Amalgamando il pensiero. Opera culinaria e filosofia

Quando prepara una salsa, il cuoco ha a sua disposizione elementi sparsi e discontinui; sta a lui legarli in una sostanza nuova. Due stati: uno iniziale, in cui gli elementi coesistono, senza rapporto fra loro, eccetto il caso (in questa occorrenza, l’intervento del cuoco) che li ha riuniti in luoghi contigui l’uno all’altro, nell’interno del medesimo recipiente. L’altro finale, sintesi omogenea in cui nulla più permette di riconoscere i componenti precedentemente distinti. Tra questi due stati, un gesto: l’azione del frullino, che, se eseguita in modo opportuno, fa sì che gli elementi “si rapprendano”. Il problema più generale della filosofia è simile a questo problema di cucina elementare. Si tratta in tutti e due i casi di passare da uno stato di dispersione ad uno stato strutturato. Come il cuoco dispone di tutta la diversità degli ingredienti, il filosofo dispone di tutta la varietà di “ciò che esiste”: bisognerà far “rapprendere” in un sistema questa diversità, esattamente come la salsa maionese riesce quando i suoi tre elementi principali si sono finalmente amalgamati. In tutti e due i casi questa operazione richiede un minimo di abilità. “Sistema” significa precisamente “pensieri che stanno insieme”. Quindi, un sistema definisce tanto l’afferrare sinteticamente un’unità ricca di tutti gli elementi concepibili (Plotino, Hegel), quanto l’affermare almeno un certo numero di elementi.

Prima della filosofia, come prima della cucina, c’è dunque il disperso, il discontinuo, il separato, il caotico: il mondo freddo, inerte, insignificante, della coesistenza di fatto. Come nella scodella del cuoco vi sono le uova, l’olio, la mostarda, così nella rappresentazione del pensatore vi sono cose in numero infinito non legate a priori da nessuna struttura (eccetto le strutture apprese, trasmesse da un determinato ambiente culturale, che sono però seconde e subordinate). Cucinare significa intervenire nell’inerte dispersione degli oggetti commestibili: favorire artificialmente incontri che consentono di passare da uno stato di fatto (la discontinuità esistente) a uno stato culinario (la continuità conquistata). Fare della filosofia significa intervenire nella dispersione inerte degli oggetti di pensiero, ossia nella totalità di “ciò che esiste”: intessere qua e là relazioni che permettano di passare dalla visione di aggregati casuali alla comprensione di sistemi. Così ogni visione del mondo si riconduce a due grandi possibilità: visioni di elementi inerti e contigui (il primo stato, precedente alla salsa) o visione di insiemi di elementi (la salsa riuscita). In tutte le occasioni pensare corrisponde a far “rapprendere” e riunire certi elementi di caso (in tutte le occasioni: anche i pensieri che affermano radicalmente il caso non negano la possibilità di tali “rapprendimenti”, ma li considerano soltanto a loro volta casuali). In questo modo ogni filosofia si può definire un caso che si è rappreso.

L’opera culinaria e la filosofica corrono i medesimi rischi. Vi sono filosofie amalgamate e filosofie non amalgamate, come le salse. Ma qui bisogna precisare meglio. Se in realtà la salsa ha un solo modo di rapprendersi, ne ha però due diversi di non rapprendersi. Uno consiste nella cattiva riuscita del miscuglio intrapreso, l’altro nel rifiuto preliminare di fare il miscuglio. Ora, il cuoco otterrà un risultato assai diverso a seconda che la salsa non gli riesca o che invece rinunci a farla. Nella prima circostanza ottiene un risultato che si chiama “salsa non riuscita”, che è una mostruosità culinaria, una combinazione ormai inutilizzabile, destinata di solito alla pattumiera. Nella seconda circostanza, il cuoco conserva intatti gli elementi che ha rinunciato a combinare insieme: l’olio, l’uovo e la mostarda sono ancor sempre a sua disposizione in fondo alla scodella.

Quindi la pratica culinaria può produrre tre risultati: trascendere gli elementi in favore di una sintesi che è la salsa riuscita; sciupare gli elementi per ottenere un ammasso pseudo-sintetico che è la salsa mal riuscita; conservare gli ingredienti rinunciando alla confezione della salsa, ossia alla ricerca di una sintesi. Allo stesso modo, l’esercizio del pensiero può conoscere tre diverse sorti: trascendere il caso costituendosi in sistema, negare il caso senza riuscire a costituirsi in sistema, affermare il caso. O anche, tre modi d’espressione: parlare, farfugliare, tacere. Di qui, tre grandi forme di filosofia: le filosofie riuscite (conseguimento della sintesi), le filosofie fallite (fallimento della sintesi), le filosofie tragiche (rifiuto della sintesi).

Da quali condizioni generali dipendono dunque, secondo la circostanza, la buona riuscita, il fiasco o il silenzio della filosofia? Dipendono dalle medesime condizioni che prevalgono nella confezione della salsa. Perché una filosofia riesca, si deve disporre di prodotti freschi e si deve essere pari all’impresa: non accontentarsi di riutilizzare tali e quali gli elementi di cui si sono già serviti i filosofi precedenti; e, d’altra parte, disporre di un’intuizione combinatoria originale che nella filosofia che ne verrà ha un compito simile a quello del frullino nella confezione delle salse. Così, per mettere in ordine i suoi concetti, Platone dispose dell’Idea, Aristotele della potenza, Leibniz di Dio, Hegel dello spirito assoluto, Schopenhauer della volontà. Viceversa una filosofia non riesce quando si serve di prodotti avariati, e non sa trovare un principio comune per far stare insieme i vari prodotti utilizzati. Il filosofo senza genio è un cuoco sfortunato o malaccorto, che si fida di idee sbiadite, di temi alterati, che soltanto un miracolo di originalità combinatoria potrebbe ri-amalgamare in una filosofia nuova. E questo miracolo non si produce affatto, poiché il pensatore disgraziato manca d’immaginazione architettonica tanto quanto gli mancano argomenti nuovi. Quindi, ha un bel girare le sue idee in tutti i sensi: la salsa non gli riesce. E, come succede al cattivo cuoco, questo pensatore non sa che fare della filosofia che si trova tra le mani: con l’inconveniente che è più facile buttar via una salsa non riuscita che una filosofia fallita.

 

Rimangono ancora le filosofie che non sono né fallite né riuscite: le filosofie tragiche. Qui il paragone culinario deve essere leggermente attenuato. È vero che il pensare tragico conserva intatti gli elementi che ha rifiutato di mescolare, esattamente come il cuoco recupera gli ingredienti, se rinuncia alla salsa pima d’aver cominciato a frullarla. Ma il pensatore tragico si astiene dal “montare” i suoi elementi in sistema, non perché abbia paura di sciuparli affrontando l’alea della buona o della cattiva riuscita del montarti: egli diffida della buona riuscita più che della cattiva, poiché un mondare riuscito, a suo parere, è inutile e causa impoverimento. È inutile giacchè per il pensatore tragico lo stato prima di “ciò che esiste” ( lo stato che precede la salsa) si manterrà attraverso le sue differenti metamorfosi e trasfigurazioni, che si limiteranno a trasporre il caso di fatto in caso di fabbricazione. È causa di impoverimento, perché c’è più caso nell’in-organizzazione di “ciò che esiste” che in qualsiasi caso organizzato (e per conseguenza vi sono più cose, se vogliamo ripetere un vecchio detto, sulla terra e in cielo che non in ogni filosofia). A questo punto il processo di pensiero tragico è il contrario del processo culinario. Rapprendendosi, la salsa maionese accresce gli elementi che la compongono, e dei quali modifica la natura in profondità. Rapprendendosi, una filosofia, a detta del pensiero tragico, né accresce né modifica in nulla il caso da cui procede, con il risultato, non di trascenderlo, ma di velarlo e di impoverirlo. Ricapitolando, vi sono dunque tre grandi modi di pensare: pensare bene (filosofie costituite, cui è riuscito un sistema), pensare male (filosofie mal costituite, il cui sistema è fallito), o non pensare (filosofie tragiche, che hanno rinunciato all’idea di un sistema). Si potrebbe chiedere in che modo un pensiero propriamente tragico sia caratterizzato dal rifiuto di far rapprendere il caso in sistema, quale appare per esempio in Lucrezio, Montaigne e Pascal.

CLÉMENT ROSSET, La logica del peggio, Longanesi, Milano 1973