Vladimir Jankélévitch e il mistero della musica di Debussy

In tutti i luoghi testuali in cui Jankélévitch espone le sue teorie sul rapporto tra musica e silenzio, il riferimento alle composizioni di Debussy è sempre presente. La sua musica, penetrata dal silenzio, è considerata «una sorta di cosmogonia in compendio, un riepilogo della storia del mondo». A Debussy, Jankélévitch dedica due testi che confluiranno nel progetto incompleto, De la musique au silence, col titolo Debussy et le mystère de l’instant. La distinzione tra segreto e mistero è sottolineata dal filosofo: il segreto è conosciuto dai privilegiati, avvolto da un certo esoterismo, è settario, come il segreto della Sfinge; il mistero, inconoscibile, nascosto dalla natura, unisce l’umanità intera nell’impossibilità di essere svelato; il segreto insomma è un geroglifico da decifrare che stuzzica il nostro desiderio di conoscenza, il mistero è piuttosto un non-so-che da venerare. Delle grandi figure del mistero ci parla Jankélévitch nel suo primo saggio su Debussy: i misteri del destino (angoscia, voluttà, morte) e quelli del mezzogiorno (articolantesi nei differenti aspetti musicali della stagnanza, della ripetizione, dell’interruzione e dell’oggettività); per il primo caso il filosofo analizza Pelléas et Mélisande: dramma musicale debussyano, tratto dalla prosa di Maeterlinck, sul tragico amore tra Pelléas e Mélisande contrastato dalla gelosia di Golaud. Col mistero d’angoscia Jankélévitch intende «presenza dell’assenza e assenza della presenza, esistenza inesistente e inesistenza dell’inesistente, presenza invisibile di chi non c’è»: il riferimento è al marito la cui presenza è sottolineata da figurazioni ritmico-melodiche che si prestano a suggestioni allusive e ambigue; i misteri di voluttà riempiono di desiderio il terzo atto e d’amore il quarto atto del dramma: «nel silenzio dell’orchestra e nell’oscurità della notte, la voce, balbettando, sussurra […]: Ti amo – ti amo anch’io». Di mistero della morte è intriso l’ultimo atto, considerato una thanatofania: è il Mistero dei misteri, quello del destino dell’uomo, irrazionale pur nella sua ineluttabile prevedibilità, è il ritorno al silenzio della morte. I caratteri della misteriologia debussyana risultano essere l’oggettivismo, la stagnanza, il presentismo, come se ogni composizione fosse un’istantanea sul mondo, un’immagine immobilizzata dell’Universo, e in questo senso la musica di Debussy è una “cosmogonia universale” che afferra l’inafferrabile, sorprende la vita all’improvviso nel suo quotidiano scorrere, ritraendola in un dagherrotipo musicale. Un esempio di istantaneismo debussyano è offerto dalle sue composizioni meteorografiche come Nuages o The snowis dancing: si tratta di elementi naturali “fotografati” in musica. Debussy, per Jankélévitch, utilizza espedienti compositivi atti a creare atmosfere irreali nel loro realismo: attraverso i trilli, le dissonanze, i glissandi, egli riesce nitidamente a rendere il fruscio del vento, lo scrosciare dell’acqua o il silenzio pietrificante della neve. In questa magica sinestesia, l’immaginazione è disorientata: non si tratta di attribuire arbitrariamente immagini all’inesprimibile-espressivo che è la musica, ma di percepire ognuno di questi elementi che entra prepotente nelle composizioni in maniera quasi irreale e se ne appropria misteriosamente. Di presenza assente, parla Jankélévitch in Debussy e il mistero, quasi che nello spazio sonoro coesistano lontananza e vicinanza: «nessuna musica al mondo – scrive – riesce a darci una simile impressione d’immensità, di spazio e di plein air». In questo panteismo musicale gli oggetti perdono di consistenza, vengono meno nella loro pesantezza corporea, e la situazione uditiva pone l’ascoltatore in una condizione di approssimazione continua, che altro non è se non la condizione stessa di ambiguità e anfibolia in cui si trova l’uomo, teso sul filo dell’istante diffluente, in uno stato meridiano in cui la propria esistenza è quotidianamente al culmine e si prepara al declino. Ma la musica debussyana non è soltanto cosmogonica ma è anche silenziosa, «completamente immersa nell’oceanografia del silenzio»: è la soglia sottile tra udibile e non-udibile, musicalmente reso con tutte le sfumature impercettibili che vanno dal piano al pianissimo; «nessun orecchio è abbastanza fine, nessuna acustica abbastanza sottile per questa micromusica», scrive Jankélévitch, a sottolineare l’atmosfera innocente che avvolge le composizioni di Debussy: è l’incoscienza di conoscere la verità per il fatto di coincidervi, come la musica esprime l’inesprimibile non-so-che proprio perché si identifica con esso. L’innocente in Debussy è Mélisande, testimone del destino dell’uomo: «è felice-ma-triste, triste benché soddisfatta, triste malgrado il suo vasellame d’oro, il suo ricco corredo e il suo bravo marito; e avendo tutto ciò che occorre per essere felice ella stessa si stupisce del suo inesplicabile tormento, arrivando quasi a rimproverarsi della sua ingratitudine». Il malessere profondo dovuto alla consapevolezza della fatalità della vita, l’incapacità a soddisfare i propri desideri, l’angoscia di riconoscersi mortale: tutto questo, e molto altro ancora, è l’innocente musica di Debussy.