Hermeneia e mimesis: l’attualità dello Ione platonico / Filosofia dell’interpretazione musicale

Possiamo esserne sorpresi, ma lo Ione platonico si rivela testo estremamente attuale per una matura e spregiudicata lettura del problema interpretativo, soprattutto se inteso musicalmente. Certo, mousiké è in greco termine ampio, atto a connotare più che la nostra musica: eppure è a noi musicisti che questo singolare Dialogo, definito da Jean-Luc Nancy “breve, ambiguo, straordinario”, pare parlare in modo particolarmente diretto. 

Consueto scenario: sulla piazza di Atene ha luogo il confronto tra il famoso rapsodo Ione, originario della dolce isola di Chio, vincitore di una gara poetica ove egli ha interpretato Omero, suo cavallo di battaglia, e Socrate. I due si fronteggiano rivelando sin dalle prime battute visioni del mondo totalmente differenti. Ma è proprio questa radicale diversità che incuriosisce Socrate. Ione è un seduttore e ipnotizzatore di folle: è un solista, un mousikòs nel senso completo del termine; tiene la scena di fronte ad appassionate maree di spettatori, recitando Omero che ama in modo esclusivo e irrazionale: non saprebbe dire perché ma ne è rapito e mosso e ispirato: non appena entra in Omero, o meglio non appena quel poetare lo possiede, ecco, il suo intero essere cambia di natura e di tono, ed egli è innalzato oltre se stesso. Hermeneus, nunzio del Poeta nel suo proprio Dire, egli partecipa della natura proteiforme di Hermes, fa l’opera per intero, imitando persino gli scoppi di tuono: entra ed esce dai personaggi: con una capacità mimetica eccezionale diventa ognuno di questi, caratterizzandone l’essenza e rivivendone ogni storia con ritmi, harmonìai e piedi e toni di voce, e rime… e pianti, e scoppi di gioia, e intonazioni dolorose ed estatiche… e poi ne esce, entrando in altro, in altra musica, in altra essenza! Ha una memoria prodigiosa perché il suo corpo stesso ritiene l’opera.Tutto, in lui, è musicale. Possiede la capacità, eticamente sconcertante, di commuoversi a comando, di simulare terrore, spavento, furore, passione. 

Cosa sai, venerabile Ione? E cosa metti in scena, invece? Dove sei tu? Quale forza ti consente di sdoppiarti? E l’ipnotismo cui soggiaci, di quale strana natura è? E quello cui sottometti i tuoi spettatori, con il tuo carisma, con il tuo potere evocativo, donde viene?  Ione, incalzato da Socrate, risponde: e i due dipingono così la teoria dell’enthousiasmòs, in cui radicalmente consiste la vera ispirazione poetica. Essa significa essere nel dio, o nel divino: ma non per dimorarvi sicuri, e in sostanziale staticità: ma per esser consegnati a una forza che afferra ed eleva e rapisce. Il Poeta è inspirato in alto, in volo, molto oltre se stesso, presso regioni estranee che egli non controlla: è, invece, posseduto dal dio; o theos autos esti o legon (il dio stesso è il parlante): e questo Poeta invoca ora un altro anello della catena, il nodo centrale, l’indispensabile interprete appunto, il rapsodo, l’aedo dalla voce e dagli accenti che perpetuano quell’ipnotico evento, e lo dicono, lo performano; e l’interprete evoca e trascina il pubblico, ultimo anello decisivo nella catena di entusiasti: e gli anelli in teatro si saldano perché il primo di questi, il divino appunto (ma recitato, dunque vivo per mezzo dell’interprete), si comporta come un magnete che attira a sé e tiene unito altro materiale altrimenti inerte, trasmettendo intatta la sua forza ad ogni anello successivo: anzi la moltiplica, la pluralizza, la perpetua.

Dunque Ione, artista-interprete, soggiace a logica diversa – eppure è una logica – da quella socratica: egli non trasceglie, ma accoglie; la memoria mimetica è il baricentro della sua cangiante personalità; non vuol sottrarsi all’ipnotismo della tradizione (come tenterebbe di fare lo spirito critico del filosofo platonico, pietra d’inciampo del fiume in piena, argine ad ogni e-mozione passivamente intesa) ma anzi vi si consegna, e naviga dentro la storia, e si fa pedagogo di un’ambigua eredità: ambigua perché di senso artistico, tragico, finto, legato non già ad una pacata dizione della verità, o a una sua cauta circumambulazione, ma alla finzione scenica: che Ione cinicamente controlla: egli confessa difatti, ma candidamente, di recitare per compenso, ovvio! È questo il suo strano mestiere: mentre sulla scena agisce apparentemente inondato del suo personaggio, Ione conserva un vigile cinico vuoto che gli consente d’essere efficace, ovvero non eccessivamente commosso – altrimenti sa che fallirebbe il suo scopo (e uscirebbe da teatro con un gruzzolo più povero, colpevole di non aver suscitato la mimesis del pubblico); ma gli consente anche qualcos’altro: di tenere entro argini artistici, ovvero misurati e formali, la sua rappresentazione, preservandone potenza, sintesi, virtuosismo, perfezione. Dunque quel vuoto cinico, quel controllo, è paradossalmente il mezzo che consente abbandono, verità, spontaneità e adesione al testo, secondo un gioco tipicamente ermeneutico di prossimità e distanza di cui si nutre l’idea stessa di interpretazione pubblica, e la sua pratica: che ha, come maggior pericolo, la caduta del diaframma, di quel velo sottile che separa e salva e distingue l’interprete da ciò che egli interpreta, soprattutto in pubblico. Se il diaframma cadesse, follia, coinvolgimento eccessivo, disequilibrio e vertigine si introdurrebbero nell’esistenza dell’interprete la cui dimensione personale diverrebbe tragica, esposta: altro che cinismo di mestiere.

Dunque è legittima la domanda: Ione è un mestierante o un ispirato? E commovente la risposta di Socrate, a fine dialogo: appare chiaro che “theion einai, kai mè technikòn:  sei uomo divino, non abile tecnico, venerabile Ione”.

La natura hermetica dell’artista è anche questa: egli è messaggero divino; e significa e rappresenta e diviene (con l’attrezzatura tecnica del caso, con la destrezza performativa che preserva e garantisce buone esecuzioni) ciò che il Poeta sugge, come un’ape (mèlissa) nei giardini delle Muse: l’opera stessa, ovvero il meli (miele) della poesia musicata: questa non è solitario sfogo ma vive ed è per esser detta e recitata e condivisa e imitata in pubblico: così quel miele diventa melos, atto a scivolare giù per i condotti uditivi e curare, scaldare gli animi, trasformare, condurre fuori, salvare.

E teniamo presente che mimesis significa ben più che imitazione: è memoria, ma nel senso etimologico greco, laddove la ripetizione sillabica implica l’atto di rifare, di divenire l’altro, di immedesimarsi in altro (meme francese conserva il ricordo della ripetizione), di entrare in un ordine che si apprende per ritmo, per via musicale.

Ora, non è di estrema attualità questo dialogo?

Non è di grande pregnanza ermeneutica ed estetica, non dice cose che agli interpreti sono notissime, e così ai filosofi, svelando analogie straordinarie immediatamente presenti anche al pubblico?

A parte il girovagare di Ione-artista che ci ricorda uno spassoso episodio occorso ad Arturo Benedetti Michelangeli (a Michelangeli un funzionario chiese: Cosa fa di mestiere? Suono – rispose Michelangeli con la sua proverbiale sintesi; Dove suona? Incalza quello, – Qua e là; – Girovago, allora.. – Esatto: girovago), balza agli occhi immediatamente che il “vuoto necessario”, il cinico controllo cui fa riferimento Ione è espresso con le identiche parole di Busoni: “Se sono troppo commosso, non commuovo: se eccessivamente coinvolto, sbaglio, fallisco il colpo” – donde la problematica necessità di preservare sincerità d’ispirazione e artificio, cautela di mestiere. 

Ma più profondamente: Ione (il dialogo nella sua interezza) non sintetizza forse almeno due tendenze che rinveniamo presso interpreti di grande statura, i cui exempla più prestigiosi e radicali possiamo forse rintracciare, in forma particolarmente radicale e dichiarata, in Glenn Gould e Claudio Arrau? Ecco l’interprete socratico-platonico (Gould), assolutamente deciso a non soggiacere all’ipnotismo del concerto e alle sue feroci, sterili leggi borghesi, assolutamente determinato a isolarsi per preservare gelosamente, e trasmettere intatta attraverso il disco, la Visione platonica ricevuta in privato, senza la tirannia del circo, senza la tachicardia alterante della performance, vissuta come inutile fonte di inquinamento d’idee; ed ecco Claudio Arrau, sulla sponda opposta: alla medesima domanda: “Si deve suonare in pubblico? Ha un senso?” Egli risponde entusiasticamente (ma non senza aver compiuto percorsi significativi, prima): mille volte sì!  Suonare in pubblico è grande vicenda di compresenza, di ispirazione irripetibile: di corpi e di voci, mai assenti in ogni interpretazione (diremo bene in che senso); di quadri, di forze, di spinte possibili solo se legate a chi ci guarda, solo se siamo capaci di avvincere il pubblico alla nostra comune ansia: l’ansia dell’umanità che dà senso alla nostra angoscia di artisti anche di fronte all’idea della performance, e al dolore e alla gioia della vita.

Proprio questo sarà l’argomento dei nostri prossimi appuntamenti: Glenn Gould e Claudio Arrau ritratti come filosofi della musica (lo sono) oltre che come grandissimi interpreti: le due cose si compenetrano, sono tutt’uno, ed evocano altre figure filosofiche, molte altre considerazioni possibili.