Due secoli di cliché in un’aria di Rossini

Il viaggio a Reims, dramma giocoso in un atto di Luigi Balocchi, fu rappresentata per la prima volta a Parigi, al Théâtre Italien, il 19 giugno 1825. Si tratta di un libretto strampalato, senza una trama vera e propria, nato per celebrare l’incoronazione di Carlo X a re di Francia: in un albergo s’incontrano viaggiatori dei vari Paesi dell’epoca, tra i quali nascono amori, gelosie, burle, equivoci e intrighi, fornendo la scusa per arie, duetti, concertati, composti da Rossini con la consueta brillantezza.

Una di queste arie è cantata da Don Profondo, antiquario italiano, che illustra il contenuto dei bagagli degli illustri ospiti accorsi da tutta Europa per celebrare l’incoronazione. Il risultato è irresistibile, anche perché in ciascuna strofa il cantante scimmiotta l’accento del popolo in questione, secondo canoni e cliché tuttora vivi e vegeti, a distanza di duecento anni: la donna francese pensa solo alla moda, l’uomo francese pensa solo a sedurre, il tedesco è un pedante patito di musica, il russo è un selvaggio megalomane e l’inglese non può rinunciare al suo tè né ai suoi prodotti finanziari. Rossini, però, ci lascia anche una descrizione dell’italiano che ci dovrebbe far riflettere: “Io, Don Profondo: medaglie incomparabili, camei rari impagabili, figli di tenebrosa sublime antichità…in aurea cartapecora dell’accademie i titoli, onde son membro nobile di prima qualità!”. Anche allora, la smania del curriculum…