Il canto del cigno

Arrivato a Parigi nella primavera del 1855 – per restarvi fino alla morte, il 13 novembre 1868 – Rossini, contrariamente al luogo comune secondo il quale avrebbe praticamente smesso di scrivere musica, si dedicò invece con distaccato entusiasmo – un ossimoro che ben si addice a Rossini – a piccoli gioielli che, di fronte alle ultime opere (pensiamo solo al Tell), possono sembrare cose di poso conto. Certo, su tutta la sua attività del secondo periodo parigino, spicca senz’altro la Petite messe solennelle, del 1864, che di petite ha solo l’organico, che prevede, nell’accompagnamento alle canoniche quattro voci soliste e al coro, due pianoforti e un armonium invece dell’orchestra. Tuttavia, già questa composizione, fin dal titolo, testimonia la volontà dell’autore di contenere sonorità e momenti di enfasi, per risposta alle esigenze estetiche dell’ormai imperante Romanticismo, mai amato dal Pesarese, e causa del suo allontanamento dalle scene per consapevole inadeguatezza ai canoni imperanti.

Rossini, dall’alto della sua fama, era continuamente stimolato a giudizi sui due nuovi fenomeni del teatro d’opera, cioè, ovviamente, Verdi e Wagner. L’atteggiamento del riconosciuto Maestro fu sensibilmente diverso, nei confronti dei più giovani colleghi. Nel caso di Wagner, riservò spesso al compositore tedesco, battute sarcastiche e boutade, in puro stile rossiniano; tra le più celebri, quella volta in cui, durante la presenza di Wagner a Parigi per dirigere una sua opera, Rossini organizzò a casa sua una cena che prevedeva, tra le pietanze, pesce alla tedesca, ma fu portata soltanto una salsa appetitosa. Rossini, allora, rivolgendosi ai commensali un po’ frastornati, avrebbe esclamato:“Gustate questa salsa, il pescatore non ha portato il pesce. Non vi meravigliate; non è come la musica di Wagner? Buona salsa, ma senza pesce, senza melodia”.

Verdi, invece, fu frequente ospite a casa Rossini a Parigi, specie durante la produzione di Don Carlos a Parigi, negli ultimi anni di vita del più anziano collega, che pure non aveva risparmiato frecciate anche a lui, definendolo, per esempio, “compositore con l’elmetto”. Le differenze di carattere tra i due, tuttavia, rendevano impossibile una vera e propria amicizia. E in ogni caso, l’atteggiamento di Rossini nei confronti della vita, lo rendeva strutturalmente impossibilitato a eleggere un erede, e chi era venuto dopo di lui, non poteva sfuggire alla sua tagliente ironia.

Così, Rossini profuse talento ed energie, dal 1857 al 1868, poco prima della morte, non già a entrare in competizione con questo o quello o, appunto, a individuare “delfini”, cui riservare particolari attenzioni, ma a ricercare in una dimensione interiore un senso, laddove, nel mondo, nulla riusciva a stimolare questa sua esigenza. Più la sua distanza dal mondo della musica istituzionale si accresceva, al perdurare della sua inattività, più andava accrescendosi una raccolta chiamata esemplarmente Péchés de vieillesse, che alla fine assommerà centocinquanta pezzi per voce e accompagnamento o per pianoforte solo, raggruppati in quattordici album, i cui titoli – come Rien o Morceaux – illustrano le intenzioni del compositore assai chiaramente.

La caratteristica unitaria di questa collezione – ché, altrimenti, unitaria non è – risiede nell’essere stata pensata per esecuzioni private, nelle dimore che Rossini condivideva con la seconda moglie Olympe Pélissier  a Parigi, in rue de la Chaussee d’Antin n. 2, o nel salon della villa di Passy, alle porte della capitale. Tra i più assidui a frequentare queste serate – assurte ben presto ad ambite occasioni mondane – vi furono musicisti come Charles Gounod, Giacomo Meyerbeer, Franz Liszt e il giovane Anton Rubinstein, oltre a scrittori, pittori e artisti come Alexandre Dumas, Gustave Dorè, Eduard Hanslick, Eugène Delacroix. Tra le cantanti, e interpreti d’eccezione dei brani rossiniani, Erminia Frezzolini, Christine Nilsson e le amate (professionalmente, ma con Rossini meglio specificare…) Adelina Patti, Marietta Alboni e Giulietta Grisi.

I testi erano di autori di cui oggi sappiamo ben poco, come Giovanni Redaelli, Giuseppe Torre ed Emiliano Castellani, ma vi sono anche letterati ben più importanti e noti: Carlo Pepoli, librettista de I puritani di Bellini – e immortale dedicatario dell’epistola leopardiana, uno dei più bei componimenti del poeta – ed Émilien Pacini, caro amico di Rossini e, oltre che librettista in proprio, autore delle traduzioni in francese de Il trovatore di Verdi e del Der Freischütz di Weber.

Un breve discorso a parte merita l’aria “Mi lagnerò tacendo”, tratta dal Siroe, re di Persia di Pietro Metastasio. Nel 1824, Rossini aveva contribuito all’album musicale della pianista Maria Szymanowska con una composizione per voce e pianoforte del testo di “Un’empia mel rapì”, tratta da Ermione. In seguito, e fino al 1860, riciclò un centinaio di volte la stessa melodia per un gruppo di canzoni sul “Mi lagnerò tacendo” del Siroe di Metastasio rivolte a nuovi dedicatarii, modificandone metro, tonalità e anche l’accompagnamento pianistico.

Un vero divertimento al quadrato per uno spirito raffinato e burlesco come quello di Rossini, che dimostrò, proprio nella ricercata semplicità di questi “peccati di vecchiaia”, di anticipare in musica quanto avrebbe scritto, pochi decenni dopo, Paul Valéry, a proposito della scrittura: “Occorre maggior finezza per fare a meno di una parola che non per introdurla”.