Cantare il nome per tenere vivo lo spirito

La voce umana (ḥrw) esprime, nell’antropologia dell’Egitto antico, la potenza creatrice, sia in relazione ai miti cosmogonici, sia in rapporto alla vita ultraterrena. Se il dio Ptah aveva dato origine all’universo mediante il suo grido, l’individuo trapassato può tornare pienamente padrone di sé soltanto a patto che ritrovi, insieme con bocca, le parole per dar vita al mondo, secondo i capitoli 21 e 22 del Libro dei morti. Il canto enfatizza e amplia la cassa di risonanza di questa forza pragmatica, per il suo entrare in relazione con la componente immateriale del soggetto umano, in particolare con lo spirito o ka (kȝ).

Mentre l’azione del cantore (ḥsw , da ḥsi, cantare ) – o della cantatrice – ha nel tempio il compito di placare il dio residente, nel contesto privato della casa o della tomba partecipa a marcare l’identità del committente. In scala ridotta rispetto all’eulogia di corte, di cui abbiamo un suggestivo esempio nella Canzone dalla tomba del re Intef, il genere letterario rivolto alle élites cittadine apre suggestivi percorsi teorici in ambito metafisico.

Ad esempio, il canto di Tenja per il suo signore Nebank, di cui racconta una celebre stele originaria di Abido (K. Sethe, Aegyptische Lesestücke, 1924), ribadisce la centralità del nome (rn) come baricentro personale entro una costellazione di svariate componenti; in secondo luogo il canto è la modalità per stabilire una relazione con lo spirito del defunto e per attivarlo. L’antichissima serenata di Tenja mostra come la voce, modulata nel canto, avesse il potere di coniugare materiale e immateriale, di individuare e trascendere, nella modalità armonicamente equilibrata che nell’Egitto faraonico si riassumeva nell’intraducibile termine maat (mȝˁt).

Il breve testo consegna l’immagine di un artista che prova venerazione per l’alto funzionario Nebank, al quale lo hanno legato in vita affetto e dedizione. Mettersi in ascolto del testo geroglifico, attraverso la modalità della traslitterazione, si rende necessario per coglierne le sfumature, anche musicali e ritmiche originarie.

sw tniˁȝdd=f mn{t}.wj tw m st=k nt nḥḥ m mˁḥˁt=k nt dt

iw=s m.tir tpt dfȝw ˁrf.n=s bw nb nfr kȝ =k nˁ=k

n tš =f ir=k tmw-bitiimi-rȝ pr wr nb-ˁn

iw n=k tȝw ndm n myt in sw=f sˁn rn=f

imȝḫy sw tniˁȝ mr.n=f s n kȝ=f rˁ nb

Il cantore Tenja dice: “Come sei stabile nella tua pace eterna, nella tua sempiterna tomba!/ Essa è colma di offerte e provviste, contiene ogni sorta di bontà. Il tuo spirito è con te / e non ti abbandonerà mai. O grande amministratore Nebank, responsabile del sigillo reale, / a te (è dato) il dolce soffio del vento del Nord!”. Così dice il suo cantore, che ne tiene vivo il nome, / il riverito cantore Tenja, che egli ha amato, che canta per il suo spirito (di Nebank, ndr) ogni giorno (ḥs n kȝ=f rˁ nb).

Nella stele viene chiaramente portata a tema una relazione tra il suono della voce, in forma di canto, e due tratti dell’individuo personale: lo spirito e il nome. Entrambi immateriali, si possono considerare una coppia molto affiatata, nell’antropologia egiziana; il ka riassume le funzioni del sé e non si distacca, generalmente, dal corpo mummificato, a differenza del ba, che può svolazzare ovunque e, non a caso, viene raffigurato con le sembianze di un uccello. Questo stare del ka sempre accanto al defunto evoca il carattere di baricentro personale, la funzione auto-riflessiva del principio incorporeo, ben rimarcata dalla canzone di Tenja (“Il tuo spirito è con te e non ti abbandonerà mai”). L’alter ego del trapassato è piuttosto il ba, con il quale è possibile aprire persino un confronto faccia-a-faccia, per far emergere il proprio malcontento sulle miserie esistenziali. Classico esempio, nella letteratura del Medio Regno, è quel capolavoro noto come Disputa di un disperato con il suo ba. Più fragile, in un certo senso, il ka ha bisogno costante di un rinforzo psicologico; l’autoriflessione va esercitata con metodo, specie nell’oltretomba, perché sia garantita al defunto una continuità identitaria e una solida persistenza del baricentro personale.

Si motiva così la funzione di Tenja, il cui canto – si badi – non parla del ka di Nebank in forma astratta, ma piuttosto del “nome” di costui, della fama che aveva guadagnato in vita come potente portatore del sigillo reale, con un ruolo decisivo in ambito amministrativo. A differenza di altri benestanti che potevano al massimo contare sulla formula dell’appello ai vivi (ˁnḫw tpiw-tȝ) Nebank si era assicurato il canto non-stop di un professionista.

Come in altri documenti, ma in una forma altamente poetica e ritmica, la stele di Nebank ribadisce l’associazione tra il sé spirituale e il nome. Pur non avendo sviluppato alcuna idea vicina a quella di “persona”, nel termine rn l’egiziano antico intuiva una sintesi delle funzioni materiali/immateriali, corporee/spirituali dell’essere umano. Possiamo affermare che il nome-rn nell’Egitto faraonico possedeva almeno alcune delle prerogative assegnate al concetto di “persona” a partire da Severino Boezio, ad esempio era principium individuationis (individua substantia in natura rationali), ma pure rinviava a un’idea di integrità tematizzata da Tommaso d’Aquino (persona significatid quod perfectissimum est in tota natura, Summa Theologiae I, q. 29, a 3) e di centro attivo di razionalità, emozione, volontà molto vicino alla formulazione di Max Scheler (L’eterno nell’uomo, Roma, Logos, 1995). Suggestiva è anche l’associazione, che mi permetto di formulare, sulla base di un’etimologia del termine persona, quella di per-sonare o ri-suonare. Il canto di Tenja, in buona sostanza, questo fa: consente al nome di Nebank di vibrare, attraverso la memoria dei gesti e nel suono delle parole che lo evocano. Lo fa vivere/sˁnḫ (s è prefisso causativo + ˁnḫ, vivere/vita), restituendogli – con il flusso modulato del ritmo canoro – il soffio dell’Esser-ci.