, a una nuova coralità nella nostra vita, alla condivisione e alla socievolezza della nostra natura più intima. Chi non comprende la sua musica, soffre di una vanitosa e vana, vuota solitudine: Bach racconta il superamento di questa solitudine, l’approdo ad una solitudine piena, o meglio, a quella compagnia “presente” e inestimabile di cui gode solamente chi ha imparato a stare solo. Gli occhi lucidi, non tanto per la bellezza, quanto perché ci si è accorti che la persona accanto a noi coglie il senso profondo di questa musica. L’unico modo di perforare il timpano della sua geometria tra le note, è crescere, abbattendo ogni parete. Così si sfonda il limite, il fondo buio della propria vita. Ecco la cura alla nostra noia, alle nostre lacune di affetto: immaginare il mondo, spogliarlo, ritrovare quell’amor che è di tutti e per nessuno; che si spalanca come le porte di una chiesa, senza fare rumore. E passa da un orecchio all’altro, come una parola, che perde di significato. 

Ecco l’uomo, circolare, nelle sue età: quello delle sei suites per violoncello. Il bambino in Sol maggiore, l’adolescente in Re minore, il padre in Do maggiore, il vecchio in Mib maggiore; la morte in Do minore, l’eternità in Re maggiore. La nostra vita, quindi, nonostante le sue frammentazioni, va colta in un’unica ascesa, secondo un’unica resistenza, un solo crescendo; come nelle Variazioni di Goldberg, l’aria torna identica (da capo, nostalgicamente) dopo una vita di traversie e peripezie. Nulla sembrerebbe fermarsi o sparire, fine a se stesso, anche se “tutto scorre”: questa è la polifonia dell’immanenza. “La Ciaccona per violino solo e la Passacaglia per organo sono i due massimi monumenti eretti da Bach a due forme musicali gemelle diffuse in tutta Europa nei secoli XVII e XVIII. Entrambe derivanti da movimenti di danza di probabile origine iberica, sono strutturate come una catena di variazioni su un semplice basso in ritmo ternario”.  

Danzare, esaurendo ogni passo conosciuto: la stanchezza rigenera il pensiero; col preludio ritornano i 35 anni, le scelte, nel mezzo del cammin, si decade nella vecchiaia della Sarabanda, nella nascita dei Minuetti, dalla Bourée, delle Gavotte, fino alla Giga, all’adolescenza. Una rinascita? No; un riapprodo? No. Che cosa allora? Una pausa, una messa, una partecipazione. Una redenzione, che ci salva dalla morte in vita, dalla pazienza fine a se stessa. “Geduld!” Un prestito d’infinito, una promessa di rinascita, un credito di riapprodo: siamo in debito con noi stessi da troppo tempo, ormai. Abbiamo di nuovo rimandato la vita, e ora? La paura della vita non è diversa dalla paura della morte. Ogni cosa è al pari di ogni altra; smetto di domandare l’origine del creato: almeno io, solamente io, torno alle insostituibili parole degli altri, torno a dipendere dall’imbarazzo, dalla frustrazione. La porta non si è chiusa abbastanza in fretta: sono riuscito a scorgere qualcuno. Non riesco più a vivere della mia vita, ma la mia vita, ora, non è così diversa dalla vostra. Esco in strada, senza alzare lo sguardo, canticchiando Dante e Bach: mi aggiro con quell’ansia di sbagliare, come se potessi innamorarmi di chiunque.